Illegalità, mazzette, inquinamento. Le occasioni perse del biogas nelle Marche

di Martina Nasso

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L'impianto della Co.Val.m. a Osimo

L’INCHIESTA GIUDIZIARIALE RESPONSABILITÀ POLITICHELE SOCIETÀ FINANZIARIETERRENI BRUCIATI
EMISSIONI DANNOSEFIUMI NERILA PAROLA ALL’ARPAMIL BIOGAS FATTO BENE
GLOSSARIO

L’energia pulita può essere sporcata dagli affari. E da pulita che era, può diventare inquinante come nessuno poteva immaginare. In questo, purtroppo, le Marche sono una regione “esemplare”.

Il biogas è nato per aiutare i piccoli imprenditori agricoli. Due gli scopi: riutilizzare gli scarti del lavoro nei campi e nelle stalle e produrre reddito integrativo per l’azienda con la vendita dell’energia prodotta. Una norma nazionale prevedeva incentivi molto alti per chi avesse costruito una centrale a biogas con potenza inferiore a 1 megawatt (MW) entro il 31 dicembre del 2012. A marzo dello stesso anno il Consiglio regionale marchigiano ha approvato una legge che escludeva, in contrasto con la normativa europea, la valutazione d’impatto ambientale per gli impianti di potenza inferiore a 3 MW. Senza quella procedura lunga e dettagliata, le autorizzazioni a costruire si potevano concedere più velocemente.

Così grandi gruppi industriali hanno creato una serie di piccole società agricole satellite per installare tante centrali sul territorio regionale e guadagnare milioni di euro con gli incentivi previsti. Quegli impianti sono stati autorizzati prima della fine del 2012. Per realizzare i loro guadagni queste società hanno preso ettari ed ettari di terreno, drogando il mercato degli affitti nel mondo agricolo, e, per la fretta, hanno commesso gravi errori di progettazione, causando incidenti ambientali che hanno inquinato i campi, i fiumi e l’aria intorno alle centrali.

Nel 2013 la norma marchigiana è stata dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale e due procure hanno iniziato a indagare su un giro di corruzione per il rilascio delle autorizzazioni alle centrali che riguarda funzionari regionali e imprenditori. Il danno che questi gruppi industriali hanno causato, però, è anche un altro. Molti cittadini marchigiani non si fidano più di chi produce energia tramite biogas e non fanno distinzioni tra chi lo fa bene e chi lo fa male.



L’inchiesta “Green Profit”

Luglio 2014: scoppia lo scandalo biogas nelle Marche. I protagonisti sono un gruppo di imprenditori e alcuni tecnici regionali. Le accuse nei loro confronti sono pesanti: corruzione, concussione, falso ideologico, truffa ai danni dello Stato e vari illeciti ambientali. Secondo la procura di Ancona, i tecnici della Regione avrebbero ricevuto tangenti sotto forma di favori e regali per consentire alle società amiche di realizzare velocemente degli impianti a biogas. Un affare d’oro, grazie ai lauti incentivi previsti dal Gse, il gestore dei servizi elettrici. Per ogni centrale a biogas, costruita al costo di circa 5 milioni di euro, le imprese potevano arrivare a un guadagno di circa 30 milioni di euro in 15 anni di attività. Ma la fretta, si sa, è cattiva consigliera e ha fatto commettere ai funzionari errori grossolani, tali da attirare l’attenzione di Guardia di Finanza e Forestale. Secondo gli inquirenti, che hanno indagato per 18 mesi, l’allora dirigente dei Servizi Territorio Ambiente ed Energia Luciano Calvarese e il funzionario Sandro Cossignani avrebbero orientato la legislazione regionale per consentire a un gruppo di imprese di ottenere gli incentivi pubblici sulla produzione di energia tramite il biogas.

Il tempo per agire, però, era poco. Per accedere ai benefici, infatti, le centrali dovevano essere operative entro il 31 dicembre 2012. La legge approvata in Consiglio regionale a marzo 2012 prevedeva che per gli impianti di potenza inferiore a 3 MW non fosse necessaria la Via, valutazione d’impatto ambientale, una procedura che richiede tempi lunghi e controlli accurati sui vincoli paesaggistici e ambientali. Il primo scoglio sembrava superato, ma per ottenere in breve tempo le autorizzazioni a costruire, era necessario avere qualcuno che le concedesse in modo celere e senza troppe domande. Così, i funzionari avrebbero chiuso un occhio, autorizzando una quarantina d’impianti sulla base di progetti di massima e senza il rispetto di numerosi vincoli previsti dalla legge.

In cambio i tecnici della Regione, soci tra loro e titolari di compartecipazioni con gli imprenditori coinvolti, avrebbero ricevuto circa tre milioni di utilità. Contratti di fornitura gonfiati, pagati e mai eseguiti, impianti fotovoltaici su capannoni di loro proprietà e perfino un orologio Mont Blanc da 9.000 euro.


Delle centrali costruite nel 2012, cinque sono state poste sotto sequestro dalla procura di Ancona: le due di Osimo insieme a quelle di Agugliano, Camerata Picena, Castelbellino. Altre due, quelle di Loro Piceno e Corridonia, erano già state sequestrate dalla Procura di Macerata per aver superato i limiti stabiliti per le emissioni di Cot, carbonio organico totale. Successivamente sono state dissequestrate tutte e sette e per il 13 aprile è prevista la prima decisione sul rinvio a giudizio degli indagati. Nella stessa udienza il giudice pronuncerà le prime sentenze per chi ha chiesto il rito abbreviato.

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Le responsabilità politiche

Di fronte a un simile quadro, amministratori e politici regionali hanno sempre dichiarato di essere rimasti all’oscuro di tutto. “C’è stata ingenuità da parte dei politici che si sono completamente affidati ai tecnici”, è il commento del colonnello Gianfranco Lucignano, all’epoca comandante del nucleo investigativo della Guardia di Finanza di Ancona. Ma qualche dubbio sull’operato della politica regionale esiste.

Nel 2012 la legge regionale che escludeva la valutazione d’impatto ambientale per gli impianti di potenza inferiore a 3 MW era già stata impugnata dal governo Monti di fronte alla Corte Costituzionale perché in contrasto con la normativa europea. Nonostante le molte sollecitazioni, però, la Regione Marche non ha bloccato i procedimenti di autorizzazione delle centrali a rischio, perché non fornite di Via. Un’ingenuità che desta qualche dubbio e che potrebbe costare molto alla Regione. Nel 2013, infatti, la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la norma marchigiana e il Tar, con la conferma del Consiglio di Stato, ha annullato le autorizzazioni già concesse per alcuni degli impianti costruiti, come quello di Green Farm a Osimo, quello di Sviluppo Agroalimentari Italia 2007 a Camerata Picena e quello di Vbio1 a Corridonia, e ha dichiarato inammissibile una valutazione d’impatto ambientale postuma.

Gli Stati membri adottano le disposizioni necessarie affinché, prima del rilascio dell'autorizzazione, per i progetti per i quali si prevede un significativo impatto ambientale, in particolare per la loro natura, le loro dimensioni o la loro ubicazione, sia prevista un'autorizzazione e una valutazione del loro impatto sull'ambiente Direttive 85/337/CEE e 2011/92/UE

Per mettere una toppa agli errori commessi, però, è intervenuto il governo. Un decreto del ministro dell’Ambiente, il n. 52/2015 ha reintrodotto un vincolo dimensionale: l’impianto a biogas deve avere una potenza superiore a 3 MW per l’obbligo di valutazione d’impatto ambientale. “Dal nostro punto di vista – ha affermato il colonnello Lucignano – il decreto è in contrasto con le norme comunitarie del 1985 e del 2011 che prevedono la necessità di una valutazione d’impatto ambientale anche per motivi diversi rispetto alla potenza degli impianti”.



Nella relazione conclusiva della Commissione regionale d’inchiesta sul rilascio di tutte le autorizzazioni per le centrali a biogas, biomasse e eoliche delle Marche, istituita dal Consiglio regionale il 23 aprile 2013, si legge: “Nonostante che la materia trattata ha degli oggettivi aspetti di complessità normativa non ci si può sottrarre da un giudizio negativo sulle responsabilità in quanto le strutture regionali, siano esse tecnico-legislative, legali, tecniche e autorizzative hanno, quanto meno, sottovalutato l’entità dell’impatto dei procedimenti in esame omettendo le dovute e necessarie segnalazioni sulla necessità di correggere, anche in corso d’opera, i procedimenti che via via presentavano le doglianze dei cittadini, dei tribunali e non ultime quelle della Commissione europea”.

L’attuale presidente della Regione, Luca Ceriscioli, parla di un “polverone mediatico” e definisce le normative sul tema contraddittorie: “Il problema non è la valutazione d’impatto ambientale. Certamente la procedura seguita è stata poco partecipata, ma l’energia prodotta da biomasse è un’ottima soluzione, anche per lo smaltimento degli scarti agricoli. Questa vicenda ha creato un grande danno perché ha messo in cattiva luce uno dei migliori metodi di produzione energetica da fonti rinnovabili. Certo in alcuni casi chi proponeva l’impianto non aveva scarti da metterci dentro, ma bisogna discernere. La Regione Marche si è costituita parte civile nel procedimento in corso proprio per il danno che è stato causato a uno dei più efficienti metodi di produzione energetica”.

Intanto alcuni imprenditori hanno chiesto all’ente il risarcimento dei danni per il mancato guadagno, 180 milioni di euro finora, che potrebbero uscire dalle casse della Regione Marche. Starà alla magistratura stabilire la buona fede di chi ha fatto affidamento nella normativa. Anche in questo caso, però, sorgono dubbi sull’ingenuità dei protagonisti. Si tratta di imprenditori a capo di potenti gruppi industriali collegati tra loro da forti interessi che poco o nulla hanno a che fare con l’agricoltura.

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Società finanziarie

Questa eco energia è una passione recente, ma non sembra molto sincera. Nel 2001 l’Unione Europea promosse la costruzione di piccoli impianti a biogas per smaltire ‘in casa’ e a circuito chiuso scarti agricoli.

Gli indirizzi europei erano chiari: realizzare un sistema locale, integrato e diffuso, di produzione energetica che partisse dal riuso degli scarti agricoli e producesse reddito integrativo per le piccole imprese agricole. Le centrali a biogas e biomasse in Italia si sono moltiplicate a dismisura a partire dal 2006, complice una politica di forte incentivazione delle fonti rinnovabili. Nel 2010 erano 179. Tra il 2012 e il 2013 gli impianti di biogas sul territorio nazionale sono passati da 994 a 1264 e l’Italia è diventata il terzo produttore al mondo dopo Germania e Cina. L’incremento ha riguardato soprattutto quelli di dimensioni medio-piccole.

La maggior parte delle centrali in Italia è gestita da società finanziarie e non da piccoli produttori agricoli. Nelle Marche il fenomeno ha avuto dimensioni ridotte rispetto alle grandi regioni del nord Italia. Gli impianti sono passati da 33 nel 2011 a 65 nel 2014. La sua particolarità, però, riguarda la proliferazione di impianti a biogas con potenza ridotta a 1 megawatt, molti dei quali gestiti da società finanziarie, e dalla dubbia utilità. Nelle Marche non ci sono abbastanza imprese agricole e quindi nemmeno scarti sufficienti per alimentare le centrali, che non sono poi così piccole. Per un anno di produzione servono 300 ettari di campo coltivati a mais.

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Terreni bruciati

Allettate dagli incentivi statali, queste società acquistano ettari e ettari di terreno per produrre il materiale immesso negli impianti. Nello specifico per il biogas si usa mais, sorgo e barbabietole. Molti produttori agricoli hanno rinunciato alle coltivazioni autoctone e hanno affittato i propri terreni a questi gruppi industriali. In questo modo hanno ottenuto profitti più alti in breve tempo, ma hanno drogato il mercato di affitto dei terreni. Per un ettaro di terreno irrigato in pianura si spendeva intorno ai 200-300 euro all’anno. Oggi, le grandi società arrivano a spenderne anche 1.500. Se si è fortunati si paga il doppio del prezzo normale di mercato, sui 700 euro. Comunque troppo per un giovane che vuole iniziare un’attività agricola. Sul punto, la Coldiretti Marche, si era già espressa nel 2012: “Diciamo no alla diffusione di grandi impianti di tipo industriale dall’impatto eccessivamente pesante sul territorio, che potrebbero avere riflessi negativi anche sull’assetto e sui prezzi delle produzioni agricole, aprendo il campo a speculazioni, peraltro già favorite dalla volatilità dei mercati”.


Vista dalle colline di Osimo

Franco Capomagi vive sulle colline marchigiane, a sette chilometri da Osimo. Mostra con orgoglio le foto della vallata che si scorge dalle sue finestre prima che fosse costruita la centrale nel 2012. Il paesaggio bucolico al quale era abituato, oggi, non è più lo stesso. In fondo alla valle non ci sono più i segni delle antiche coltivazioni, ma i silos e le vasche della centrale. A tre chilometri di distanza si trova un altro impianto di un’altra ditta. Qui abita la madre del signor Capomagi. Lei e suo marito hanno costruito la loro casa nella Val Musone, una delle più fertili di tutte le Marche, per coltivare la terra e allevare i loro animali. Anche qui, sempre nel 2012, le varietà ortofrutticole e gli animali al pascolo sono scomparsi e hanno lasciato il posto a coltivazioni destinate a essere raccolte per produrre energia. Il signor Capomagi così racconta come ha visto cambiare il territorio che lo circonda: “Da un anno all’altro, intorno a questi impianti hanno iniziato a coltivare mais, sorgo e triticale”.

I territori adiacenti alle centrali, in alcuni luoghi intere vallate, si sono trasformati in monoculture estensive di prodotti destinati a essere macerati nei biodigestori. I vegetali necessari per la fermentazione non sono usati per l’alimentazione umana e quello che conta è la resa. I campi coltivati sono irrorati con dosi massicce di fertilizzanti e di pesticidi che finiscono per inquinare la terra e le falde acquifere sottostanti e impoverire la fertilità dei terreni portandoli all’erosione.

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Emissioni dannose

Per produrre energia si consumano ettari di terreno agricolo e s’inquina anche. La produzione del biogas provoca alte emissioni di Cot, carbonio organico totale, e sono scoppiati molti scandali anche nelle Marche. Delle sette centrali coinvolte nell’inchiesta Green Profit, due erano già state sequestrate perché avevano superato di dieci volte il limite di emissioni consentito dalla legge. Si tratta, come già detto, degli impianti di Loro Piceno e di Corridonia. L’Associazione italiana medici per l’ambiente, l’Isde, ha pubblicato un vademecum con tutti i rischi connessi alla produzione da biogas. Sulle emissioni scrivono: “Sulla base del biogas bruciato (circa 8,5 milioni di metri cubi) e del contenuto medio in metano (tra 50 e 65 %), si può affermare con una certa approssimazione, che un motore di quasi 1 MW brucerà un quantitativo di metano equivalente a quello di circa 1.500 case di oltre 100 metri quadrati di superficie ciascuna, ma con le emissioni sommate e concentrate in un solo punto”. L’Istituto Superiore di Sanità, su richiesta dell’Asur, l’azienda sanitaria unica regionale delle Marche, si è espresso sul superamento dei limiti di Cot nei pressi delle due centrali. Ha sottolineato che il metano rientra tra le sei sostanze individuate dal Protocollo di Kyoto come alteranti il clima per l’effetto serra, ma ha dichiarato che i dati raccolti non potevano essere utilizzati per una valutazione dei rischi sulla salute. Le analisi sui fumi non contenevano informazioni sui diversi componenti chimici indispensabili per acquisire informazioni tossicologiche. L’Asur, nel parere inviato alla Procura di Macerata ha sottolineato che sarebbero necessarie analisi più approfondite e che il problema riguarda tutte le centrali a biogas presenti sul territorio nazionale.

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Fiumi neri

Ma l’inquinamento derivante dalla produzione di energia tramite impianti a biomasse e biogas riguarda anche gli sversamenti di digestato (il risultato della digestione anaerobica) nei fiumi e il suo utilizzo per l’agricoltura. Il prodotto può essere usato come concime organico per i campi, ma solo dopo una lavorazione successiva. La dottoressa Patrizia Gentilini dell’Isde conferma che l’uso del digestato non trattato come concime è molto rischioso per la salute.



Il biogas: spunti per una serena riflessione – Notiziario dell’Istituto Superiore di Sanità

La Forestale, nell’ambito dell’inchiesta “Green Profit”, ha appurato come in molte centrali i progetti non siano stati rispettati e siano state ignorate norme di sicurezza basilari. Nel caso di alcune centrali marchigiane, ad esempio, sono spuntati silos dove non erano previsti e si sono verificati numerosi casi di inquinamento nei campi e nei fiumi circostanti. Sversamenti di liquami e morìe di pesci si sono verificati nel 2013 sia nei fiumi Chienti ed Ete, vicino all’impianto di Sant’Elpidio, sia nel fiume Fiastra. Questo scorre vicino all’impianto di Loro Piceno, dove si sarebbe verificato un guasto che ha causato lo sversamento di ingenti quantitativi di liquami nell’alveo del corso d’acqua. Alcuni tratti dell’ecosistema fluviale sono andati completamente distrutti.

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La parola all’Arpam

Il dottor Gianni Corvatta, direttore tecnico-scientifico dell’ARPAM, l’agenzia per la protezione ambientale delle Marche, non ha voluto rilasciare dichiarazioni né sui dati relativi all’inquinamento causato dalle emissioni delle centrali, né in relazione ai fatti specifici di cui si parla sopra. Un silenzio giustificato, secondo il tecnico dell’agenzia per la tutela dell’ambiente, “dalla delicatezza della questione di cui si parla”. In un’intervista rilasciata al Resto del Carlino a ottobre del 2013, dopo l’incidente avvenuto lungo il torrente Fiastra, però, il dottor Corvatta esprimeva le sue preoccupazioni: “Il materiale di risulta di una centrale a biogas è il cosiddetto digestato, proveniente da ciò che è stato utilizzato per la produzione del biogas, costituito normalmente da deiezioni animali e scarti vegetali. Questo, se l’utilizzo è regolamentato, può essere usato nella fertirrigazione dei terreni agricoli. A questo proposito, sottolineo che presto la Regione emanerà un apposito regolamento. Se, invece, va a finire nelle acque di un fosso, un torrente o di un fiume, può diventare pericoloso, perché si tratta di un consistente carico organico, che va a sottrarre ossigeno alle acque, con conseguenti morìe di pesce e danni all’ecosistema fluviale e all’ambiente in genere”.

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Il biogas fatto bene

C’è anche chi crede in questa forma di produzione energetica e ne ha fatto un fiore all’occhiello della propria attività nel settore primario. Nel comune di Sant’Angelo in Vado c’è un’azienda agricola, a prevalente conduzione familiare, che produce salumi e carni di qualità. Si tratta dell’impresa zootecnica “Luzi”. Dal 2010 l’azienda si è dotata di una piccola centrale a biogas (di potenza equivalente a 100 kw) per l’ottimizzazione del letame e dei liquami prodotti da bovini e suini e degli scarti agricoli. Si tratta della più piccola della regione. L’impianto utilizza l’energia termica in esubero per il riscaldamento della casa colonica e dell’abitazione della famiglia. L’energia elettrica prodotta, invece, viene acquistata dall’Enel e l’azienda così paga le rate del mutuo stipulato con la banca per costruire la centrale. “Per l’80-85%, il nostro impianto è alimentato con letame e liquame dei nostri animali – spiega Alessandro Luzi, uno dei soci proprietari dell’azienda agricola – per raggiungere il 100% inseriamo della pollina che prendiamo a Lunano, a dieci chilometri da qui”. Grazie all’impianto a biogas l’azienda agricola ha trasformato il letame in prodotto digestato: “Il prodotto che esce dall’impianto – continua Luzi – è pulito e i semi che infestano le colture sono eliminati dalle alte temperature all’interno del digestore. Grazie al prodotto digestato abbiamo quasi azzerato l’uso di concimi chimici”. Il piccolo impianto di Sant’Angelo in Vado è stato costruito in funzione degli scarti e delle dimensioni dell’azienda e questo lo distingue dalle altre centrali della regione. “Alcuni non fanno questa distinzione e ci accusano di inquinare – conclude Luzi – ci tengono sotto stretta osservazione, ma noi non abbiamo niente da nascondere. Il biogas non è un male di per sé. Dipende da come si fa e noi lo facciamo bene”.



Questo servizio è un Progetto di fine corso per il biennio 2014-2016 dell'Istituto per la Formazione al giornalismo di Urbino (IFG), pubblicato il 18 marzo 2016.