Leggi e smaltimento: un cane che si morde la coda

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In Italia la contraffazione e l’importazione di marchi falsi sono reati, previsti dagli articoli 473 e 474 del codice penale, che prevedono sanzioni sia detentive che pecuniarie.

Le pene si sono inasprite negli ultimi anni perché il legislatore si è accorto dell’entità del fenomeno e soprattutto del coinvolgimento della criminalità organizzata. E’ stato introdotto l’impiego di strumenti d’indagine tipicamente utilizzati nella lotta alla mafia, come le intercettazioni telefoniche o le operazioni sotto copertura, rese possibili con la cosiddetta Legge Sviluppo 99 del 2009. La normativa, modificando il codice penale, ha introdotto la circostanza aggravante in caso di “delitti commessi attraverso l’allestimento di mezzi e attività organizzate”, in riferimento ai reati contro la proprietà intellettuale.

Ma se esiste una sensibilità per quanto riguarda le grandi spedizioni, non vale lo stesso per i piccoli pacchi. Le Dogane avevano proposto una modifica della legge che prevedesse una sanzione amministrativa per l’acquisto di piccoli quantitativi di merci contraffatte. Il Parlamento però ha respinto la proposta,  ritenendo che potesse essere uno stimolo al commercio piuttosto che un deterrente.

Al momento, quindi, sia che si importino 20 pezzi o 20.000, la sanzione dovrebbe essere la stessa. Il condizionale è d’obbligo perchè quando la pratica  si sposta nei tribunali, la situazione cambia. Se è infatti facile dimostrare il dolo per un soggetto che importa un container di 40.000 piedi, non vale lo stesso per l’utente che acquista su internet.

“Basta un buon avvocato – racconta Edoardo Francesco Mazzilli, direttore dell’ufficio investigazioni Antifrode dell’Agenzia delle Dogane -  e il compratore si può giustificare affermando che non sapeva che quella merce fosse contraffatta quando l’ha acquistata. Tanto più che non ha potuto vederla materialmente. In questo caso è quindi difficile trovare la responsabilità penale”.

Le procure, vista anche la quantità di pratiche segnalate per le piccole spedizioni, hanno dato indicazione alle forze di polizia giudiziaria di non fare notizia di reato per quantità inferiori a 20-30 pezzi. Ogni Procura d’Italia ha però un termine diverso.


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I controlli

I controlli doganali, sia fisici che documentali, si svolgono sulla base di un’analisi del rischio elaborata attraverso i database dell’Agenzia delle Dogane. Aprire e svuotare i container, infatti, è costoso e le spese sono a carico delle  compagnie portuali e dei soggetti controllati. Fare controlli sistematici penalizzerebbe gli onesti. L’esistenza di un sito internet,  poi, non genera profili di rischio e quindi intercettare i singoli pacchi è impossibile. Così come rintracciare il gestore di una piattaforma web.

Da qualche anno è stata attivata una banca dati denominata FALSTAFF in cui sono inseriti dati e schede prodotto delle griffe e delle loro rotte. Le case produttrici comunicano dove hanno delocalizzato le loro aziende. Le Dogane consigliano loro di importare sempre da un unico punto d’ingresso. Ogni altra merce recapitata per altre vie, quindi, sarà con maggior sicurezza da considerare contraffatta. Ma lo fanno solo se ne hanno voglia.

La distruzione della merce sequestrata
Distruggere gli stock di merce non è facile. Ogni materiale risponde a uno specifico procedimento previsto per legge e i costi dovrebbero essere imputati a spese di giustizia . Inoltre, essendo le merci “corpo di reato”, dovrebbero essere conservati nei depositi giudiziari. “Un container – spiega Mazzilli – per ovvi motivi di spazio non entra in un deposito giudiziario quindi le merci sono conservate nei depositi dei porti e degli aeroporti”.

Le dogane sequestrano però la merce, non il container, e dopo un po’ di tempo la compagnia di navigazione chiede indietro il container minacciando di far pagare il costo di deposito. Si spendono soldi anche per farli svuotare.

I titolari delle griffe si rifiutano di distruggere la merce. Però pretendono che siano fatti i sequestri caricando i costi sulla pubblica amministrazione. A volte le autorità giudiziarie cercano strade alternative, ordinano la rimozione del marchio e donano la merce ad associazioni benefiche.

Ma anche in questo caso si sollevano le polemiche. “I proprietari dei marchi  – conclude Mazzilli- temono che la merce possa essere rifalsificata e reinserita nel circuito della contraffazione.