Parlando di arte
multimediale, si può parlare di continuità con
il passato, con la tradizione, o piuttosto di
rottura? L'atteggiamento
di destrutturalizzazione è sempre quello, cambia
solo la tecnica, che oggi è rappresentata dal
mezzo telematico. Esiste una forte continuità
con tutto il filone dell'avanguardia, dal
futurismo al dadaismo, al collage, al
costruttivismo, al Bauhaus fino all'arte
programmata e cinetica degli anni '60, e penso ai
suoi casi migliori, come l'artista olandese
Moholy Naagy. Ma pensiamo anche a Marray, che
creava opere fotografiche senza usare la
pellicola. Continuità anche con il gruppo
Fluxus, il movimento artistico degli anni '60
composto da George Maciunas, Yoko Ono, Ben
Vautrier, Ken Friedman, John Cage. Già allora si
lavorava sulla possibilità di interazione con il
mezzo e la Web art fa in fondo la stessa cosa.
Gli artisti digitali hanno
solo sostituito il mouse con il pennello, oppure
il nuovo mezzo tecnologico, il computer,
costringe anche a ripensare il ruolo stesso
dell'artista?
L'arte multimediale gode di una
euforia per la scoperta del mezzo, il computer.
L'atteggiamento degli artisti multimediali,
talvolta a livello inconscio, è da vecchi
umanisti. Il tentativo è quello di dimostrare
che la scienza telematica è buona, che fa del
bene all'uomo. Di umanizzare la tecnica.
L'immagine assume le stimmate del mezzo che usa,
sviluppa una relazione con il pubblico, che
riconosce che il computer che è oramai diventato
un oggetto comune. Credo che vi sia un tentativo
di sviluppare una comunicazione allargata, frutto
di un desiderio di apertura sociale, anche se con
risultati molto estetizzanti. Se esite una
differenza va ritovata nel fatto che oggi
l'avanguardia non è più autoesclusione,
isolamento, produzione di un linguaggio
esclusivo. L'arte telematica è comunicazione.
L'arte digitale pone il problema di una vera
interazione degli utenti col mezzo, che diviene
parte dell'opera d'arte.
In che senso questa
comunicazione ottiene risultati estetizzanti?
In generale, prevale l'euforia
per la sperimentazione tecnica, soprattutto fra
gli artisti italiani, e allo stesso tempo resiste
ancora un gusto per la forma, per il bello, un
retrogusto estetico che spesso comporta quello
che io chiamo "anoressia
dell'immagine": in un mondo smaterializzato
e smaterializzante, in cui la telematica produce
ogni tipo di servizio a domicilio, l'uomo è
immobilizzato, paralizzato, signore e schiavo del
mezzo. Allora anche l'immagine che gli giunge è
smaterializzata, appiattita, anoressica. In
Italia soprattutto Edipo è molto forte e si
impone.
Un passato ingombrante?
No, importante. Tutti in Italia
in fondo fanno i conti con un proprio Edipo: chi
con Benedetto Croce o Carlo Marx, io, ad esempio,
faccio i conti con un napoletano, Totò. Edipo
può essere un punto di forza o una debolezza.
Può valere come stimolo. Il Italia si deve fare
i conti con la tradizione, non si può
prescindere dalla storia dell'arte. Gli americani
hanno uno sguardo più libero. Guarda caso nella
transavanguardia calda, rappresentata dagli
europei e dagli italiani, esiste un atteggiamento
culturale importante, noi lavoriamo nella
citazione continua del passato, della storia
dell'arte. Loro, gli americani, lavorano sulla
citazione della cronaca.
Lei crede che abbia un senso
esporre delle opere digitali, presenti anche su
Internet, nei musei?
Perchè no. In fondo entrare
nei musei è come sfogliare un catalogo. Lo sa
che sono diventato anch'io un po' virtuale? La
mia voce fa da sonoro a un CD-Rom di
presentazione alla mostra Minimalia, che si tiene
dal 10 ottobre al 2 gennaio a New York al P.S.
Museum, il più avanzato museo americano, che ha
stabilito una sinergia con il Moma (Museum of
Modern Art). Io sono la guida per un viaggio
attraverso tutta l'arte italiana del Novecento,
dal futurismo alle opere dei nostri giorni.
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