Opera d’arte da mostrare ai turisti per i giovani, straziante luogo della memoria per gli anziani. Il Cretto di Alberto Burri, costruito sulle macerie di Gibellina, piccolo centro del Belice raso al suolo dal terremoto del 1968, divide la popolazione. La linea di demarcazione tra il turismo e la memoria coincide con quella di due generazioni di abitanti. Da una parte ci sono quelli che hanno vissuto nella città distrutta dal terremoto, dall’ altra i giovani, nati tra le baraccopoli e la nuova Gibellina. Costruito a 20 chilometri di distanza dalla città rifondata, il Cretto è un enorme velo bianco adagiato tra le montagne del Belice. Dodici ettari di blocchi di cemento alti più di un metro posati su ciò che rimaneva della vecchia città. Lì, nel fazzoletto di terra in cui sorgeva Gibellina vecchia adesso regna il silenzio. Non ci va mai nessuno. “Quel posto mi mette malinconia”, spiega Antonietta Verde, insegnante in pensione di 78 anni. Ma al Cretto non va neanche il figlio Daniele che di anni ne ha 41. “Ogni tanto ci accompagno i turisti”, racconta.
A 25 anni dalla sua costruzione, il Cretto divide i vecchi e i giovani di Gibellina Nuova che, invece, condividono pareri e opinioni sugli altri capolavori d’arte disseminati in giro per la loro città. I giovani lo guardano con l’occhio disincantato di chi non ha passeggiato tra le strade sepolte sotto quell’ immensa opera d’arte e nel Cretto individuano una grande potenzialità per il turismo locale.
Diversi gli occhi con cui lo guardano quelli che sotto quel “sudario” bianco ci hanno vissuto. “Noi giovani – spiega Balsamo – non possiamo capire lo strazio che provano gli anziani quando guardano la colata di cemento bianco e con gli occhi cercano le loro case, le loro strade, i posti in cui sono cresciuti”. E la madre Antonietta Verde chiarisce: “Io quando lo costruirono non presi posizione ma tanti in paese furono molto dispiaciuti di non poter più toccare con mano le pietre delle loro case”.
Tra quelli che non vanno al Cretto c’è Maria Verde, bibliotecaria di 62 anni, che aveva circa dieci anni quando nella notte del 15 Gennaio 1968 la sua città cadde a pezzi. “Non si vede più niente – spiega – non puoi vedere i posti in cui giocavi, in cui vivevi. A volte cerco le foto di Gibellina Vecchia ed è come guardare quelle di una persona scomparsa”. Gli occhi le si gonfiano pensando alla città nascosta sotto il cemento. Quell’ enorme pietra bianca posata sulla vecchia città, dice, “non mi suscita nessuna emozione”.
I gibellinesi più anziani hanno sempre guardato il Cretto con sospetto. Per alcuni di loro non è riuscito a salvare la memoria e al contrario, l’ha totalmente cancellata. Tant’è che sono in molti a chiamarlo “sudario” o “tomba”, utilizzando un linguaggio che a tratti si fa funerario. “Un giorno ho chiesto al senatore Corrao perché voleva realizzare il Cretto – racconta Michele Plaia, ex agricoltore di 75 anni – lui mi ha risposto che Gibellina era morta e dovevamo seppellirla. E che grazie al Cretto tra cent’anni si sarebbe visto che qui ha vissuto un popolo”.
Di sudario parla anche Ciccio Ienna, ex ferroviere di 71 anni. Lui, che il Cretto in un primo momento ha faticato ad accettarlo, adesso lo vede come una sorta di scrigno della memoria. “A Gibellina non c’era più niente – racconta – dopo il terremoto la gente tornava dentro le case per prendere gli oggetti personali, rischiando di morire sotto le macerie. Così per proteggere la popolazione l’intera area è stata bombardata. L’alternativa al Cretto sarebbe stato lasciare che le erbacce inghiottissero gli ultimi ruderi della città, com’è avvenuto a Salaparuta e Poggioreale”.
I ruderi di Salaparuta si trovano a pochissimi chilometri dal Cretto. Nei cartelli disseminati tra le macerie sono indicati i quartieri della vecchia cittadina rasa al suolo dal terremoto del 1968 ma intorno non ci sono che pietre. Le erbacce sono alte più di mezzo metro e i pastori ci pascolano il gregge. “Dentro quella gabbia di cemento Gibellina ha trovato la sua salvezza”, sostiene Ienna, che considera il Cretto come “un monumento ai caduti”. Proprio per il valore che gli attribuisce, l’ex ferroviere ha sempre guardato con sospetto le rappresentazioni teatrali che qualche anno fa la fondazione Orestiadi organizzava sul Cretto. “Quell’ opera dovrebbe essere una cosa sacra. Non dovevano farci le commedie!”, polemizza. “Papà, quelle erano tragedie greche e volevano rappresentare la tragedia nella tragedia”, ribatte la figlia Enza, laureata in Conservazione dei beni culturali e appassionata di storia.E’ in battibecchi familiari come questo che si percepisce la distanza che divide la vecchia generazione dalla nuova. Le prospettive sono diverse e le posizioni si contrappongono.”Tu – conclude Enza- non lo hai mai capito e non lo capirai mai. Quelle non erano commedie ma tragedie”. Per Ciccio Ienna, però, il confine è troppo labile. Il punto, per lui, è che non si dovevano fare “rappresentazioni teatrali sui morti”.
Enza, come gli altri della sua generazione, ha un buon rapporto con il Cretto. Ma la sua sete di memoria non riesce ad esaurirsi con la colata bianca di Burri. “Io al Cretto ci vado. Per me e per tanti altri ragazzi è un luogo in cui andare a pensare, in cui cercare se stessi e le proprie origini. A me piace, la considero un’opera funeraria – spiega – però devo ammettere che almeno una volta al mese sento il bisogno di andare a o Salaparuta o a Poggioreale perché solo lì riesco a immaginare come poteva essere Gibellina”.
“La gente di Gibellina va al Cretto a seconda della generazione a cui appartiene – racconta da parte sua Gioacchino De Simone, architetto di 37 anni e figlio della bibliotecaria Maria Verde – I nonni non ci tornano perché non ne riconoscono i luoghi, la generazione di mezzo ne comprende il valore artistico ma ancora cerca negli scorci i luoghi in cui ha vissuto da bambino, noi invece, quelli della mia generazione, lo riconosciamo come un luogo fantastico e interessante. Io ci vado spessissimo, mi piace parlarne e ci accompagno i turisti”.
Per molti giovani gibellinesi il Cretto è soprattutto una grandiosa opera d’arte contemporanea dimenticata. La strada per raggiungerlo non è facile da trovare, si inerpica intorno alle montagne dell’entroterra tra le frane e le macerie del terremoto. A indicare l’opera c’è solo qualche sparuta indicazione stradale e addirittura fino a qualche anno fa a Gibellina Nuova non c’erano cartelli che indicassero la strada per arrivarci.
“Il Cretto non è vissuto dalla città – racconta Nino Plaia, ragioniere di 44 anni e figlio di Michele Plaia – Non ci va mai nessuno. Ci sono intere famiglie che ne ignorano l’esistenza”. Secondo degli studi, sono pochi i bambini di Gibellina che conoscono il loro passato e addirittura pochissimi di loro sanno che nel 1968 la vecchia città fu rasa al suolo. “Qualche anno fa – racconta Plaia – durante una manifestazione organizzata da un’associazione, Gibellina si è riappropriata di Gibellina vecchia. In quell’occasione sul Cretto c’erano più di duemila persone, una cosa mai vista prima”.
Nel Cretto gli abitanti riconoscono la memoria del passato ma anche le potenzialità del presente. A mettere insieme i due punti di vista ci sta pensando Gianni Faraci, un giovanissimo abitante di Gibellina Nuova che sta per specializzarsi in Ingegneria. “Voglio creare una app per i visitatori del Cretto – spiega – scaricandola sul cellulare potranno camminare in mezzo ai blocchi di cemento e vedere sullo smartphone com’era la vecchia Gibellina esattamente in quel punto.”