L’attesa dei fantasmi dell’Alcoa: gli operai licenziati tra speranze e tentativi di ricominciare

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di GIANMARCO MURRONI

Le macchine dell’Alcoa rimangono spente, mentre Giacomo raccoglie il miele delle sue api. Le fornaci di Portovesme sono fredde, in netto contrasto con la carrozzeria della moto di Claudio, colpita incessantemente dal sole durante i tour della Sardegna che organizza. E il metallo fuso nelle fonderie si è solidificato, lontano dall’ufficio dove Corrado si reca ogni mattina.

Gesti e mansioni che animavano il lavoro degli operai dell’Alcoa di Portovesme, azienda attiva nella produzione di alluminio, sembrano appartenere al passato. Il presente di questi fantasmi dell’industria è fatto di timori e alternative, con la speranza che i cancelli della fabbrica si riaprano.

Oggi di quello stabilimento rimangono solo i muri, le reti, i materiali e le attrezzature al suo interno. Dei 500 lavoratori che lo tenevano in vita si trovano solo le divise da lavoro appese alle pareti.

Una vita passata in fabbrica o i primi anni di impiego, tutti comunque soddisfatti di aver trovato un posto di lavoro vicino alla propria casa, vicino alla loro famiglia. Tutto questo fino al 2012, quando la società americana decise di fermare la produzione. I dipendenti vennero messi in cassa integrazione. E oggi i cancelli pian piano si stanno arrugginendo.

La campanella che segnava la fine del turno ha vibrato per l’ultima volta e da allora nessun suono si è più sentito. I lavoratori hanno iniziato la pausa più lunga della loro vita e ancora aspettano di ripartire. “Nel 2014 l’azienda ha chiuso definitivamente, licenziando tutti gli operai dopo due anni di cassa integrazione”, racconta Giacomo, ex operaio 43enne, che dopo 18 anni di lavoro in fabbrica è oggi in lista di mobilità, insieme a tutti i suoi colleghi, in attesa di conoscere le sorti sue e dell’azienda.

“Il governo e la Regione – spiega Giacomo – dicono che la situazione si sta evolvendo in positivo. Il presidente della regione Sardegna Pigliaru ci è sempre venuto incontro e anche il premier Matteo Renzi recentemente ci ha trasmesso segnali confortanti. L’impegno c’è, ora rimane da trovare la strada giusta”.

L’unica soluzione è trovare un’azienda che rilevi lo stabilimento di Portovesme. “Negli ultimi mesi due aziende si sono mostrate interessate all’acquisizione dell’impianto: la Glencor e la Sider Alloys. È un segnale positivo, speriamo che presto si risolva tutto per il meglio”.

Dopo la chiusura definitiva tutti gli operai licenziati vennero inseriti in lista di mobilità. In base a un accordo firmato dal ministero dello Sviluppo economico veniva erogato un incentivo che copriva il periodo di mobilità, diverso in base all’età dell’operaio e agli anni di lavoro maturati.

“Ci hanno erogato l’incentivo in una sola volta, insieme alla buona uscita. In pratica, hanno messo sul piatto un po’ di soldi per accettare il licenziamento. Ma ci hanno dato la piccola garanzia che chi veniva licenziato in quel periodo sarebbe rimasto in libro matricola per essere assunto dalla nuova azienda che avrebbe rilevato l’Alcoa. Questa è la nostra speranza”.

Mi piace la natura e già da tempo mi sono interessato all’apicoltura. Potrebbe essere il mio lavoro del futuro. Giacomo, ex operaio Alcoa

Oggi Giacomo si sta impegnando in un’altra attività, utile per il presente e, probabilmente, per il futuro: “Ho la passione per le api. Mi piace la natura e già da tempo mi sono interessato all’apicoltura. Ora sta diventando più di un interesse. Ho un’attività a conduzione familiare ma sto pensando sempre di più di fondare un’azienda apistica. Potrebbe essere il mio lavoro del futuro: le condizioni climatiche in Sardegna sono ottime per questo impiego e manca un mercato del miele. È nato come un hobby ma sto riuscendo ad avere anche dei guadagni. Un domani potrei diventare un imprenditore agricolo a tutti gli effetti e iniziare a vendere al dettaglio, magari avere un punto vendita e puntare ai finanziamenti europei. E può essere anche un motivo per dare risalto al territorio: la Sardegna offre queste opportunità, bisogna sfruttarle”.

Con un occhio sempre vigile verso la tuta da operaio: “Ho un piede in una scarpa e uno in un altra. Spero ancora nella riapertura della fabbrica. Quando ci sarà una risposta definitiva mi muoverò. Ma non rimango fermo ad aspettare, mi sto organizzando. Quando ci sarà da fare il passo sarò pronto”.

Un passo, Giacomo e i suoi colleghi, lo hanno già fatto: dalle sale e dal piazzale della fabbrica alle strade e alle piazze di Roma. E al posto degli attrezzi hanno cominciato a impugnare striscioni e megafoni. “Abbiamo iniziato le nostre battaglie già nel 2009 – racconta Claudio, ex operaio di 50 anni – l’azienda continuava a dirci che non poteva continuare a stare nel mercato ed era obbligatorio chiudere”.

Nel 2009, infatti, nascono i problemi. Quando Alcoa entra in Italia nel 1996 si ritrova a gestire il monopolio di tutta la produzione di alluminio. Per i primi 10 anni di attività un accordo con il Governo permette all’azienda di avere uno ‘sconto’ sull’energia, che nell’economia industriale è il costo che incide di più.

In pratica lo Stato, tramite un’accisa inserita nella bolletta dei cittadini, concede queste facilitazioni. L’accordo termina nel 2006, una volta finito il processo di privatizzazione. Dopodiché il Governo decide di rinnovare i termini dell’intesa, ma contro la decisione interviene l’Unione Europea che considera questo tipo di agevolazioni come aiuti di stato, non conformi ai regolamenti sulla correttezza in un mercato europeo. Alcoa viene multata ed è costretta a restituire circa 300 milioni di euro.

LA STORIA: DALLA CARBOSARDA AI LICENZIAMENTI


“Non sappiamo quali siano i veri motivi che hanno portato Alcoa alla chiusura, ma questo fatto è stato sicuramente determinante”. Anche Claudio, come Giacomo, ha deciso di attendere lo sviluppo della vicenda, sperando in una trattativa che permetta agli operai di riavere il loro posto di lavoro. Ma intanto, come era solito fare in fabbrica, non rimane con le mani in mano e cerca altre soluzioni: “Da un paio d’anni sono alla ricerca di un’altra occupazione, per il presente ma anche dando uno sguardo al futuro. Sono un grande appassionato di motociclismo e il mio sogno è quello di fare la guida turistica, facendo delle escursioni in moto e accompagnando i visitatori in giro per la Sardegna. Credo possa essere anche un buon motivo per far conoscere meglio la nostra cultura, le nostre tradizioni e la nostra cucina”.

Sono un grande appassionato di motociclismo e il mio sogno è quello di fare la guida turistica. Claudio, ex operaio Alcoa

I profitti però sono pochi: “Per ora ho messo su un’associazione sportiva, senza scopo di lucro, con cui mi diverto a portare in giro gli amici. Guadagno solo un piccolo rimborso spese che queste persone mi offrono volontariamente, ma è l’unico modo per poter farmi conoscere e verificare se la mia idea può avere successo. Ci sarebbe la possibilità di fondare un’attività a tutti gli effetti e mettersi in regola, ma non è semplice. Servono investimenti e c’è il rischio di perdere i pochi risparmi ottenuti nell’arco di una vita”.

La volontà di cercare qualcos’altro c’è, ma a 50 anni è difficile inventarsi un nuovo lavoro: “Io ho lavorato per 30 anni in fabbrica e ora rischio di finire seriamente sulla strada, senza possibilità. Siamo 500 operai in questa situazione di insicurezza economica, instabile, con un grosso punto interrogativo. La maggior parte di noi ha deciso di rimanere in lista di mobilità in attesa che la vicenda si sblocchi, altri si sono licenziati e hanno provato a mettersi in proprio”.

Ed è la via che ha intrapreso Corrado, ex operaio di 32 anni, che oggi fa il manager per Enel Energia. Per lui la giornata in fabbrica è giunta definitivamente al termine: “Rispetto al lavoro allo stabilimento – racconta Corrado – è un salto molto positivo. Prima ero in mezzo ai vapori e ai gas, ora vivo sicuramente meglio. Lavoro più di prima e non ho uno stipendio fisso, ma è un’attività che mi permette di stare più spesso a casa con la mia famiglia. E sicuramente sono più rilassato rispetto a prima”.

La storia di Corrado è diversa dalle altre: lui è uno dei pochi operai che ha deciso di licenziarsi dopo la chiusura della fabbrica. “Io mi occupavo di trasportare il metallo fuso dalle celle di estrazione alla fonderia. Mi sono licenziato prima di entrare in mobilità. Ho passato più di un anno fermo a casa e ritenevo fosse giunto il momento di prendere una decisione. Non potevo pensare di ritrovarmi a 32 anni e saper fare solo il lavoro di fabbrica. Ho deciso di lasciare per imparare subito qualcos’altro”.

Non potevo ritrovarmi a 32 anni e saper fare solo il lavoro di fabbrica. Ho deciso di lasciare per imparare subito qualcos’altro. Corrado, ex operaio Alcoa

Dopo il licenziamento, con un po’ di fortuna e coraggio, ha deciso di entrare nel campo delle consulenze: “Il primo impiego che ho trovato è stato di agente di commercio per un’agenzia di consulenti che trattano energia elettrica. Mi son trovato bene fin da subito. Lo scorso anno un’altra agenzia di Sassari mi ha contattato per fare il manager di ufficio per Enel Energia e ora sono ancora qui. Gestisco l’ufficio di Cagliari e mi trovo molto bene. Quando mi licenziai i miei colleghi e la mia famiglia erano contrari, ma sinceramente credo di aver preso la scelta giusta”.

Corrado però non ha smesso di interessarsi alle sorti della fabbrica e dei suoi ex colleghi: “Seguo sempre la vicenda tramite internet e i social network. Spero che l’azienda possa ripartire, per i colleghi e per il territorio, ma a parer mio è difficile. Dopo aver chiuso in Sardegna, l’Alcoa ha aperto una fabbrica negli Emirati Arabi che produce di più a costi inferiori. È difficile trovare un’azienda disposta a rilevare la fabbrica di Portovesme a queste condizioni”.


In verde le industrie ancora attive, in rosso quelle chiuse

Ma le proteste dei lavoratori in questi anni non si sono mai placate. Il 16 febbraio c’è stata l’ultima manifestazione a Roma e davanti allo stabilimento è sempre in piedi un presidio con cui operai e sindacalisti ‘proteggono’ la loro fabbrica.

“Alcoa potrà anche decidere di smantellare l’impianto – racconta Massimo Cara, ex operaio e rappresentante sindacale dello stabilimento – ma noi siamo agguerriti e non permetteremo che neanche un bullone venga portato via”.

Massimo è uno degli operai che hanno lavorato più tempo a Portovesme: “Sono entrato nella fabbrica nel 1987, avevo 29 anni. Allora era ancora a partecipazione statale. Lavoravo nel reparto fonderia. Nel 1996 poi è subentrata l’Alcoa, che ha privatizzato la produzione di alluminio in Italia”.

E in questi anni Massimo decide di entrare a far parte del sindacato: “Ho iniziato questa esperienza perché sono sempre stato una persona molta attiva. Non mi piace vivere nell’incertezza, ho sempre voluto decidere personalmente riguardo il mio lavoro. E in questo contesto ho sempre cercato di fare quella che era meglio per i lavoratori e per la produzione, interessandomi soprattutto dei carichi di lavoro e la lavorazione giornaliera. Senza sottovalutare, però, la questione ambientale, che in Sardegna è molto importante ”.

E quando iniziano le proteste, Massimo è in prima linea: “Dopo la multa dell’Unione europa l’azienda ha subito minacciato la chiusura dello stabilimento e la fine della produzione in Italia se il governo non avesse trovato un accordo con l’Unione Europea sul costo dell’energia. Noi operai abbiamo iniziato le nostre rivendicazioni verso lo Stato, affinché trovasse una soluzione. Se Alcoa viene multata per comportamento sleale, è anche vero che il resto d’Europa paga l’energia quasi la metà di quanto si paga in Italia. Basti pensare che mentre in Francia, Spagna o Germania il costo dell’energia varia dai 18 ai 35 euro, in Italia in certi periodi è arrivato a 70 euro. Da una parte c’è un’azione scorretta che riconosciamo, ma dall’altra non c’è nessuna tutela nei nostri confronti. Le nostre manifestazioni sono orientate in una risoluzione che è esclusivamente politica”.

Quali sono, allora, le reali soluzioni su cui Governo e Ue possono accordarsi? “L’accordo che abbiamo proposto è una soluzione che consenta a chi produce alluminio di essere competitivi, come il resto d’Europa. Dal 2013 l’Italia non produce alluminio, ed è una cosa scandalosa. Il nostro problema è che siamo costretti a comprare l’energia da altri parti, ma essendo un’isola non abbiamo la possibilità di farlo. Da qui nascono le strategie che governo e Ue stanno studiando per risolvere la questione”.

Nel dettaglio, si stanno studiando due soluzioni che potrebbero permettere allo stabilimento Alcoa di ripartire, favorendo l’ingresso di nuove aziende. La prima prende il nome di super interrompibilità ed è una modalità di gestione del carico offerta da aziende che operano nel mercato elettrico. In questo modo i produttori di energia modulano la richiesta da parte di aziende attraverso un deliberato distacco di alcuni carichi dalla rete, in cambio di una riduzione delle tariffe o di uno specifico riconoscimento economico. Queste agevolazioni non vengono ritenute aiuto di stato dall’Unione europea perché riconosciute come servizi necessari.

L’altra possibilità è quella di usufruire di un interconnettor, una struttura che permette all’energia di fluire tra delle reti consentendo quindi uno scambio tra territori. Il fine è quello di realizzare un mercato unico dell’energia elettrica, attraverso il potenziamento delle linee di interconnessione con gli altri Paesi europei. In questo modo i consumatori energivori, che si impegnano a contribuire al finanziamento dell’infrastruttura con il versamento di un contributo annuo, ricevono uno sgravio sui costi di approvvigionamento dell’energia.

“Un’alternativa che abbiamo suggerito – spiega invece Massimo – è quella di un accordo bilaterale con Enel che ci consenta di raggiungere intese per lunghi periodi con la partecipazione del governo o accordi privati che permettano di non incorrere in multe da parte della Unione europea”.

E nel suo futuro lavorativo, Massimo, vede solo la fabbrica: “Io tra qualche mese compirò 54 anni, sto sempre lavorando all’interno del sindacato e mi interesso delle vicende del territorio, ma non ho cercato altri impieghi, mi sono sempre dedicato alla vertenza e alle rivendicazioni degli operai. Mi piace fare questo, anche perché le alternative sono poche. Io non voglio lasciare la Sardegna, come stanno facendo tanti giovani. Io amo troppo la mia terra, spero con tutto il cuore che lo stabilimento riparta”.

Un’altra strada per portare all’inserimento di nuove aziende, e quindi consentire delle agevolazioni sul costo dell’energia, è quella che ha intrapreso il deputato alla Camera Mauro Pili, che qualche settimana fa ha proposto una legge per trasformare la produzione di alluminio in settore strategico nazionale, un trattamento straordinario che il governo ha già concesso all’Ilva di Taranto.

La proposta ha ottenuto la maggioranza di voti a favore, ma a oggi è ancora ferma a quel risultato. E nello stabilimento – e per il futuro dell’industria di Portovesme – non si vede ancora la luce.

Questo servizio è un Progetto di fine corso per il biennio 2014-2016 dell'Istituto per la Formazione al giornalismo di Urbino (IFG), pubblicato il 18 marzo 2016.