ROMA – In principio fu Alfonso Pecoraro Scanio. Nel 1996 il progetto della diga prendeva vita con la prima gara d’appalto, quando l’allora deputato dei Verdi, sollecitato dalle associazioni ambientaliste del territorio, sollevò la questione dell’impatto ambientale dell’opera.
Pecoraro Scanio fece notare all’allora ministro dei Lavori pubblici che sì, la concessione per la derivazione idrica fu assegnata nel 1975 (quindi prima del 1988, anno dal quale la valutazione di impatto ambientale fu resa obbligatoria), ma che quella concessione era rimasta per ventuno anni inutilizzata. “L’area interessata – riporta Pecoraro Scanio nell‘interrogazione parlamentare – è destinata a rientrare nell’istituendo Parco naturale regionale del Sulcis e classificata zona 1 cioè a conservazione integrale”.
Inoltre, il deputato dei Verdi osservò che la Sardegna aveva una capacità di invaso stimabile in 1/5 di quella totale nazionale, ma che molti invasi erano privi del collaudo necessario per renderli efficienti al massimo e che le industrie di Sarroch utilizzavano circa 11 milioni di metri cubi d’acqua altrimenti utilizzabili per uso agricolo e civile.
La risposta dell’allora ministro dei Lavori pubblici non fu positiva per le rivendicazioni ambientaliste. “I progetti per la diga Monte Nieddu – si legge nella risposta firmata dal ministro Paolo Costa – sono stati ritenuti meritevoli di approvazione dal Servizio nazionale dighe del Consiglio dei ministri, subordinatamente al completamento di alcuni accertamenti”. Riguardo questi accertamenti “Il Consorzio di Bonifica della Sardegna Meridionale ha inviato alcuni elaborati tecnici volti ad ottemperare a quanto prescritto, attualmente in istruttoria presso il Servizio Nazionale Dighe”, si legge subito dopo. Insomma la volontà politica regionale di portare avanti la realizzazione della diga fu avallata anche dal governo di allora.
Nel 2006 Pecoraro Scanio diventò ministro per l’ambiente del governo Prodi. In quella legislatura fu lui ad essere interrogato sulla questione ambientale della diga. Il senatore Francesco Martone in data 3 ottobre 2006 chiese al ministro quali iniziative il governo intendesse assumere verso la “palese scarsa utilità dei finanziamenti comunitari impiegati e richiesti e contro il degrado di un sito di elevato valore naturalistico in violazione del diritto nazionale e comunitario”.
La risposta del ministro Alfonso Pecoraro Scanio fu sensibilmente diversa da quella del 1996, anche perché nel frattempo la Corte di giustizia europea aveva cambiato le carte in tavola con una sentenza del 18 giugno 1998 e i cantieri erano fermi dal 2001.”Alla luce di quanto emerso e dalle disposizioni normative al tempo vigenti – si legge nella risposta scritta – non era stato possibile assoggettare alla procedura di Via (valutazione di impatto ambientale, ndr) l’opera, in quanto la stessa aveva concluso l’iter approvativo prima del 5 gennaio 1989. La corte di giustizia europea, con una sentenza del 1998, ha stabilito che la data di entrata in vigore della direttiva comunitaria è da considerarsi il 3 luglio 1988, ma anche che le opere approvate prima di tale data devono essere assoggettate qualora non ancora realizzate o per la cui realizzazione si renda necessario il rinnovo delle autorizzazioni già avute o l’ottenimento di nuove”.
L’ex ministro poi ricostruì le iniziative portate avanti dal governo per verificare l’effettiva legittimità ambientale dell’opera. La Direzione per la Salvaguardia ambientale chiese informazioni al Consorzio di bonifica della Sardegna meridionale con una nota del 23 gennaio 2007 e, il 2 aprile 2007, comunicò all’ente che il progetto necessitava di Via poiché era stato modificato, le autorizzazioni erano state rinnovate e nel frattempo si era individuata una nuova area Sic (sito di interesse comunitario), quella di Monte Arcosu.
Pecoraro Scanio fece però notare che “l’insieme delle opere di sbarramento non avrebbe pregiudicato l’integrità del sito costruito ai margini dell’area da tutelare, ed a monte della sottostante piana da irrigare”. La responsabilità di questa valutazione, va detto, ricade sulle singole regioni o province autonome. Insomma, anche in questo caso, la volontà politica regionale prevalse.