Fonderghisa, la fabbrica dei veleni tra Pozzilli e Venafro
Pubblicato il 8/04/2014
Oggi della Fonderghisa resta solo un enorme ammasso di ruggine e vetri rotti. A terra, accanto al cancello principale, un cartello tagliuzzato indica l’inizio dei lavori di demolizione: la data è il 18 febbraio 2013. Ma al di là della recinzione gialla ci sono ancora i resti di quella che un tempo è stata la più grande acciaieria molisana. Certo i macchinari non ci sono più, sono stati smantellati e portati via, ma a terra c’è ancora un tappeto di polvere grigiastra. Nei depositi ci sono barattoli di vernici e solventi. Mentre lungo il percorso che costeggia un lato della fabbrica sono ammucchiati grandi sacchi grigi, fusti di benzina e di altre sostanze non più riconoscibili dall’etichetta ormai sbiadita.
La Fonderghisa, nata negli anni ’70, è stata tra le prime fabbriche del polo industriale Pozzilli-Venafro. Rilevata, nel 1992, dalla Gepi (Società per le Gestioni e Partecipazioni Industriali), in sei anni è diventata il principale polo europeo per la produzione della ghisa. Con oltre 450 operai e importanti partner nazionali e internazionali, il 10 novembre 1998, l’acciaieria è stata ceduta dall’ex Gepi (nel frattempo diventata Italvia) al Gruppo Poletto, proprietario di una ventina di aziende e già fortemente indebitato. Da questo momento si è aperta una crisi gestionale senza via d’uscita. L’industriale veneto in meno di tre anni ha creato, nei bilanci della Fonderghisa, un buco di 50 miliardi di vecchie lire, portandola nel 2001 sull’orlo del fallimento. Ma nel 2002 entrano in scena i fratelli Ragosta.
Francesco e Giovanni, figli di Giuseppe Ragosta (assassinato a 52 anni probabilmente per un regolamento di conti), appartengono ad una famiglia molto vicina al clan camorristico Fabbrocino. Già molto attivi nel settore meccanico, alberghiero e immobiliare, decidono di dirottare gli interessi della holding in Molise, comprando rispettivamente la Rer e la Fonderghisa Spa. Evidentemente però l’obiettivo non era rilanciare il piano industriale delle due acciaierie.
In poco tempo partono i licenziamenti immotivati, lo svuotamento e lo smantellamento progressivo delle fabbriche. La Fonderghisa Spa verrà dichiarata fallita dal Tribunale di Isernia nel novembre 2005, mentre la Rer chiuderà definitivamente il 16 novembre 2011. Un anno dopo, il 19 marzo 2012, i tre fratelli Ragosta, Francesco, Giovanni e Fedele, vengono arrestati dalla Guardia di Finanza di Napoli. L’operazione “Bad Iron” porterà misure restrittive per 47 persone, tra cui 16 giudici tributari, con accuse a vario titolo di associazione a delinquere di stampo mafioso, riciclaggio di denaro e bancarotta fraudolenta.
Dopo anni di tentativi di vendita da parte della curatela fallimentare, nel maggio 2011 la Fonderghisa viene acquistata all’asta dal gruppo Valerio di Isernia, già proprietario della Smaltimenti Sud srl, ditta per il trattamento dei rifiuti.
Negli anni sono state gettate grandi ombre sulla Fonderghisa. La giornalista del Mattino, Rosaria Capacchione (oggi senatrice Pd), negli ’90 scriveva di carri armati provenienti dalla ex Jugoslavia, e quindi carichi di uranio impoverito, sciolti negli altiforni dell’acciaieria molisana. Rifiuti radioattivi che, stando ai racconti degli operai della fabbrica e dei contadini, sarebbero poi stati smaltiti illegalmente nei terreni della piana di Venafro, a pochi chilometri dal polo industriale. Dello smaltimento dei rifiuti si occupava la ditta Rasmiper di Antonio Moscardino. E proprio lui negli stessi anni lavorava alla bonifica del terreno della masseria Lucenteforte di Ernesto Nola. Una testimone, Palmina Giannini, ha visto i camion dell’acciaieria scaricare, “a tutte le ore del giorno e della notte”, nelle grandi buche del terreno “sostanze grigie e polveri fumanti”.
Nel dicembre 2011 il procuratore di Isernia Paolo Albano, che indagava sulla Fonderghisa già da un anno, ha richiesto l’intervento del nucleo speciale NBC (Nucleare, Biologico e Chimico) dell’Esercito per un’indagine sulla radioattività all’interno della fabbrica. In realtà precedentemente erano già stati disposti dei controlli, nel 2004 e nel 2009, ma non erano serviti a calmare la pressione dell’opinione pubblica. Nell’ultimo sopralluogo l’Esercito e la Forestale, sulla base di analisi di campioni di terra prelevati dall’acciaieria, hanno escluso la presenza di uranio impoverito, rilevando solo tracce di uranio naturale.
“Le indagini non si fermano mai, continueremo a indagare anche sui rifiuti che sono stoccati nello stabilimento”, disse il procuratore Albano nella conferenza stampa tenuta proprio all’interno della Fonderghisa. Dichiarazione rafforzata anche dalle parole del Comandante Giovanni Potena: “Per il materiale speciale, rinvenuto nello stabilimento, abbiamo fatto decollare un piano di caratterizzazione e di identificazione a cui applicheremo la normativa comunitaria. Ovviamente, il corpo forestale non smetterà di dare un’occhiata a questa situazione”.
Era il dicembre 2011, a distanza di tre anni restano irrisolti gli interrogativi sulla presenza di amianto nel rivestimento e nelle mura della fabbrica. Inoltre, nell’acciaieria ci sono ancora fusti vuoti, barattoli di vernice e sacchi grigi. Sacchi molto simili a quelli che il terreno a riposo di Ernesto Nola sta lentamente riportando in superficie.