Nel
1999 Blue Circle, in difficoltà, vende il gruppo
Ceramica Dolomite ad American Standard, una holding
che produce condizionatori, freni per automobili e sanitari
per bagni e cucine, e fino al 2006 Ceramica Dolomite,
divisione di American Standard Italia, mantiene una
sua struttura organizzativa. Poi viene unificata con
Ideal Standard, la società di American Standard
nel campo dei sanitari che copriva il 30 per cento del
mercato in Italia, mentre Ceramica Dolomite era arrivata
al 25 per cento.
“Ideal
Standard ci ha comperati per gestire il concorrente
più temibile. Stavamo erodendo il loro mercato”,
sostiene Pietro Ranon, fino al 2005
direttore vendite Ideal Standard e Ceramica Dolomite.
Ideal Standard non ha alcuna intenzione di farsi sfuggire
l’occasione di inglobare una realtà che
gli crea delle difficoltà nel mercato italiano:
“La loro offerta – continua Ranon
– è stata esorbitante, rispetto a qualunque
altra. Non c’è stata gara. Hanno pagato
qualcosa come 730 miliardi di dollari per Ceramica e
Armitage Shench (l’altro marchio di sanitari proprietà
di Blue Circle), che erano valutate 330-340 miliardi.
E avevano un fatturato di 110-120 miliardi”.
Questa
volta per Ceramica Dolomite cambia lo scenario sia dal
punto di vista produttivo, sia da quello commerciale.
La
fabbrica di Trichiana entra a far parte di un gruppo
con altri quattro stabilimenti in Italia - a Orcenico
(Pordenone), Brescia, Gozzano (Novara), Roccasecca (Frosinone)
- e oltre duemila dipendenti, diventato con l'acquisizione
l’indiscusso leader in Italia: ha quasi il 50%
del mercato.
Il
successo del gruppo però comporta dei problemi,
soprattutto in campo commerciale. “La distribuzione
non ama avere un fornitore unico – spiega Pietro
Ranon, che in quegli anni è stato direttore
commerciale per Ceramica Dolomite e poi direttore vendite
Ideal Standard e Ceramica Dolomite – perché
si sente violentata da un monopolio di fatto. Ceramica
Dolomite, prima di essere inglobata, aveva guadagnato
quote di mercato anche perché ai grossisti faceva
piacere poter scegliere un marchio di qualità
alternativo a Ideal Standard. Fin dal primo anno abbiamo
faticato per creare una politica commerciale che tranquillizzasse
la distribuzione e mantenesse i due marchi distinti
nel mercato (ma non più concorrenti) nonostante
la gestione unificata”.
Al di là dei problemi della distribuzione, dal
1999, anno dell’acquisizione, fino al 2004, il
fatturato dell’azienda è comunque cresciuto.
La società, che puntava a rafforzare la propria
presenza nel mercato italiano e in quello europeo, continuava
a occuparsi della produzione industriale, investendo
per modernizzarla.
I veri problemi nascono quando American Standard decide
di vendere Ideal Standard. Le logiche della multinazionale
non sono più solo industriali e commerciali:
diventa primario massimizzare la redditività
della società per procurarsi il maggior profitto
possibile al momento della cessione.
Da
questo momento cominciano a sommarsi le scelte, le disattenzioni
e gli errori che - a giudizio degli ex dirigenti e dei
lavoratori intervistati - hanno reso ancora più
difficile la crisi del 2009 per l’ex-Ceramica
Dolomite e per le altre fabbriche italiane sue compagne
di sventura. La società, ripetutamente interpellata
nel corso dell'inchiesta, non
ha risposto alle richieste di chiarimento.
La politica del massimo risultato nel brevissimo periodo
non si cura di mantenere buoni rapporti con tutti i
grossisti. Quello che importa è vendere molto,
per aumentare il valore della società: i piccoli
grossisti, anche se altamente fidelizzati, contano meno
dei più grossi, se il numero di pezzi acquistati
da questi ultimi è superiore. Ideal Standard
mette a rischio la fiducia di parte della sua rete di
distribuzione.
Ideal
Standard produce a pieno ritmo e vende prodotti a prezzi
buoni, promuovendoli con ottimi sconti e premi vari:
i clienti fanno incetta di lavabi e water e riempiono
i magazzini. Problema: dopo i saldi, se gli armadi sono
pieni, per un bel periodo non si comperano più
vestiti. O si comperano solo se indispensabili. Ma gli
anni successivi sono gli anni della crisi: la domanda
diminuisce, e nei magazzini rimangono moltissimi invenduti.
L’ultima
gestione American Standard realizza fatturati altissimi,
producendo molto e abbassando i prezzi. La politica
ideale per vendere un’azienda. Un po’ meno
adatta a garantirle un futuro. Nel 2006 produce 3.380.000
pezzi. Nel 2007, il numero cala di 200.000 unità.
Nel 2008 (Ideal Standard non è più proprietà
di American Standard) i pezzi prodotti sono diventati
2.875.000: in due anni
quasi il 15 per cento in meno.
“Tra il 2004 e il 2007 - racconta un dirigente
Ideal Standard che vuole rimanere anonimo - abbiamo
buttato via tanti di quei soldi: abbiamo pagato a peso
d’oro dei dirigenti perché andassero a
casa anziché farli lavorare. Abbiamo dovuto chiudere
alcune fabbriche in Europa, perché ne avevamo
comperate troppe: negli ultimi anni abbiamo acquistato
molti nuovi marchi, e con essi abbiamo preso anche gli
stabilimenti dove venivano prodotti, che spesso erano
in perdita. Trasferire un modello da una fabbrica a
un’altra è sempre difficile, e noi abbiamo
preso delle botte in testa clamorose. Finché
Ideal Standard guadagnava, le cose che non andavano
venivano facilmente digerite: ora che l’azienda
va male, gli errori si sentono, eccome. Ad esempio:
a novembre e dicembre 2007 abbiamo fatto straordinari
per aumentare la produzione. Eppure i responsabili in
Europa sapevano benissimo che in magazzino c’erano
già un milione e mezzo di pezzi pronti per essere
venduti. Ma serviva fare risultato, per vendere Ideal
Standard al meglio. Poi c’è anche un altro
problema: siamo troppo grandi, un elefante. Abbiamo
le dimensioni dell’Alitalia, per capire. Solo
che, a differenza dell’Alitalia, il nostro prodotto
ha poco valore e costa moltissimo, specialmente in manodopera.
E ci sono troppi rami dell’azienda e troppi responsabili,
che non si parlano tra loro e hanno spesso obiettivi
diversi. Decidere qualcosa o intervenire per risolvere
un problema è sempre un casino.”
Nel 2007, Ideal Standard chiude con un fatturato di
266 milioni di euro, trenta milioni in meno rispetto
all’anno precedente. E quaranta milioni in più
rispetto all’anno successivo, il 2008 horribilis
della crisi, il primo a gestione Bain Capital.