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Integrazione, mozzarella e kebab La più richiesta è la pizza al kebab, una classica margherita ricoperta di carne di vitello appena affettata. “Pizza Fly”, la pizzeria di Ahmed e Mustafa el-Badry, sembra l’emblema dell’integrazione degli egiziani a Milano. E’ venerdì, giorno di mercato; per arrivare da 'Pizza Fly' bisogna attraversare una via trafficata, dove volti mediorientali si affannano tra le bancarelle disposte sopra un binario morto del tram. Potrebbe essere il mercato di Bab el-Louq al Cairo, invece siamo a Milano.
Ahmed, il proprietario, è un ragazzo sulla trentina, gentile ma poco loquace. Parla poco di sé, non vuole farsi fotografare e, intorno alle 13, si scusa, mi saluta, mette il grembiule e, insieme agli altri, si divide tra la cassa e i tavoli. “Quando sono arrivato, nel 1998, ho fatto fatica a trovare lavoro”, racconta. Ha raggiunto Milano direttamente da el-Menoufia, la cittadina sul delta del Nilo da cui provengono buona parte degli egiziani milanesi. “Mio fratello era già qui e faceva il muratore; all’inizio l’ho fatto anch’io, poi mi hanno assunto come lavapiatti in un ristorante italiano”. Da lavapiatti è diventato aiuto cuoco e poi pizzaiolo: “Sfornavo almeno 700 pizze al giorno, lavoravo più di dieci ore e guadagnavo poco più di un milione e duecento mila lire”. Così, due anni dopo, messo da parte il capitale necessario, ha deciso di aprire un’attività in proprio: insieme a due amici, ha rilevato da un italiano una pizzeria d’asporto vicino alla Stazione Centrale. Poco dopo, ha aperto anche “Pizza Fly”.
In futuro Ahmed vorrebbe restare a vivere a Milano; per questo ha fatto domanda per il ricongiungimento famigliare. “Sono passati mesi e non ho ancora avuto risposta: per ottenere un appuntamento all’ambasciata italiana al Cairo sono stato attaccato al telefono per quattro giorni; quando mi hanno risposto, mi hanno fissato un colloquio quattro mesi dopo”, racconta. A
questo punto si scalda e comincia a parlare di più. Dice che
in Italia sta bene: ha amici e un buon lavoro. Ma non parlategli di
integrazione: “Non è la gente, spesso è lo stato
che ci tratta male. I miei amici egiziani emigrati in Sudamerica dopo
due o tre anni iniziano a definirsi argentini o cileni. Qui non è
possibile: anche se lavoriamo e siamo onesti, a distanza di anni restiamo
sempre stranieri”. |
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