L’Italia non è un paese per festival. Così i grandi eventi sono scappati all’estero

 di MARCO TONELLI

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Il palco principale del Vasto Siren Festival

Bunny Wailer, Damian Marley, Sierra Leone’s Refugee All Star, e Lee Scratch Perry. Fino al 2009 questi artisti suonavano sul palco del parco del Rivellino a Osoppo, in provincia di Udine. Oggi si esibiscono a Benicassim, Spagna, davanti ai 240.000 appassionati che il Rototom Sunsplash si è portato dietro nella sua fuga dall’Italia. Le band che sul palco del Primavera sound di Barcellona suonano davanti a 190 mila persone, invece, in Italia approdano al Siren Festival di Vasto, 5.000 presenze.

Negli anni ’90 e 2000, le arene di cemento e i parchi verdi italiani erano pieni di spettatori, centinaia di migliaia di persone che affollavano i botteghini. Poi, qualcosa si è inceppato. L’Heineken Jammin’ Festival non c’è più, l’Arezzo Wave è ancora in vita ma è l’ombra di se stesso. Poca apertura da parte delle istituzioni locali, fondi pubblici esauriti, scarsa capacità di attrarre investimenti privati: così in dieci anni il nostro Paese ha perso grandi eventi musicali tra i più importanti d’Europa. E mentre l’Italia rimane al palo gli appassionati dello Stivale prendono il volo e girano l’Europa ingrossando le file del pubblico dei grandi eventi, dallo storico festival inglese di Glastonbury all’ungherese Sziget.

Una perdita che non è solo culturale ma anche economica. In Europa i grandi festival generano un indotto di decine di milioni di euro. Fuori dai nostri confini, festival come Reading e Glastonbury, nati nel 1971, continuano a macinare grandi numeri mentre realtà più recenti, come gli americani Coachella e Bonnaroo, in meno di dieci anni hanno polverizzato ogni record per numero di artisti coinvolti e presenze. In tutto il mondo i festival sono considerati vere e proprie istituzioni sociali ed economiche, con ricadute notevoli sul territorio.

Qualche eccezione, però, anche in Italia resiste. E tra piccoli e grandi eventi la scena sembra dare di nuovo segni di vita: grazie all’integrazione con il sistema turistico ed economico del proprio territorio, a Treviso il “giovane” Home Festival, nato nel 2010, totalizza centinaia di migliaia di biglietti venduti, mentre il “piccolo” Vasto Siren Festival riesce nell’intento di portare 5 mila appassionati in una cittadina di poco più di 40.000 abitanti.

L’Italia che arranca, con alcune eccezioni

IMG BUONA PER FOTOLi chiamano “festival diffusi”. Vere e proprie esperienze culturali e turistiche che durano tre o quattro giorni e non si fermano al semplice concerto. Una formula ormai consolidata in Europa, che in Italia sta prendendo piede ma con risultati più limitati per quanto riguarda le presenze e l’indotto economico.

Il panorama tricolore è composto principalmente da piccoli eventi in zone periferiche (e per questo difficilmente raggiungibili) e grandi realtà ma con numeri non lontanamente paragonabili al passato. I siciliani Ypsigrock e  Zanne,“mini” festival tra i più frequentati, raggiungono livelli massimi di circa 7 mila, 8 mila persone. Mentre il Beaches Brew di Marina di Ravenna si attesta sulle 10 mila presenze complessive. Sono realtà piccole, sostenute principalmente da finanziamenti europei, da agenzie di booking private e da associazioni culturali.

Video realizzato e pubblicato da Bronson Produzioni

E poi ci sono i festival più grandi, che spalmano gli eventi nell’arco di alcuni mesi o di una stagione e che così riescono a totalizzare numeri importanti.

E’ il caso del Rock in Roma che nell’edizione 2014 in tre mesi estivi di live ha totalizzato 200 mila presenze, o del Lucca Summer Festival, più di 90 mila presenze per 14 concerti dal vivo in un mese, nel 2015, con un indotto economico di 4 milioni di euro.

Unico esempio “europeo” per filosofia e dimensioni è l’Home Festival di Treviso. Nato nel 2010, è un vero e proprio evento diffuso con campeggio e iniziative culturali come la fiera del vinile, le presentazioni di libri e uno spazio dedicato alle associazioni della città. Il risultato?  Nell’edizione 2015 quasi 100 mila persone hanno affollato la cittadina veneta, con punte di 30 mila per il live del dj berlinese Paul Kalkbrenner.

Con una lineup capace di attirare un pubblico variegato – Interpol e Franz Ferdinand per gli amanti del rock, J-Ax, lo stesso Kalkbrenner e Marracash sul versante più pop – l’Home Festival è capace di generare un indotto economico non indifferente con alberghi pieni e almeno 80 imprese del luogo coinvolte nell’organizzazione dell’evento.

Un risultato positivo, ma messi in prospettiva i numeri attuali sono ancora lontani da quelli degli anni ‘90 e primi 2000 del rock alternativo, quando erano presenti enormi contenitori di band e realtà diverse, dal rock al pop, dal nu metal all‘indie rock. Il defunto Heineken Jammin’ Festival totalizzava una media di 100 mila presenze in quattro giorni, fino all’ultima edizione del 2012. L’ Arezzo Wave, storico festival toscano, nel 2004 ha raggiunto un picco di 200 mila presenze. Gli emiliani Indipendent Days e Flippaut erano meno frequentati, ma comunque si attestavano sulle 25 mila presenze.

L’Europa che avanza

Mentre il nostro Paese rimane indietro, in Europa i grandi eventi guardano avanti. Per la Spagna, il Regno Unito, i Paesi scandinavi o l’Ungheria, i festival musicali sono grandi rassegne artistiche perfettamente integrate nei flussi globali del turismo, con grandi sponsor commerciali a sostenerli. Milioni di euro di indotto economico e interi territori, città grandi e piccole, invasi da centinaia di migliaia di spettatori.

L’impatto economico dei mega festival inglesi è enorme. Ci sono eventi storici come i festival di Glastonbury e di Reading, nati nel 1971, che nel 2014 hanno totalizzato rispettivamente 135 mila e 90 mila presenze. Sono grandi contenitori in cui suonano tutti, dai Red Hot Chili Peppers a Kanye West, passando per Florence and The Machine, The Who e Massive Attack: un mix di band più commerciali e altre più alternative. Poi ci sono i festival dedicati esclusivamente al rock alternativo come l’All Tomorrow’s Parties: lineup curata dagli artisti stessi, una versione in Islanda e un palco anche al Primavera Sound di Barcellona.

Se dall’Inghilterra ci spostiamo più a Nord, in Danimarca, il Roskilde Festival ha totalizzato nell’ultima edizione del 2015 90 mila biglietti venduti. Nato negli anni ‘70, è uno dei primi festival aperti alla poesia, all’arte e al teatro, oltre che alla musica. Se si guarda a Est, il vero campione mondiale è lo storico Sziget Festival: dal 1993 a Budapest, in un’isola in mezzo al Danubio, con 415 mila presenze nel 2014. Un record mondiale anche per la durata più lunga, una settimana invece del classico weekend.

Ma è la Spagna il paradiso europeo dei festival: il Sonar e il Primavera Sound macinano numeri da capogiro. Il primo, dedicato alla musica elettronica e sparso tra i locali e le location di Barcellona ha totalizzato nel 2014 100 mila biglietti venduti per 40 milioni di euro di introiti. L’altro è il festival dedicato alla musica “indipendente”, secondo al mondo per prestigio tra i raduni indie solo al californiano Coachella, con 198 mila biglietti venduti e 98,4 milioni di euro di indotto nel 2014.
 

Italia Vs Europa, 10 anni di Festival Create column charts

  Da Barcellona a Vasto

riquadrino piccoloAnche l’Italia ha il suo Primavera Sound, ma in versione mini. Alcune delle band che salgono sul palco del Vasto Siren festival sono le stesse che suonano in Spagna, ma il confronto tra le dimensioni dei due eventi è impietoso.

Anche nel 2016 il Primavera Sound di Barcellona ha messo in piedi un cartellone enorme: 184 band e artisti che suoneranno dal primo al 5 giugno al Parc del Forum nel lungomare di Barcellona. Un festival frequentato da un pubblico proveniente da tutta Europa. Parte integrante dell’offerta turistica e culturale della Catalogna.

Secondo uno studio pubblicato nel 2015 dall’agenzia di comunicazione londinese Dentsu Aegis e basato su dati raccolti durante l’edizione 2014, gli spettatori presenti sono stati 191.800 di cui il 26%  di Barcellona e almeno il 46%  stranieri, provenienti da 140 nazioni, con un’età media che va dai 25 ai 35 anni d’età. Un pubblico che spende in media 544 euro per persona (226 euro per i residenti e 780 per i visitatori). Questi ultimi hanno totalizzato un totale di 27.802 voli e 129.264 pernottamenti. Il festival si sostiene per la maggior parte con gli incassi: 39,7 milioni di euro provenienti dagli abbonamenti venduti agli spettatori a fronte di di 3,7 milioni di euro provenienti dagli sponsor commerciali, a cominciare da Heinekein, partner strategico. Per quanto riguarda i sostenitori pubblici (comune di Barcellona e Generalitat catalana), i loro finanziamenti rappresentano solo il 2% del totale, rispetto al 15% proveniente da partner commerciali. Infine è l’organizzazione stessa ad investire, con 11,3 milioni di euro.

E la città sembra apprezzare. Sempre secondo Dentsu Aegis, che ha contattato in un sondaggio telefonico un campione di abitanti di Barcellona, per il 91% di loro il Primavera Sound rappresenta un evento appropriato per la città, soprattutto per l’impatto economico in termini di indotto e di lavoro creato. Per metà di loro, il festival è uno degli eventi più importanti in termini nazionali, e infine per l’80% gli inconvenienti creati dall’enorme afflusso di spettatori nel periodo del festival sono assolutamente compensati dal successo dello stesso.

Primavera Sound 2014
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Da Barcellona al Vasto Siren Festival ci sono 1.516 chilometri, ma la distanza tra la Catalogna e l’Abruzzo sembra ben più ampia. Il festival nasce dall’idea del promoter americano Louis Avrami ed è stata messa in pratica da Dna Concerti, con il sostegno del Comune e della Provincia di Chieti. Nel 2015 si è tenuto dal 23 al 26 luglio, con una lineup a metà tra grandi nomi internazionali e band nostrane. La seconda edizione del Vasto Siren Festival è stata frequentata soprattutto da un pubblico proveniente dal Centro e dal Sud Italia. Più di 3 mila le presenze nel 2014 e almeno 5 mila quelle del 2015.

E se arrivare nella capitale della Catalogna è semplice, la piccola cittadina abruzzese sconta forti limitazioni in termini di infrastrutture.  L’appassionato di musica italiano ha tre possibilità per raggiungere Vasto: in auto, bus o treno. Per chi sceglie l’automobile la via obbligata in autostrada è la Bologna – Taranto. L’alternativa sarebbe di imbarcarsi in un viaggio in treno, con tempi di percorrenza di più di 5 ore da Milano e addirittura più di 7 da Roma. “Abbiamo scelto il treno perché non abbiamo la macchina, ma non è stato facile”, raccontano dei ragazzi di Napoli.

Se si è stranieri l’aeroporto più vicino è quello di Pescara che dista 59 chilometri per almeno 2 ore di viaggio con l’autobus o un’ora con il treno. Londra, Francoforte, Bruxelles e Parigi, sono i voli disponibili verso l’aeroporto d’Abruzzo. Almeno fino al 27 ottobre 2016 quando Ryanair, la principale compagnia aerea che opera nello scalo, ha annunciato che lascerà Pescara.

Durante il periodo del festival le prenotazioni raddoppiano, conferma il dirigente dell’ufficio turismo e cultura di Vasto Amerigo Ricciardi. Per chi decide di muoversi all’ultimo minuto trovare una stanza negli alberghi del piccolo centro cittadino non è semplice. Per chi vuole rimanere più di un giorno, sul sito web del festival sono presenti dei pacchetti turistici comprendenti pass per due giorni offerti in collaborazione con due grossi alberghi della zona, ma non esistono vere e proprie convenzioni o link che indirizzino ai siti web delle strutture ricettive.

Una volta lasciata la propria valigia in albergo, è ora di andare a comprare o a lasciare i biglietti già acquistati nei punti informativi per ottenere in cambio il braccialetto, vero e proprio lasciapassare con cui entrare e uscire a piacimento dai vari varchi del festival. L’organizzazione, dicono gli spettatori, funziona. E anche gli imprenditori cittadini hanno accolto bene l’evento: ristoratori e baristi sono soddisfatti, ma allo stesso tempo lamentano l’assenza dell’amministrazione comunale. “Vasto ha perso molto negli anni, un festival di questo tipo è molto importante per il turismo della città”, afferma un barista del centro che però se la prende con il Comune, “l’evento è una cosa caduta dall’alto”.

Il festival che se ne va, e quelli che non tornano più

E se Vasto e Treviso sono segnali comunque incoraggianti per il futuro, oggi l’Italia è anche il Paese del passato che non torna più. Fino al 2009 il Rototom Sunsplash Festival, il più grande evento europeo dedicato alla musica e alla cultura reggae, portava 150 mila persone a Osoppo, un piccolo paesino del Friuli-Venezia Giulia. Poi l’organizzazione, guidata dal fondatore Filippo Giunta, dopo le inchieste sullo spaccio di droga e il taglio dei finanziamenti, è scappata in Spagna nella cittadina di Benicassim, dove il festival continua a crescere. Un evento fondamentale per la piccola comunità spagnola (poco più di 12 mila abitanti) già attrezzata e abituata alle grandi manifestazioni, con tanto di aree e spazi dedicati.

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Il Rototom Sunsplash a Benicassim

Da 2010, il Rototom versione spagnola raduna 240 mila persone sotto il palco per ascoltare artisti di primo piano, almeno per gli amanti del reggae, come Bunny Wailer, Damian Marley, Sierra Leone’s Refugee All Star, e Lee Scratch Perry. Fino al 2009 tutti questi musicisti suonavano sul palco del parco del Rivellino a Osoppo, in provincia di Udine e ogni estate il piccolo paesino di 3 mila abitanti si popolava di quasi 150 mila persone che campeggiavano in un area di 240 mila metri quadrati. “Vada a chiedere al fruttivendolo o al giornalaio com’era Osoppo con il festival”, racconta un signore in un bar del centro cittadino.

Una popolazione di 3 mila abitanti conviveva pacificamente con gli appassionati di musica reggae che dormivano sì nel parco, ma giravano e, soprattutto, spendevano nel paese. “Molte aziende hanno chiuso – afferma l’ex sindaco Luigino Bottoni – Osoppo ha un territorio a vocazione industriale ed è tornato a far quello, ma durante il festival era diverso”.

Nelle strade deserte e nei vicoli assolati riecheggia ancora l’eco del passato. E nei ricordi degli abitanti della droga non c’è nessuna traccia o quasi. “Sì c’erano degli spacciatori, spesso dormivano nelle grotte proprio sotto il forte, ma non c’erano grandi problemi”, afferma Ferdinando, proprietario dell’Hotel Pittis, uno dei più grandi alberghi della città. Ma non la pensavano esattamente così le forze dell’ordine e le istituzioni dell’epoca.

Dal 2006 al 2009 non sono mancati i controlli e le perquisizioni nei confronti degli spettatori del festival. “Un vero e proprio accanimento verso il Rototom e in particolare contro Filippo Giunta”, attacca l’avvocato del festival Pier Mario Cudini. I numerosi interventi dei carabinieri si sono trasformati in una denuncia per agevolazione al consumo di stupefacenti nei confronti del fondatore, chiamato a difendersi in un procedimento penale finito con l’assoluzione il 13 maggio 2015.

Immagini del Festival prese dall'utente Youtube Kulturattentat

Ma anche la politica si è scagliata contro il festival: in particolare le amministrazioni regionale e provinciale, entrambe in quota Pdl. Poi nel 2009 a sancire la rottura definitiva con l’organizzazione del festival è arrivato il taglio dei finanziamenti (circa 60 mila Euro) da parte della giunta di Renzo Tondo. E la conseguente migrazione in Spagna.

Il Parco del Rivellino a Osoppo

I festival defunti, o quasi

L’Arezzo Wave love Festival e l’Heineken Jammin’ Festival erano grandi eventi musicali, ma non radicati nel territorio che li ospitava.  Il primo era uno storico festival alternativo con una proposta musicale dedicata alla scoperta delle novità italiane e internazionali nel campo del rock. L’Heineken invece è stato il primo esempio di festival italiano interamente sponsorizzato e brandizzato da un marchio commerciale.

Nel 1987, Arezzo ospita la prima edizione del’Arezzo Wave, evento dedicato alle novità della musica italiana e internazionale. Sul palco nel corso degli anni ci salgono tutti, dagli italiani Afterhours e Almamegretta fino a star internazionali come Nick Cave e Tricky. Creato da Mauro Valenti, il festival è stato finanziato da enti pubblici come la Provincia e il Comune di Arezzo, ma anche dal ministero della Cultura francese. Poi la crisi dei fondi pubblici, e nel 2007 lo spostamento da Arezzo a Sesto Fiorentino con il nome di Italia Wave.

I Marlene Kuntz all'Arezzo Wave (video caricato da Fuoco Fatuo, riprese di TMC2)

La prima edizione fiorentina sembra segnare il ritorno del festival agli splendori di un tempo. In cartellone band come Scissors Sisters, Mika e Carmen Consoli. Ma nonostante l’affluenza di pubblico, il bilancio del festival è zavorrato dagli enormi costi delle infrastrutture. Da quel momento  diventa un festival itinerante tra Firenze e Livorno, sempre meno internazionale a causa delle difficoltà economiche. Dal 2012 in poi torna a Arezzo e riprende il nome di Arezzo Wave, dedicandosi esclusivamente alla musica italiana emergente e diventando un concorso canoro per band emergenti. Il festival è ancora vivo, ma è come se non lo fosse.

Anche dell’altro mostro sacro dei festival italiani, l’Heineken Jammin’ Festival di Imola, non restano che i ricordi. Per dieci anni è stato il contenitore musicale per eccellenza: i concerti andavano da Vasco Rossi ai Green Day, passando per Marilyn Manson, Blur, Korn, Placebo, Bon Jovi. Una generazione di ascoltatori sotto al palco, con concerti che spesso finivano con lanci di bottiglie e urla dal pubblico. Dal 1998 al 2008 i biglietti venduti sono stati dai 100 mila ai 130 mila per edizione con ricavi che sono arrivati a 4 milioni e 400mila euro.

Poi a partire dal 2008 lo spostamento al Parco San Giuliano di Mestre. Il passaggio dalla spianata di cemento dell’autodromo al parco verde ha portato con sè una serie di sfortunati eventi. Nel 2007, una tromba d’aria ha fatto crollare gli impianti audio e di illuminazione ferendo almeno 30 persone. Nel 2009, il festival previsto per giugno, è stato spostato al mese successivo e infine cancellato senza nessuna spiegazione.

Questo servizio è un Progetto di fine corso per il biennio 2014-2016 dell'Istituto per la Formazione al giornalismo di Urbino (IFG), pubblicato il 18 marzo 2016.