URBINO – “La satira è la cartina di tornasole di tutte le democrazie”, afferma convinto il vignettista e scrittore Sergio Staino che da anni con i suoi disegni ironici e disarmanti porta a galla le contraddizioni del nostro Paese. Giovedì 28 novembre sarà a Urbino nell’aula magna del rettorato per partecipare all’evento ExtraFestival con una lezione dal titolo “Una, nessuna e centomila. L’altra verità: quella della satira”. Al Ducato ha raccontato come è riuscito a trasformare la passione per il disegno nel lavoro della sua vita rimanendo sempre fedele ai suoi ideali.
Come ha iniziato a disegnare?
Ho iniziato grazie a mia madre. Viveva in un paesino che non conosceva, con un marito in guerra e un bambino piccolo. Ricordo questi inverni lunghi e freddi, io e lei da soli in una casa piccolissima. Quando ha finito di leggermi tutti i libri che avevamo in casa, verso i tre anni ha iniziato a farmi copiare le figure e le immagini. Così ho associato il disegno alla gioia di avere una mamma tutta per me. Piano piano disegnare è diventato un bisogno continuo, una panacea per tutte le angosce, una specie di droga. Anche da grande quando avevo un problema correvo a prendere un foglio. Ma ho scoperto tardi che il disegno poteva diventare il lavoro della mia vita.
Bobo è il personaggio che l’ha resa celebre. A cosa si è ispirato?
L’ispirazione è venuta dalle mie radici toscane, laiche. Non è un caso che la maggior parte dei comici sono toscani: abbiamo una propensione all’autoironia. L’ho bevuta insieme al latte materno. Bobo si ispira anche ai fumetti di Paperino scritti da Carl Barks. Da piccolo leggevo le storie di questo papero: si muoveva nel mondo con ottimismo nonostante tutte le disavventure che gli capitavano e le frustrazioni della vita. L’ho amato così tanto. Ho capito allora che il fumetto era un linguaggio di serie A, diretto a tutti, non solo ai più piccoli. Oggi, posso dire che Bobo mi assomiglia.
Come sono cambiate le sue vignette nel tempo?
All’inizio scrivevo strisce ispirate a Charlie Brown. Erano quattro quadratini in fila: inizio, svolgimento, tempo comico e battuta finale. Tutto questo non mi bastava, volevo storie più lunghe. Quando Furio Colombo ha iniziato a dirigere l’Unità nel 2000 mi ha proposto di disegnare la vignetta in prima pagina. Sono un logorroico, mi perdo a raccontare i dettagli, ma ho dovuto riassumere tutto il mio pensiero in un unico disegno. Oggi nessun giornale ti lascia spazio per una striscia. Siamo nell’epoca dei 140 caratteri, dell’immediatezza. Però anche una sola vignetta ha la sua efficacia.
La satira secondo lei è “l’ultima verità”?
La satira svolge un ruolo importantissimo in ogni democrazia. Non è un caso che tutti i poteri vogliono controllarla. Il loro obiettivo è diffondere certezze e sicurezze: la satira invece le demolisce. Il riso viene visto come fumo negli occhi dei potenti. La vera missione della satira è quella di essere seminatrice di dubbi. Il suo compito non è omaggiare, ma guardare dietro le apparenze, guardare con uno sguardo diverso. In questo senso è l’ultima verità.
Le sue vignette sono mai state censurate?
Il rischio maggiore per un vignettista non è la censura esterna, ma quella interna. Non credo a chi dice che la sua visione del mondo è sopra le parti. Quando disegno sono influenzato da quello che sono, dalla mia storia. Facendo vignette che riguardano la parte politica a me più vicina, a volte ho avuto la tentazione di stemperare la verità dei fatti. Cerco sempre di resistere e nel 90% dei casi ci riesco. Altrimenti non farei un favore ai miei lettori ma neanche a me.
Chi è stata la persona che si è arrabbiata di più per le sue vignette?
Sono due: Bettino Craxi e Massimo D’Alema. Sono sempre contento di far arrabbiare qualche politico, è un segnale piacevole, sono soddisfazioni. Danno importanza al mio lavoro. Con D’Alema poi c’è un rapporto di amore e odio: quando faccio qualche vignetta su di lui poi non mi parla per settimane.
Quale è la vignetta a cui è più legato?
Sono tutte quelle che portano a galla convinzioni nascoste o situazioni minoritarie di cui nessuno parla. Come quella che ho disegnato sulla condizione della donna e sui talebani in Afghanistan. Un’altra a cui sono molto legato è quella in cui Bobo tiene in braccio sua figlia Ilaria morta e rivolgendosi al governo cinese dice: “Bel lavoro compagno”. Era il periodo delle rivolte di Tienanmen. Il comunismo stava ammazzando i nostri figli. Mentre la disegnavo piangevo. Grazie al mio lavoro ho la possibilità di raccontare fatti tristi aggiungendo l’elemento satirico che crea un legame empatico con il lettore. Di questo vado molto orgoglioso.
Lei si è occupato anche di televisione, teatro e ha scritto libri.
Di occasioni nella vita ne ho avute tante. Ho imparato linguaggi diversi: sono stato regista, ho fatto corrispondenze giornalistiche, ho scritto romanzi, ma non mi sono mai sentito completamente a mio agio. Ho ricevuto più di quanto ho dato e ho avuto la possibilità di sperimentare. La mia passione però rimane il disegno anche se con la malattia che ho, la retinopatia, non è facile continuare a farlo. Non vedo quasi più nulla, la mia situazione è drammatica. Per fortuna la tecnologia mi aiuta molto: ho un grande touchscreen e una penna elettronica che mi permette di disegnare. Venti anni fa sarei stato per sempre fuori gioco. Prima impiegavo cinque minuti per fare una vignetta, ora cinque ore ma infondo sono fortunato: ho conosciuto ragazzi che hanno la mia stessa malattia. Io posso ancora fare questo lavoro ricordando il mondo che ho conosciuto. Probabilmente non rimarrò in vita tanto per vedere i progressi della ricerca anche grazie alle cellule staminali ma le nuove generazioni hanno questa speranza.