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I
primi sono arrivati nel 1998, a bordo di un autobus organizzato. Del
paese restavano solo travi in cemento seminascoste dalle piante infestanti.
La definizione tecnica sulle mappe è “paese distrutto
al cento per cento”. Da allora è cominciato un lavoro
lento e paziente: il lungo iter per ottenere i finanziamenti, la scelta
di ricominciare
dalla scuola. Giorno dopo giorno il paesaggio si trasforma,
tra gli alberi si intravedono i tetti, lungo la strada le aiuole di
fiori. Chi passa in macchina lungo la statale comincia a riconoscere
la forma di un paese.
Dietro i muri non intonacati c’è un altro fervore di
vita che riparte, fatto di incontri e chiacchiere in piazza, dei bambini
che sfrecciano in bicicletta. Alle ore di preghiera si sente la voce
del muezzin, tra il vociare degli uomini seduti a bere un caffè.
E’ il respiro del paese che
non si vede, l’embrione di una nuova vita di
comunità. E lentamente rinasce anche la fiducia nella possibilità
di una pacifica
convivenza.
D’estate dalla Slovenia e dall’Italia arrivano i furgoni
carichi di volontari. Giovani che passano qui una settimana a giocare
coi bambini, a spalare macerie o a tirare su muri. E sotto
i loro occhi il paese riprende forma.
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