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Le settembrate
Quel compagno dimenticato dal Partito
E’
il primo burattinaio comunista che non mangia i bambini. “Qualche
spettacolo, ma solo per necessità di pubblico –
confessa – l’ho fatto finire con Baciccia
che sventolava la bandiera del Pci”. Mario Magonio ha
partecipato a tutte le feste dell’Unità.
Ricorda i compagni di un tempo, il grande Gelasio Adamoli che
asciugava i piatti nel suo grembiulino bianco, mentre gli altoparlanti
diffondevano l’Internazionale e il canto delle mondine.
E a 94 anni suonati nonno Mario non si perde una sola settembrata.
Ci chiede di trascrivere le nostalgie di un vecchio volontario
perché la vista non lo aiuta più: “Non conoscevo
niente di politica prima della guerra. I preti mi avevano insegnato
un mestiere e amare il prossimo. Tornato dalla prigionia mi
sono sentito comunista, ma perché avevo conosciuto
il fascismo. Oggi sono iscritto alla sezione di Pontedecimo
in mezzo a tanti compagni che mi rispettano e mi vogliono bene,
mentre i dirigenti non sanno neanche chi sono”.
Il politichese l’ha imparato a cavallo tra la fabbrica
e la Cgil: “Un giorno si avvicinano tre
uomini con un registro e mi dicono: ricordati che ora fai parte
della cellula del reparto. Poi mi spiegano che la cellula del
reparto fa parte della cellula del cantiere, che fa parte della
cellula della commissione interna, che mi avrebbe dato la tessera
del partito”.
E’ così che Mario diventò comunista, tirato
per il collo. Ma tutti sapevano che andava in chiesa, che aveva
ricevuto un'educazione cristiana, nell’istituto degli
Artigianelli, sapevano dei suoi spettacoli coi preti. Così
la commissione interna dell’Ansaldo diede a questo beghin
de sacrestia, come lo chiamavano gli altri operai, il
compito di assistere gli orfani e le vedove di guerra.
“Gli serviva un democristiano per quell’incarico
e per puro caso hanno scelto me. Mi fecero diventare il rappresentante
della mozione Achille Grandi nel cantiere. Io che di
Sturzo e Achille Grandi non sapevo nulla”.
Mario
ha vissuto la contestazione operaia, le agitazioni
per il rinnovo del contratto di lavoro. La lotta di classe.
Come quella volta che portò a benedire in duomo una bandiera
della Cgil con la scritta “Corrente cristiano unitaria”.
Erano gli anni ’60. “Sembrava che dovessero toccare
il lenzuolo di un lebbroso – racconta – avevano
paura a tenerla in mano. Così ho preso un po’ d’acqua,
ce l’ho gettata sopra e ho detto: nel nome dei
lavoratori, io ti benedico”. Mario ha vissuto
i picchetti, gli scioperi, i cortei per le vie di Sestri Ponente,
le barricate in piazza De Ferrari. Si illudeva che i suoi appelli
fossero ascoltati dal prefetto o dal vescovo, che a quei tempi
era Siri. “Non si otteneva nulla al di là delle
solite promesse – dice – proprio come oggi. I sindacati
trovano sempre la maniera di convincere i lavoratori che la
sconfitta è stata invece una vittoria. E intanto per
avere il vitalizio da deportato in Germania ho dovuto aspettare
più di cinquant’anni”.