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“Io, staffetta dei partigiani”: Romano Arcesi racconta la sua Resistenza

di    -    Pubblicato il 24/04/2013                 
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Il comandante Mari diede l’ordine di spostarsi, veloci, perché stavano arrivando i fascisti. Era una notte fredda e piovosa come solo le notti sugli Appennini sanno essere. Noi raccogliemmo le nostre cose di corsa e ci mettemmo in cammino ma Ermes Cesaroni che era un mio compagno di due anni più grande, inciampò, gli cadde il parabello, partirono due colpi e si bucò l’orecchio.

Romano Arcesi quasi sorride mentre lo racconta, come a dire che questo è il minimo che ti può capitare in guerra. Classe 1928, nome di battaglia Battista, è l’ultimo partigiano di Urbino in vita. Ma che ci sia poco da ridere lo fa capire il ritornello che ripete incessante per tutta l’intervista: “La guerra è una brutta cosa”. E scuote la testa ben pettinata, piano, piano. Lo ribadisce come un monito, quasi a dire che nessuno si sogni più di imbracciare un’arma e partire per i monti come fece lui un pomeriggio di 70 anni fa.

Partirono in tre: lui, Ameli e Franci. Lasciarono ognuno una lettera alle famiglie per dire che andavano su in montagna dai “ribelli”, come chiamavano loro i partigiani. I genitori di Romano avevano un negozio di alimentari vicino a Porta Mercatale. Forse stavano vendendo dell’olio ai fascisti, unica cosa rimasta sugli scaffali, mentre il figlio sgattaiolava fuori dalla porta di casa e quando videro la lettera lui era già lontano.

Camminavano svelti i tre, direzione Borgo Pace, una località sopra Mercatello, sugli Appennini. Appena arrivati li prese in consegna il comandante Mari e gli spiegò tutto quello che c’era da sapere, tutto quello che tre ragazzini potevano sapere.

“Facevamo le staffette – spiega Arcesi – portavamo ordini tra l’Emilia Romagna e la provincia di Pesaro”. Scendevano dalle montagne di notte, per non essere visti; prendevano gli ordini e tornavano la sera dopo. Tutto a piedi. Tutto al buio. In alcuni tratti, quelli più ostici, li accompagnava qualche contadino generoso, altrimenti si limitava a indicargli la strada.

“Avevo paura – racconta ancora – quando facevo la staffetta, più paura di quando ero a Bologna con il Comitato di liberazione nazionale, perché lì se ti prendevano ti sparavano subito”; e la moglie Helga seduta vicino gli fa il verso bonaria: “E invece di là ti fucilavano dopo”.

Su in montagna c’era anche Erivo Ferri, storico comunista dalla frazione di Ca’ Mazzasette che si era fatto quasi 10 anni di prigione perché, provocato da un fascista in un’osteria di Ponte in Foglia, reagì, sparò e lo uccise. Da lui e da altri partigiani più grandi Romano imparò a usare le armi. La sua era il mitra americano Thompson.

Alla domanda “Hai combattuto?”, lui risponde deciso: “Certo, si sparava”; perché la guerra non è l’astratto combattere ma il concreto sparare. “C’è stato uno scontro duro a Mercatello, sono venuti su i fascisti e abbiamo avuto tre morti…ma dopo un po’ non si contavano neanche più”. Tace Romano quando ripensa ai compagni. Tace e abbassa lo sguardo, anche se, ne è sicuro, partire è stata la scelta giusta, l’unica che si poteva fare in quell’Urbino lì.

L’Urbino del fascismo e delle squadracce che nel ’25 pestarono  un ragazzino ebreo e poi, non contenti, gli spensero le sigarette sulla faccia. L’Urbino del Pci clandestino e di quel buffo signore che girava in bici vestendo larghe palandrane dove – lo si seppe solo dopo la liberazione – nascondeva l’Unità e altri giornali vietati. L’Urbino dei 30 fucilati stesi di fronte a Porta Mercatale perché i genitori li riconoscessero. “Erano quasi tutti di Trasanni – ricorda Romano – perché lì c’era un nucleo di antifascisti molto forte; uno si era anche fatto assumere in casa del duce come elettricista per fargli un attentato”.

In quell’Urbino lì, Romano Arcesi a 16 anni partì e divenne “Battista”. In montagna a prendere freddo e a soffrire la fame: “La vita era molto dura, si mangiava poco o niente. Solo uova, uova e ancora uova. Eravamo vestiti come capitava, non avevamo alcuna divisa. Dormivamo dovunque: fienili, balle di fieno, stalle quando andava bene, perché almeno c’erano i buoi che ci riscaldavano”.

“Non è stata una villeggiatura – Arcesi si fa serio – ho visto morire amici e compagni che erano giovani come me. Il più piccolo si chiamava Padellino, era del ‘32”. I compagni che se ne sono andati sono il ricordo della Resistenza di Battista, più della fatica e della paura. Poi c’è stata la liberazione di Urbino, il 28 agosto 1944, con la “festa grossa delle famiglie” e pure l’arruolamento nel gruppo di combattimento Legnano e la liberazione di Milano con “l’entusiasmo alle stelle” della gente che gli saltava addosso perché sapeva che a liberarli davvero erano stati loro, “mica gli americani”.

C’è tanto “dopo” nella vita di Romano Arcesi: il matrimonio, due figli e due nipoti, il lavoro alle poste e nell’alimentari del padre. Eppure la Resistenza e la guerra di Liberazione le ha sempre lì, davanti agli occhi, come gli attestati di merito appesi alle pareti di casa sua, vicino alle foto dei nipoti sorridenti. Vicino ai molti volumi stipati nella libreria, tra cui uno, di Gramsci, colpisce l’attenzione: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere vuol dire essere partigiano”.

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