Tracciabilità dei rifiuti,
così sono stati elusi i controlli / INFOGRAFICA
Pubblicato il 6/04/2014
È possibile scaricare rifiuti, ingombranti e maleodoranti, in terreni di campagna, coltivati e vissuti, senza che nessuno veda niente? Senza alcun sospetto delle autorità? È quello che l’opinione pubblica molisana continua a chiedersi ormai da mesi, da quando un lembo della “terra dei fuochi” sembra essere entrato nel territorio di Venafro e dintorni. E la risposta comune è: “Tutti sapevano, nessuno ha fatto niente”.
La pensa diversamente una fonte, che vuole mantenere l’anonimato, molto vicina all’Arpa Molise (l’Agenzia regionale per la protezione ambientale): “Il territorio della provincia di Isernia è sempre stato sotto controllo. L’Arpa ha collaborato spesso con le forze dell’ordine proprio sulla questione dei rifiuti tossici. Nel 2010, ad esempio, fu fatto un monitoraggio delle vie di accesso dei traffici di rifiuti: Sesto Campano, Agnone, Termoli e Rio Nero. Nel corso degli anni, i ruoli si sono un po’ sovrapposti con quelli del Corpo Forestale, ma finora, in presenza di una denuncia, la procura della Repubblica ha richiesto sempre l’intervento congiunto con l’Arpa”.
Vero è che fino alla fine degli anni ’90 la legislazione italiana in materia di trattamento dei rifiuti era carente. Un primo tentativo di regolamentazione si è avuto nel 1982 con il decreto dell’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini. Il D.P.R. n. 915 è stato il primo provvedimento nazionale, in materia di classificazione dei rifiuti e concessione di autorizzazioni per lo smaltimento nelle discariche, frutto del recepimento di una direttiva europea che risaliva al luglio 1975. Ma la prima legge a trattare specificatamente di rifiuti pericolosi è stata promulgata nel 1997 con il decreto legislativo n. 22. La novità del cosiddetto decreto Ronchi è stata andare oltre lo smaltimento del rifiuto, incentivando al recupero e al riciclaggio anche nel caso di rifiuti pericolosi. Dal 2006 però la normativa nazionale di riferimento è il Testo Unico Ambientale n. 152, che ha ripreso e integrato tutti i provvedimenti precedenti prevedendo, tra le altre cose, anche la bonifica dei siti contaminati e la tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente.
“Inizialmente la legge disciplinava solo la costruzione delle discariche per rifiuti solidi urbani, distinguendo semplicemente i rifiuti urbani in pericolosi e non pericolosi. – spiega la fonte vicina all’Arpa Molise – Quindi, tutto quello che era urbano non era pericoloso, il resto era ritenuto speciale. Non essendo ancora previste le discariche per i rifiuti speciali, pericolosi e non, le aziende in qualche modo si sono dovute inventare una soluzione. Ciò non significa che fossero autorizzate a perseguire qualsiasi via legittima o non legittima, ma è logico che in una situazione in cui la legge non è ben definita sorgono anche le ecomafie. Se si vuole perseguire una via legale, ma non si trova riscontro nella realtà perché lo Stato non lo consente, la colpa è dello Stato”.
Nel caso della masseria Lucenteforte di Ernesto Nola gli scavi, realizzati nel 1992 per prelevare il pietrisco che drenava l’acqua impedendo la coltivazione del terreno, dovevano essere riempiti con terra vegetale. Ma “la debolezza legislativa ha portato indirettamente a far sì che in quelle buche venisse messo di tutto”.
Antonio Moscardino, incaricato dal proprietario del terreno per la bonifica fondiaria, aveva un’attività che gli consentiva di recuperare alcuni tipi di rifiuti non pericolosi e riutilizzarli attraverso i canali consentiti, come ad esempio gli scarti di materiale ferroso della Fonderghisa Spa che dovevano essere riciclati e recuperati. “È nella fase successiva che si è prodotta l’illegalità – spiega la fonte – perché Moscardino, anziché portare le scorie di fonderia nei centri di rottamazione e restituire all’acciaieria materiale riciclato, ha pensato bene di trarne un guadagno sotterrandoli”.
Ma come si fa a eludere il sistema dei controlli? La tracciabilità dei rifiuti si basa sostanzialmente sui cosiddetti codici CER, sei cifre che identificano l’origine (cioè chi ha prodotto il rifiuto), l’attività a cui è destinato (smaltimento o riciclaggio) e il destinatario del rifiuto (discarica o centro di stoccaggio). I codici vengono trascritti sul formulario identificativo del rifiuto costituito da quattro copie. La prima resta al produttore, le altre tre vanno al trasporto. Il trasportatore ha l’obbligo di conservare una copia e consegnare le altre due a chi si occuperà del trattamento del rifiuto. Quest’ultimo è obbligato a timbrare l’ultima copia e rispedirla al produttore per certificare l’avvenuto smaltimento. Se il produttore non riceve l’ultima copia del formulario identificativo del rifiuto entro tre mesi è tenuto a presentare denuncia alla Provincia competente.
Quindi la Fonderghisa avrebbe dovuto ricevere e conservare tutte le copie del formulario identificativo del rifiuto relativo alle scorie di fonderia mandate, tramite la ditta Rasmiper di Moscardino, nei centri di smaltimento per il recupero delle percentuali di ferro, ghisa e altri metalli. Testimoni, però, dichiarano di aver visto i camion di Moscardino scaricare “sabbie grigie e fumanti” nel terreno di Ernesto Nola. “Se chi trasporta il rifiuto – spiega la fonte – trova uno smaltitore compiacente che gli firma la quarta copia del formulario si può evitare di smaltire il rifiuto. In questo modo la documentazione che deve tornare all’origine è apposto, chi deve smaltire il rifiuto non ha nessun consumo e insieme al trasportatore ha trovato una via illecita di smaltimento”.
L’Arpa, tra il 1994 e il 1995, ha denunciato l’attività illegale di Moscardino. Gli è stata revocata la licenza e la sua ditta Rasmiper è stata cancellata dal registro provinciale delle imprese per il recupero dei rifiuti. “Non è servito a nulla, Moscardino si è riscritto all’albo con il nome di un’altra ditta. Ha trovato un escamotage per continuare gli illeciti”. Negli anni seguenti è stato coinvolto in altre indagini. Arrestato nel 2004 a Campomarino (provincia di Campobasso) durante l’operazione “Mosca”, che ha preso il nome proprio da lui, è stato condannato a un anno e otto mesi di carcere per traffico e smaltimento illecito di rifiuti speciali. Definito dalla Procura di Larino come il “trait d’union tra le aziende del Nord e i proprietari terrieri corrotti del posto”.
Stando a quanto raccontato dalla fonte, l’Arpa nella vicenda della masseria Lucenteforte ha avuto un ruolo marginale, perché essendo un organo di controllo e non di autorizzazione “può solo dare dei pareri, ma poi è sempre l’amministrazione che sceglie se recepirli o no”. Il progetto di bonifica del sito contaminato è stato così affidato a un geologo di Isernia e l’Arpa è intervenuta nell’ultima conferenza dei servizi, quando i lavori erano già stati portati a termine. E, a detta della fonte, ha incoraggiato le autorità a procedere con un’ulteriore bonifica, considerando che i teli di plastica, il ferro e i pezzi di ghisa sono ancora in quel terreno.
Diverso il ruolo che l’Agenzia per la protezione dell’ambiente ha assunto nei controlli partiti a inizio anno dopo l’escalation mediatica prodotta dalla desecretazione dei verbali di Carmine Schiavone. Controlli iniziati proprio sul terreno del presidente del Consorzio di bonifica di Venafro, Vittorio Nola (cugino di Ernesto Nola). In questo caso, i tecnici dell’Arpa hanno preso parte da subito alle attività di ispezione del sito, nonostante siano stati avvisati dalle autorità poche ore prima dell’inizio delle operazioni. L’indirizzo dato dalla Procura in questa prima fase era accertare la presenza di rifiuti tossici, come fusti contenenti metalli o materiali radioattivi. Sono stati ritrovati scarti industriali, un’enorme trave di ferro e dei pezzi di eternit contenente amianto. “Dal campionamento della falda acquifera – spiega la fonte – è stata certificata l’assenza di sostanze inquinanti. Forse c’è stato un eccessivo allarmismo da parte dei media, ma l’illegalità della vicenda resta, perché nessun tipo di rifiuto può essere interrato”.