Siddhartha, quasi sette anni, capelli lunghi biondi e una piuma in testa come gli indiani d’America, sta sbucciando un gambo di lupinella. L’ha appena strappata dal terreno intorno a casa, dove cresce spontaneamente. “E’ buona e fa bene, per me è meglio di un dolce”. Poi la offre agli ospiti. “Volete la parte dura o quella tenera?” chiede. E’ il primo e unico figlio di Fabrizio Cardinali e con suo padre è il secondo membro fisso della Tribù delle noci sonanti.
Siddhartha è nato in casa, come si faceva 50 o 60 anni fa: al centro della stanza principale dove c’è la cucina, dove si mangia e si chiacchiera con gli amici. E come accadeva in passato, sua madre non ha fatto ecografie, Siddhartha non ha subito alcun vaccino, non ha mai portato il pannolino usa e getta e non è mai stato lasciato solo in una carrozzina. Durante i primi anni Fabrizio e la sua compagna Gessica usavano un telo con il quale, attraverso diversi metodi di fasciatura, tenevano il bambino sempre a contatto con il loro corpo durante tutte le attività quotidiane.
Ora Siddhartha è cresciuto. Conosce il nome di tutti i fiori e le piante del giardino, dell’orto e dei campi intorno a casa. Sa arrampicarsi sugli alberi a piedi nudi, tirare frecce di bambù con l’arco costruito dal papà e ha imparato a scrivere “Tribù delle noci sonanti”. Fabrizio e sua madre hanno deciso di educarlo in casa. L’istruzione parentale è una scelta – garantita dalla Costituzione e prevista nel decreto legge 297/94 – che possono fare tutti i genitori, presentando la richiesta ogni anno al dirigente scolastico della scuola del proprio territorio di residenza. Come garanzia della validità dell’educazione che riceve in famiglia, il bambino deve poi sostenere un esame di idoneità all’anno scolastico successivo.
Imparare in casa: che cos’è l’istruzione parentale – GUARDA L’INFOGRAFICA
“Da quando c’è Siddhartha – racconta Fabrizio durante una chiacchierata dopo cena, seduti sul tappeto – la mia vita è cambiata tantissimo. Se non ci fosse lui non credo che sarei così tranquillo, quando sono da solo. Mi mancherebbe un affetto”. “E’ vero, un bambino ha bisogno di attenzioni – continua – e la mia giornata è condizionata da lui. Ma questo mi va benissimo”. Siddhartha vive un mese con il padre, a Cupramontana, e un mese con la madre. Un paio di settimane fa voleva andare alle terme a fare il bagno nell’acqua calda: Fabrizio lo ha accontentato. Un escursione nel “mondo normale”? “Non credo – risponde Fabrizio – perchè quando affronto delle esperienze fuori casa con Siddhartha, cerco sempre di farlo a modo mio. Alle terme ci siamo andati in autostop e quando ci spostiamo porto sempre il mio cibo”. In Tribù, infatti, non sono ammessi cibi industriali: la merenda è una manciata di frutta essiccata, oppure una fetta di pane con il miele che proviene dalle api di casa.
“Nemmeno con la madre Siddhartha fa la vita di un bambino ‘normale’ – spiega Fabrizio – perché anche lei è attenta all’alimentazione e a uno stile di vita sostenibile. Però, a differenza di quando è con me, si sposta in camper, ha occasione di vedere la televisione e di stare con persone che hanno il cellulare”. Ma Siddhartha sa bene che le regole, con il papà, sono diverse. La maggior parte di quello che ha, sia i giochi che i vestiti, sono regali degli amici o oggetti scambiati da Fabrizio ai mercatini. I suoi desideri più urgenti sono scavare tane sotterranee, correre in bicicletta e avere delle nuove frecce di bambù da tirare con l’arco. “Una volta mi ha chiesto una scavatrice – racconta Fabrizio, divertito – ma non un giocattolo, voleva proprio una scavatrice vera”.
“Ho avuto tanti amori nella mia vita, persone, cose, ideali. Tutti sono tramontati, anche abbastanza rapidamente. Ma con Siddhartha ho veramente trovato l’amore della mia vita che, penso, mi accompagnerà ormai fino alla fine, donandomi così tanta gioia ma anche tanto dolore e difficoltà”. E’ la dedica che Fabrizio ha scritto per suo figlio nelle prime pagine della sua tesi per l’Ayco di Roma (Accademia yoga di consapevolezza) un anno fa. Si intitola “Crescere un figlio nella natura selvatica, alla luce dello yoga e del dhamma”.
Il dhamma è l’insieme degli insegnamenti lasciati dal Buddha ai suoi discepoli. Proprio dal buddhismo proviene il nome che Fabrizio ha voluto dare a suo figlio: Siddhartha Gautama è infatti uno dei tanti modi con cui viene chiamato l’asceta indiano, fondatore del buddhismo. Un nome che per Fabrizio era anche una promessa, o quasi un sogno. “E’ come se ci fossimo fatti un po’ l’illusione – spiega Fabrizio nella sua tesi – che con la nostra educazione, la nostra guida, avessimo potuto tenere Siddhartha, almeno in parte, al di fuori della sofferenza, dei capricci e della formazione di un carattere in qualche modo egoico (ndr egoistico). E l’avessimo potuto da subito avviare, accanto ad una vita normale di giochi, ad una vita di ricerca e pratica spirituale. Come un piccolo reincarnato. O un piccolo Buddha”.
Diana Orefice