Ortoterapia, a Bologna il seme della guarigione sboccia tra rose e zucchine

di DANIELA LAROCCA

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Foto di Patrizia Preti

A Bologna, in primavera, partirà il progetto di ortoterapia per i malati oncologici, voluto dall’associazione Orti Salgari e dalla Lilt. Da tempo, però, tra i recinti periferici del Pilastro, diversi aspiranti contadini coltivano il proprio fazzoletto di terra. Ognuno per ragioni diverse.

C’è Patrizia, la presidente dell’associazione, che ha imbracciato la zappa più di dieci anni fa, quando ha scoperto di avere un tumore. Ci sono sei studenti della scuola media Aurelio Saffi che, con grazie al loro professore di italiano, imparano a conoscere i ritmi della terra. Infine, c’è Martin, un altro studente che soffre d’autismo: ha 13 anni e non riesce a stare lontano dall’orto, specie dalla pianta del rosmarino.
Per ognuno di loro, le zolle di terra umida, il verde delle piante, la frescura dell’acqua usata per innaffiare sono ingredienti per curare corpo e anima.


       PATRIZIA, LA DOTTORESSALIBRI E ZAPPE
IL PROFUMO DEL ROSMARINO –  TERAPIE “FRAINTESE”


Patrizia, la dottoressa che ha sradicato per quattro volte il tumore

Strappare le radici con le mani, sporcarsi i palmi di terra, innaffiare le piante dell’orto. È il luglio del 2009 e il tempo di Patrizia Preti, 59 anni, pediatra all’ospedale Maggiore di Bologna, trascorre così, tra gesti cadenzati, scandito dal battere ritmico della zappa sulla terra arsa dal sole.

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Patrizia Preti agli orti Salgari

Orto numero 97. Un cartellino con questo numero contrassegna  il pezzo di terra dove Patrizia lavora: è appoggiato alla base della recinzione, ricorda quelli affissi sulle porte delle stanze d’ospedale. Perché l’orto per Patrizia, in realtà, è un luogo di cura in cui,  i colori freddi e asettici del reparto sono scalzati dal giallo, dal verde, dal rosso, dal viola prepotente degli ortaggi e dei fiori.

Patrizia è anche una paziente e, in nove anni, tra il 2003 e il 2012 ha dovuto affrontare per quattro volte il tumore al seno, sottoponendosi a numerosi cicli di chemioterapia. “Da medico sapevo bene che la terapia non mi bastava – ricorda – avevo  bisogno di una cura”. Così, sei anni fa, Patrizia ha ottenuto un orto comunale, 42 metri quadri in via Salgari, zona Pilastro. E lì, dove le macchie verdi dei giardini sono recintate dalle strade della periferia bolognese, la dottoressa ha iniziato a prendersi cura di se stessa in modo differente: vangando l’orto, giorno dopo giorno. Prima dell’ortoterapia, Patrizia aveva tentato altre strade: agopuntura per combattere la nausea post chemioterapia, yoga, arteterapia, senza trovare il sollievo che cercava.

Da quell’estate sono passati anni, ma Patrizia torna sempre all’orto 97, mette gli stivali di gomma e impugna gli attrezzi da lavoro.  “Non potrò mai dimenticare la decisione con cui zappavo la terra – continua la dottoressa – sradicavo le radici a mani nude, come se fosse un gioco, per divertirmi. O per strappare fisicamente qualcosa che in realtà portavo con me”. Gli ortolani vicini si divertivano a prenderla in giro e a darle continuamente consigli: “Mi criticavano sempre per come seminavo, per come curavo la terra. Poi un giorno, uno di loro si avvicina e mi dice: ‘Ma lo sai che per essere una donna vanghi proprio bene?’”. Complimento o no, la dottoressa aveva conquistato la simpatia dei suoi vicini di recinto.

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Patrizia insieme ad alcuni membri dell’associazione da sinistra Paolo Cosenza, Gianni Lo Monaco, Gino Lelli e Roberto Monesi

A piene mani. “In mezzo agli orti non sei un paziente, semplicemente sei un contadino come gli altri”, racconta Patrizia. Tra le piantine impegnate nello sforzo di sbocciare e i cumuli di terra smossi dalle talpe, le mani dei pazienti sono strumenti attivi, che lavorano il terreno. Le braccia, rese più forti, si muovono ritmicamente e nell’incavo nessun ago punge, in sottofondo non ci sono né sospiri né suoni sordi di macchinari. Quegli stessi palmi, “sporchi” di lavoro non restano mai vuoti: “L’orto ti dà sempre qualcosa”, spiega la dottoressa.

E non c’è solo il rapporto con la natura. I piccoli appezzamenti di terra sono come gli appartamenti di un condominio, “con i vicini brontoloni, quelli che litigano per chi consuma più acqua o per chi sfora nel terreno accanto”, racconta Patrizia. Ma nell’orto “i motivi delle discussioni si dimenticano presto  e, spesso, un sacchetto di zucchine regalato al vicino sancisce il ritorno all’armonia”.

Nel quartiere Pilastro gli assegnatari degli orti sono 380 e i membri dell’associazione ortiva  più di 500. Tra questi ‘contadini improvvisati’ si è creato un legame di amicizia molto forte. “E io ne sono un esempio – spiega Patrizia – perché ho potuto contare sull’aiuto di due veri angeli”, Roberto Monesi, vice presidente dell’associazione “Orti Salgari” e Paolo Cosenza, membro del comitato organizzativo. Se Roberto è più pacato e aiuta Patrizia a tenere i conti in ordine, Paolo è il vero tuttofare del gruppo. Suo è il compito di intervenire quando si rompe un tubo, quando qualcuno spezza la chiave nel recinto “ma soprattutto quando c’è da cucinare. Lui è un ottimo cuoco”, commenta sorridendo la dottoressa.

Dante e Paolo sono due degli assegnatari degli orti Salgari, in zona Pilastro. I due uomini raccontano la vita degli aspiranti contadini, gli aiuti, i consigli e amicizie che si instaurano tra i vicini di orto

 

Essere paziente.“Quando ero malata, avevo dimenticato cosa volesse dire stupirsi – prosegue Patrizia – perché  quando il tumore aggredisce il corpo, la mente stanca non bada ai dettagli”. Ma poi, un giorno, con i piedi piantati nella terra, tra le foglioline verdi delle fave appena nate, “ho visto i colori dell’alba e del tramonto, mi sono stupita nuovamente delle gemme sugli alberi e mi sono emozionata per gli odori che mi circondavano”. La frustrazione e la stanchezza provocate dalla malattia erano sparite: “Lì ho capito che, nonostante la fretta di guarire o di vedere i semi che hai piantato diventare frutti, non potevo controllare i tempi della natura. Dovevo aspettare”.

Non so quanto abbia influito sulla mia guarigione il fatto che io fossi un dottore. Sapevo che quello di cui avevo bisogno non erano altre medicine . Patrizia

Dall’elezione al progetto con la Lilt. Patrizia è una pioniera: ha cominciato a coltivare l’orto prima ancora di sapere che quest’attività fosse oggetto di una terapia di sostegno per i malati oncologici. Poi, non solo non è più andata via dagli orti di via Salgari, ma da sei anni è anche la presidentessa dell’associazione: “Ormai è una seconda casa. Anche qui devo fare i conti e tenere tutto in ordine”, scherza la dottoressa.

Lo scorso ottobre Patrizia ha deciso di utilizzare la sua esperienza e proporre alla Lilt, la Lega nazionale per la lotta ai tumori, un progetto di ortoterapia per i malati di cancro. Grazie al patrocinio del quartiere San Donato, per i pazienti oncologici verranno messi a disposizione 40 metri quadri dove piantare fiori e ortaggi. In più, l’associazione metterà a disposizione uno spazio per le erbe aromatiche e, per chi ha difficoltà motorie, degli orti rialzati. Il progetto dovrebbe partire in primavera: “Speriamo che le belle giornate attirino i pazienti. Noi saremo qui per accoglierli e sostenerli. O semplicemente per fare due chiacchiere”, conclude Patrizia.

Il parere dell’oncologo. L’ortoterapia è un ottimo sostegno per i pazienti: lavorando la terra il corpo è sottoposto a costante esercizio e non ci sono controindicazioni. Gli effetti benefici di questa pratica sono contemporaneamente fisici e psichici. Come con l’arte, il teatro e lo yoga, la buona riuscita dell’attività dipende solamente dalla capacità del paziente di somatizzare gli effetti positivi della terapia. Secondo Antonio Maestri, primario del reparto Oncologia all’ospedale S. Maria della Scaletta di Imola, “se il corpo malato accetta gli input esterni, le ripercussioni benefiche saranno evidenti”.

Un ramo di melo ornamentale al tramonto

Un ramo di melo ornamentale al tramonto

Per quanto riguarda le attività fisiche, nulla è lasciato al caso: “Ogni patologia tumorale ha una diagnosi diversa – commenta l’oncologo – e tutti i movimenti devono essere studiati preliminarmente con un terapeuta”. Si valuta, infatti, la forza del paziente, le sue condizioni di salute e lo stato della malattia. Chi è sottoposto a cicli di chemioterapia molto forti non può fare grandi sforzi fisici così come non è consigliato l’orto a coloro che “hanno metastasi lungo la colonna vertebrale o a chi ha una difesa immunitaria molto debole. In questo caso – spiega Maestri – data la mancanza di globuli bianchi sufficienti, il contatto con altre persone o il semplice freddo potrebbe essere pericoloso”.

Per i pazienti meno gravi, l’ortoterapia rientra nella rosa di proposte più consigliate per il recupero delle forze e del buon umore. Le ore trascorse in mezzo alla natura a lavorare la terra stancano fisicamente e mentalmente il paziente favorendo, ad esempio, il sonno, senza ricorrere all’utilizzo di sonniferi o antidolorifici. “Il solo fatto di uscire di casa e trovare qualcuno con cui socializzare genera un cambiamento metabolico positivo”. L’effetto sul corpo, secondo il primario, è paragonabile a quello provocato dalla cannabis a scopo terapeutico: rilassamento del corpo e miglioramento dell’umore.

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Gli alunni di via Panzini ‘lasciano’ i libri e prendono le zappe


Sono le tre di pomeriggio. Alla scuola media Aurelio Saffi, in via Panzini, zona Pilastro, la campanella suona, ma sei studenti, tre ragazze e tre ragazzi, sono lontani dai banchi. Camminano ordinati sul marciapiede che costeggia gli orti Salgari. Il loro passo è deciso, quasi impaziente. Sulle spalle nessuno zaino. I libri li hanno lasciati a scuola, li riprenderanno più tardi: adesso è il momento della prima lezione di ortoterapia del quadrimestre.
Il professore Paolo Bosco fa strada. “State attenti alle macchine, non vi allontanate”, raccomanda agli allievi. Prima di attraversare il cancello ed entrare negli orti, si volta e controlla che ci siano tutti. Il gruppo che partecipa al laboratorio conta una decina di persone, ma oggi ci sono alcuni assenti.

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Gli studenti hanno piantato delle violette da portare a scuola

L’arte di saper aspettare. La scuola media Saffi non è molto lontano dagli orti. Quest’anno i docenti hanno deciso di proporre un laboratorio pomeridiano all’aperto: un gruppo di ragazzi, di diverse classi, coltiverà un orticello, dissodando la terra, seminando e raccogliendo gli ortaggi. Così come a scuola, gli alunni avranno un quadrimestre per imparare i cicli di coltivazione della terra. Nessun esame finale: a decidere sulla ‘promozione’ dei ragazzi sarà la buona riuscita del raccolto, a maggio. Il laboratorio si tiene una volta a settimana, il lunedì, e dura due ore. Quando piove la lezione agli orti è rimandata, ma “si continua comunque a parlare di piante in classe”, spiega Paolo, siciliano di nascita e bolognese di adozione. Da 20 anni insegna italiano, storia, geografia e da qualche tempo anche “l’arte del saper aspettare”, come lui stesso definisce il laboratorio didattico.

Alberto

Alberto durante la lezione agli orti Salgari

Piccoli ortolani. Quasi nascosta dietro la spalla del professore c’è Ida, la più piccola del gruppo. Ha 11 anni e fa la prima media. Gli occhiali da vista sul suo naso sembrano troppo grandi per il suo viso, circondato da capelli lunghi e neri. Poco più in là ci sono Gilda e Marianna, rispettivamente 13 e 14 anni, impegnate in confidenze “troppo da grandi” per coinvolgere Ida. Gilda è la più alta delle due, espressione imbronciata e un po’ strafottente. Chiusa nel suo giubbino stretto e nero bisbiglia qualcosa all’orecchio dell’amica. Marianna risponde con una risatina e il suo volto tondo si illumina. “Nessuna di voi due ha le scarpe adatte per stare in mezzo alla terra”, le rimprovera il professore. Le ragazze abbassano gli occhi verso i loro stivaletti neri con un po’ di tacco, poi alzano leggermente le spalle: “La prossima volta veniamo con le scarpe da ginnastica”, rispondono in coro.

Si distaccano dal gruppo due ragazzi, Alberto, 13 anni, e Lucio, 11 anni. Per loro la differenza di età non sembra essere un problema: arrivano agli orti chiacchierando di calcio e di sport, ignorando completamente le risatine delle compagne. La temperatura non supera i 7 gradi. E se Lucio si copre il viso con il cappuccio del suo piumino, Alberto indossa solo una felpa grigia che toglie subito per mostrare una t-shirt nera su cui campeggia la scritta rossa “Metallica”, una maglia troppo grande per essere la sua.

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Le fave sono una coltura invernale, molto frequente negli orti

Aromi e serre. Ad accogliere la scolaresca ci sono Patrizia, la dottoressa, e due degli ortolani, Roberto Monesi e Paolo Cosenza. Per la prima lezione non è prevista alcuna attività pratica: le zappe resteranno nel deposito. La notizia sembra deludere un po’ i maschi, mentre le ragazze, decisamente indifferenti, si siedono su una panchina. “E pensare che oggi non ho potuto vedere la puntata di Uomini e donne per essere qui. Quando ci sono i vecchi muoio troppo dalla risate”, si lamenta Marianna.

“Quello di cui parleremo oggi sono le piante aromatiche. Qualcuno di voi le conosce?” chiede il professore. Alberto e Lucio azzardano qualche risposta, ma alla fine si arrendono. Paolo mostra loro delle foglie di salvia. “Prof, ma come fai a sapere tutte queste cose?” gli chiede Gilda, staccando per un attimo gli occhi dai suoi anelli. “Sono figlio di un agricoltore, mio padre coltivava giù in Sicilia i limoni – risponde Paolo – E poi queste piante le conoscete anche voi: le usano le vostre madri per cucinare”. Il giro continua e dalla terra umida spuntano finocchi, cipolle, lattuga e cavolo nero. Marianna lo riconosce subito: “Quello lì è buono se cotto in padella con la salsiccia, come lo fa mia madre”.

Lo sguardo dei ragazzi si fa sempre più interessato man mano che vedono altri ortaggi nei recinti. La verdura così ‘sporca’ non l’hanno mai vista nei supermercati, dove nessun prodotto è di stagione e tutti sono pronti per essere imbustati e portati a casa. Nell’orto le foglie dell’insalata non sono perfette, le carote non spuntano già pronte nei sacchetti e non ci sono zucchine né melanzane a febbraio. “E le fragole che ho mangiato qualche giorno fa da dove vengono?” domanda Gilda. “Da una serra, molto probabilmente” le risponde il professore. Peccato che nessuno dei ragazzi sappia cosa sia una serra. Tutti tranne Alberto che l’ha vista in un film e prova a descriverla: “ È una tenda trasparente dove il caldo fa crescere la frutta e la verdura che normalmente crescerebbero con il calore dell’estate”. La spiegazione non convince i compagni di classe, distratti subito da altro: le bottiglie di plastica che spuntano su alcuni pali di ferro, fazzoletti colorati legati alle piante, scarpe da ginnastica o pupazzetti sulle staccionate di legno. “Gli orti sono come le case – spiega Roberto, uno degli ortolani – Questi oggetti ci aiutano a riconoscere il nostro recinto, un po’ come i numeri civici per le abitazioni”.

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Le piantine di fave sbocciano nell’orto 97

Effetto orto, oltre la scuola. L’obiettivo del laboratorio è insegnare ai ragazzi gli aspetti pratici della coltivazione, ma punta soprattutto alla partecipazione emotiva degli allievi. “I ragazzi capiscono il valore della terra ma soprattutto si misurano con un valore spesso sconosciuto: la stanchezza da lavoro”, commenta il professore Paolo.

Poi, rivolgendosi ai ragazzi, chiede: “A chi di voi è mai capitato di aver bisogno del contatto con la natura?”. Si alzano, insieme, le mani di Alberto e Marianna. “Quando ero piccolo coltivavo l’orto con mio nonno. Piantavamo legumi. Era così divertente che a volte mi manca”, racconta il ragazzo. Marianna, invece, ammette di immergere le mani nella terra umida quando è triste: “Non so perché lo faccio ma aiuta, mi calma”, rivela con un po’ di imbarazzo.

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Martin, quando il silenzio profuma di rosmarino


Lontano dagli altri ragazzi c’è Martin, seduto su una panchina. Attorno a lui nessuno parla. Il silenzio è interrotto solo dal ronzio degli insetti che girano attorno al suo volto, concentrato. Tra le mani pezzi di terra umida: basta un po’ di pressione e subito si sgretola. Martin sorride e ne prende dell’altra. Dopo la terra, tocca al rosmarino. Il ragazzo si avvicina a una pianta a forma di mezzaluna, strappa un ramoscello e se lo avvicina al naso. Le foglioline a forma di aghi gli solleticano il viso. Martin sorride per un istante, poi torna pensieroso. Il suo giubbino rosso spicca tra il verde che predomina nell’orto.

Martin ha 13 anni e soffre di autismo a basso funzionamento, la forma più grave del disturbo che condiziona completamente la sua sulla capacità di linguaggio. L’autismo gli è stato diagnosticato all’asilo e da quel momento Martin è seguito da Donatella Acciaro, la sua educatrice. Gli spazi chiusi non gli piacciono. Per questo motivo, insieme a Patrizia, gli insegnanti di Martin hanno deciso di creare un laboratorio di ortoterapia pensato per le sue esigenze. Spesso i soggetti autistici sembrano assenti, come se vivessero in un mondo proprio. Succede anche a Martin anche se, secondo il racconto degli insegnanti, all’aria aperta sembra rispondere meglio agli stimoli esterni: “Quando si avvicina alle piante ci guarda in un modo che ci fa capire che c’è, che capisce esattamente dove è e cosa sta facendo”, racconta Donatella.

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Cartello sul recinto di un orto

Il tempo dei gesti. Patrizia si avvicina per salutare il ragazzo: “Come stai?”, chiede la dottoressa prima di abbracciarlo. Ma Martin non risponde, non lo fa mai. In un attimo si è già svincolato dalle braccia della donna ed è tornato a concentrarsi sul rosmarino. “Martin guarda, il signor Paolo ti vuole dare una caramella”, ma nemmeno queste parole riescono a distogliere la sua attenzione verso la pianta. Alza una mano, la apre e la poggia sopra il rosmarino. Poi strappa un ramoscello che subito distrugge tra le mani. Una, due, tre…

Martin ripete gli stessi gesti diverse volte: prende il rosmarino, con una mano tiene fermo il gambo e con i polpastrelli dell’altra tira via tutte le foglioline. “Per lui la manualità è importante. Ama ripetere i gesti e avere il contatto con tutto quello che lo circonda”, spiega l’educatrice. La routine consolida, nei soggetti autistici, la consapevolezza del mondo esterno: “L’importante è che tutto passi attraverso brevi azioni, micro-attività, primi passi di un lungo cammino”, continua Donatella.

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Martin con delle foglie di Coriandolo. Vicino c’è Lucio

Terapia anti-isolamento. Le persone affette da autismo tendono a isolarsi: per cercare di limitare questo problema, i professori hanno pensato di inserire Martin nel gruppo che segue il laboratorio. Ma se gli altri ragazzi sono dei ‘novellini’ dell’orto, lui è un esperto. “Martin ha già aiutato i ragazzi dello scorso quadrimestre, strappando le erbacce e ripetendo meccanicamente i gesti dei compagni durante la semina”, racconta Donatella. Tuttavia, la parte che il giovane ortolano preferisce è quella sulle piante aromatiche: “Ama sentire l’odore della salvia e del rosmarino. Può passare ore ad annusarli”, racconta l’educatrice.

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Il cartellino che indica l’orto 97

Orto 97, ancora. Le risate dei compagni  disturbano Martin che, si allontana dagli altri. Con Donatella, raggiunge l’estremità dell’orto dove a terra è poggiato un cartellino con il numero 97 e poco più in là c’è una pianta di rosmarino. Davanti a quell’arbusto, Martin sorride e ascolta l’unico rumore che non lo infastidisce: quello del rametto che si spezza tra le sue mani.

*I nomi presenti in questo reportage sono stati cambiati per tutelare la privacy dei ragazzi

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Poco conosciuta e spesso fraintesa: le difficoltà dell’ortoterapia scientifica in Italia


Nel nostro Paese le terapie alternative e di supporto alla medicina tradizionale sono viste con sospetto. E quando i medici consigliano ai pazienti attività “non ortodosse” in genere la prima risposta è: “Funzionerà?”. Gli scettici, in effetti, non hanno colpe: secondo Giulio Senes, agronomo e professore della facoltà di Agraria all’Università di Milano, per molti anni  l’ortoterapia o l’arteterapia sono state affrontate in maniera superficiale, “come se fossero attività ludiche, del tutto prive di ricadute rilevanti anche a livello scientifico”.

Forse è anche per questo che le associazioni che si occupano di ortoterapia in Italia sono davvero poche: la prima è la Ass.I.ort di Monza, seguita dalla Healing Garden Italia, nata lo scorso luglio e di cui fa parte il professore Senes. I progetti dei giardini della salute, invece, stanno scoprendo negli ultimi tempi un discreto successo: molti sono gli ospedali che si dotano di un’area verde attrezzata dove pazienti e familiari possono trascorrere del tempo o partecipare ad attività mirate al miglioramento dell’umore.

Uno standard per le sensazioni. Eppure nessuna di queste ha mai preso in considerazione l’idea di standardizzare le attività fatte: “Il vero problema è che se non cristallizziamo le pratiche non sapremo mai riprodurre gli effetti benefici ottenuti”, spiega Senes. La figura di cui si sente la mancanza, a detta del professore, è quella dell’horticultural terapist, ovvero uno specialista che si occupi della progettazione e realizzazione di laboratori di ortoterapia. Un ruolo impossibile da formare perché “non c’è un corso di laurea specifico”, commenta l’agronomo.

Senes, nei suoi laboratori di ortoterapia, ha deciso di ‘schedare’ le sensazioni dei partecipanti con degli indicatori precisi. Grazie anche all’aiuto dei suoi tesisti, il professore ha raccolto più di 400 parametri attraverso i quali può misurare scientificamente gli effetti benefici del laboratori di ortoterapia. Questi indicatori fanno parte delle schede di valutazione che, per ogni laboratorio, Senes somministra ai partecipanti.

Le schede possono essere di due tipi: il primo, quello a cura del professionista che si occupa delle attività, ha dei parametri più tecnici e scientifici. Il secondo, invece, è una sorta di questionario che chi partecipa ai progetti di ortoterapia deve compilare. “Domandiamo ai nostri utenti se sentono di aver tratto beneficio – spiega Senes –  e di raccontarci come si sono sentiti prima delle lezione e poi dopo”.

Per anni l’ortoterapia è stata trattata quasi come un gioco. “Io stessa non sapevo che cosa fosse – ammette Patrizia – mentre adesso sta diventando una moda”. Forse per spiegarne il successo, è utile riflettere sul bisogno e sull’abitudine di arrivare in fretta a un risultato, di tenere tutto sotto controllo. I tempi dell’orto, incontrollabili, costringono invece ad aspettare. Aspettare che un piccolo seme cresca senza la possibilità di fare nulla, di velocizzare il tempo, attraversando tutte le fasi necessarie perché diventi un frutto, senza fargli mai mancare le cure indispensabili. Lasciando che la natura faccia il proprio corso.

Questo servizio è un Progetto di fine corso per il biennio 2014-2016 dell'Istituto per la Formazione al giornalismo di Urbino (IFG), pubblicato il 18 marzo 2016.