| Magari
non avete mai fatto caso al marchio del vostro lavabo,
a quello del piatto doccia, del water o del bidet. Se
avete comperato i sanitari in Italia, è molto
probabile che il bagno dove vi lavate ogni mattina sia
un bagno Ideal Standard. Potrebbe essere firmato Ceramica
Dolomite e potrebbe essere stato creato in un piccolo
comune in provincia di Belluno, su su tra le Dolomiti
(appunto). Tra qualche anno potrebbe diventare un reperto
di archeologia industriale e con esso la fabbrica e
la piccola comunità che con quella fabbrica per
45 anni si è identificata.
“Trichiana è la Ceramica Dolomite”,
racconta la gente con l’orgoglio un po’schivo
dei bellunesi e una punta fastidiosa di preoccupazione.
Nel 2009 le sorti di Ceramica Dolomite, alle quali è
legato a doppio filo il benessere del comune, sono diventate
incerte. La crisi economica non ha risparmiato il bellunese.
Nel caso di Ceramica Dolomite, l’effetto del terremoto
americano – che ha colpito in particolare l’edilizia
(e senza case, niente più bagni) – è
stato amplificato da anni di politiche commerciali faticose
e da operazioni finanziarie slegate della realtà
produttiva della società.
Il 2 luglio 2009 Ideal Standard industriale, società
di cui Ceramica Dolomite fa parte, ha annunciato un
anno di cassa integrazione per i 1.549 dipendenti delle
fabbriche di Trichiana (Belluno), Orcenico (Pordenone),
Brescia, Gozzano (Novara) e Roccasecca (Frosinone),
poi a novembre, al termine di un complicato negoziato,
ha chiuso gli stabilimenti di Brescia e Gozzano, mentre
gli altri lavorano a ritmo ridotto. A Trichiana più
di un lavoratore su tre è stato dichiarato in
esubero e per due anni si andrà avanti con i
contratti di solidarietà. E dopo?
“Trichiana è la Ceramica Dolomite”,
ripete la gente del paese. Ma intende: “Se Ceramica
non c’è più?”. Questa è
la loro storia e la storia di una buona azienda finita
nel vortice della finanza internazionale e della crisi
economica mondiale.
Ceramica Dolomite è stata creata nel 1965 grazie
ai fondi statali stanziati dopo la tragedia del Vajont
per sostenere l’economia del bellunese. I tre
soci fondatori, ex-dipendenti di una fabbrica di sanitari
di Pordenone, colsero al volo “l’occasione”
dei finanziamenti del governo e si spostarono a Trichiana,
un piccolo comune in provincia di Belluno. L’amministrazione
promise loro un aiuto per realizzare lì il sogno
di una fabbrica in proprio, perché il progetto
coincideva con i bisogni di una comunità snaturata
dall’emigrazione. Negli anni l’interdipendenza
tra l’azienda di sanitari e Trichiana si è
radicata: il Comune ha costruito i servizi necessari
all’impresa (la discarica per rifiuti speciali,
l’acquedotto industriale, le strade…) e
ha offerto manodopera riconoscente e orgogliosa, Ceramica
Dolomite a sua volta ha rappresentato per molti cittadini,
spesso per famiglie intere, un lavoro sicuro, dietro
casa, ben retribuito.
Ceramica Dolomite fin da subito ha successo, complici
il boom economico (ed edilizio) degli anni ’60
e la carenza di fabbriche concorrenti in Italia. Esporta
all’estero e cresce in dipendenti, numero pezzi,
fatturato. Contribuisce a svecchiare il mercato di sanitari
italiano con prodotti che per la prima volta puntano,
oltre che sulla qualità e l’igiene, anche
sull’estetica in bagno. Con il passare degli anni,
Ceramica Dolomite perde la sua dimensione “familiare”
per strutturarsi in un’organizzazione più
complessa.
Nel 1990 l’azienda viene acquistata da una multinazionale
inglese, Blue Circle Industries. Blue Circle, che produce
soprattutto cemento, non mette naso negli affari della
nuova proprietà italiana: lascia tutto com’è,
e fa bene, dato che tutto va a gonfie vele. Ceramica
Dolomite continua a rosicchiare quote del mercato italiano.
Alla fine degli anni ’90 è arrivata al
25%.
Il leader dei sanitari in Italia è Ideal Standard,
che controlla il 30% del mercato. Ideal Standard ormai
teme Ceramica Dolomite. Nel momento in cui Blue Circle,
in difficoltà economiche, decide di vendere la
fabbrica di Trichiana (è il 1999), Ideal Standard
coglie al volo l’occasione di acquistare la sua
più temibile concorrente, stracciando gli altri
possibili acquirenti con un’offerta impareggiabile.
L’integrazione in Ideal Standard non è
facile: a parte la delusione di essere comperati dal
“nemico” (tra l’altro nel momento
in cui lo si stava per battere), ci sono la difficoltà
di riorganizzare la produzione armonizzandola con quella
delle altre quattro fabbriche del gruppo e la fatica
di conciliare due politiche commerciali in origine concorrenti
e molto diverse tra loro.
A parte le
difficoltà, comunque, il fatturato di Ceramica
Dolomite continua a crescere. In breve Ideal Standard
conquista quasi il 50% del mercato.
I veri problemi nascono dopo il 2006, quando American
Standard, holding proprietaria di Ideal Standard, decide
di cedere il suo comparto sanitari. Le politiche produttive
e commerciali dell’azienda, fino ad allora schiettamente
industriali (“produrre bagni per venderli”),
passano in secondo piano: l’obiettivo principale
diventa “pompare” al massimo Ideal Standard,
per venderla al meglio. La produzione viene enormemente
aumentata e i grossisti vengono indotti a comperare,
comperare, comperare. I distributori riempiono i magazzini,
mentre Ideal Standard guadagna in redditività
e appare più grassa di quello che è in
realtà.
Nel 2007 American Standard vende Ideal Standard a un
fondo di investimenti americano, Bain Capital. Bain
Capital fa tutt’altro che produrre bagni: acquista
imprese di ogni genere, le ristruttura (tagliando i
rami secchi) e poi le rivende, guadagnando sulla differenza.
Le sue politiche sia industriali che commerciali, “buone”
per qualunque azienda in qualsiasi angolo del pianeta,
sono completamente indifferenti al contesto in cui operano.
Bain Capital
compera Ideal Standard per 1.76 miliardi di dollari.
Gran parte della somma è coperta da un prestito
di un pool di banche. Il prestito è garantito
dalle stesse aziende acquistate, dai loro marchi e dalle
loro reti commerciali.
L’acquisizione si rivela però un guaio
(anzi, un doppio guaio) per Bain Capital: la finanziaria
si ritrova tra le mani un gioiellino meno prezioso di
quanto sembrasse a una prima occhiata, e se lo ritrova
tra le mani proprio nell’anno del terremoto finanziario,
il 2008, quando cioè diventa decisamente difficile
venderlo.
I magazzini
dei grossisti sono stati riempiti negli anni precedenti
grazie alla politica di sconti e premi dell’ultima
gestione American Standard. Con la crisi economica (che
nasce da una bolla immobiliare, ed è in primo
luogo crisi edilizia), anche i pezzi già acquistati
rimangono in magazzino, figurarsi comperarne di nuovi.
Le vendite calano molto e la struttura produttiva di
Ideal Standard diventa eccessiva rispetto al mercato.
E, a causa della difficile congiuntura economica, Bain
Capital non può vendere, a meno di perdere parte
del grosso investimento fatto acquistando Ideal Standard.
Il 2 luglio 2009 Ideal Standard comunica ai dipendenti,
ai sindacati e al governo il ricorso alla cassa integrazione
per un anno nei suoi cinque stabilimenti italiani. Dopo
alcuni mesi di manifestazioni e incontri al ministero
dello Sviluppo economico, per tre fabbriche su cinque
si profila un futuro fatto di contratti di solidarietà.
Gli stabilimenti di Brescia e Gozzano vengono chiusi.
A Trichiana si lavora a tempo ridotto da febbraio 2010.
Per due anni non ci dovrebbero essere altre rivoluzioni.
La gente in paese tira un sospiro di sollievo, ma rimane
sospettosa. La fastidiosa punta di preoccupazione ancora
non se ne va.
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