In
dieci anni, nessuno a Trichiana ha imparato a chiamare
Ceramica Dolomite con il suo nuovo nome, Ideal Standard.
“Ceramica – spiega Giorgio Cavallet,
sindaco del paese dal giugno 2009 – fa parte della
nostra storia collettiva dal 1965, quando venne creata
grazie ai fondi statali per il Vajont. Nessuno ci pensa
a chiamarla in altro modo”.
In realtà nel 1999, dopo nove anni di gestione
inglese, Ceramica Dolomite è stata acquistata da
American Standard, multinazionale di prodotti sanitari.
Da allora il marchio appeso fuori dal cancello d’ingresso
a Trichiana è Ideal Standard. Così si chiama
la società europea “figlia” di American
Standard. Il cartello Ideal Standard è rimasto
anche dopo il 2007, quando la società è
stata venduta a un fondo di investimenti di Boston, Bain
Capital.
Tre passaggi di proprietà in dieci anni, che il
paese di Trichiana ha seguito con crescente sospetto,
mentre continuava la vita di sempre. Del resto, nulla
di sconvolgente è mai successo: per quarant’anni,
percorsi i 20 chilometri della strada che viene da Belluno
il grande capannone grigio con la scritta Ceramica Dolomite
accoglieva il viaggiatore alle porte del paese. Per quarant’anni
Ceramica è stata la sicurezza di un posto di lavoro,
che se non è il tuo è quello di tuo papà,
di uno zio, di un amico. Nulla di sconvolgente. Almeno
fino al 2 luglio 2009, quando per la prima volta i cittadini
si sono resi conto di quanto
Ceramica sia vulnerabile. Come ha detto uno di loro: “Siamo
diventati delle pulci. E la Bain, quando vuole, crac,
ci schiaccia”.
Per Trichiana, la chiusura di Ceramica sarebbe un piccolo
Vajont. D'altra parte Longarone, il comune spazzato via
nella notte del 9 ottobre 1963 da 80 milioni di metri
cubi d’acqua, è a soli 30
chilometri da Trichiana. Parodossalmente
Trichiana e l’intera economia bellunese non sarebbero
riuscite a scrollarsi di dosso la definizione di “zone
depresse” senza il Vajont. L’emigrazione
avrebbe continuato a spopolare le valli degli uomini
e dei giovani, che avrebbero continuato ad ammalarsi
di silicosi in Svizzera, Belgio, Germania e America.
A metà degli anni sessanta, erano più
di 800.000 i bellunesi
in giro per i continenti contro i 234.000 che continuavano
a vivere tra le montagne.
In
questa terra drammatica, arrivò la distruzione
del Vajont. Poi gli incentivi statali, la costruzione
della fabbrica, la vita che cambiava, il ritorno degli
emigranti. Tutto questo è ora a rischio.
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