“Una noce dentro un sacco poco rumore fa”. Ma tante noci insieme suonano. E’ da questo proverbio che nasce il nome della Tribù delle noci sonanti. Erano le parole che diceva sempre un’anziana contadina di Cupramontana. Fabrizio Cardinali ha dato questo nome al suo progetto, perché il sogno è che altre persone scelgano di condividere il suo stile di vita. “La gente ha sempre vissuto in gruppo o in tribù – spiega – ma al giorno d’oggi si fa la scelta contraria perché nella civiltà tecnologica si può vivere da soli, non manca niente. Ma prima nelle Marche, per esempio, c’era la famiglia allargata”.
Fabrizio aveva 22 anni quando ha deciso di cambiare vita per tornare all’essenzialità. A quel tempo, nel 1972, frequentava l’università di astronomia di Bologna e giocava a pallavolo in serie A. Dopo le vacanze natalizie non è più tornato a studiare e ha lasciato la casa dei genitori a Falconara Marittima, dove abitava con loro e un fratello più piccolo. Per qualche tempo ha dormito in un club culturale, poi ha deciso di partire in anticipo per il servizio militare. “Me lo sono voluto togliere subito, perché avevo la possibilità di entrare nel gruppo sportivo dei carabinieri”.
“La prima formazione – ricorda Fabrizio – è stata una cosa da matti”. Così ha lasciato presto i commilitoni per la squadra di pallavolo, che giocava nel campionato di serie B. “Io non mi impegnavo molto, ma loro si aspettavano da me chissà cosa. Quando la squadra è retrocessa se la sono presa con me, mi hanno mandato nel battaglione di Moncalieri”. Il ricordo di quei mesi è doloroso. “Tra le altre cose, ho partecipato alla repressione di un carcere in rivolta”. Dopo quella esperienza Fabrizio ha scritto una lettera-testimonianza che fu pubblicata da Stampa alternativa, ora una casa editrice. “E’ stato il mio ingresso privilegiato nel mondo dell’Alternativa. Una bella partenza”. Con loro collabora tutt’ora per stampare il Seminasogni, una rivista scritta e disegnata a mano da lui e alcuni amici.
Alcune pagine del Seminasogni dell’inverno ’13-’14
Tutti i soldi guadagnati con il servizio militare sono poi serviti a comprare una terra e una casa. Fabrizio aveva già chiaro qual’era il suo obiettivo: allontanarsi dalla società e ritornare al selvatico. “Sognavo una casa in una radura all’interno di un bosco. Per l’acqua, un pozzo o una sorgente. Ma non si può avere tutto”. Così nel 1986 ha scelto di abitare nelle campagne di Cupramontana. La sua casa non è all’interno di un bosco, ma per raggiungerla bisogna comunque abbandonare la macchina: si parcheggia di fianco alla statale, sotto una grande quercia a cui è appesa una bandiera della pace. Poi si scende a piedi per 500 metri, passando tra i campi e scavalcando la “piscina dei cinghiali” (una pozza di acqua e fango) finchè non si trova un acchiappasogni appeso ad un albero. Ad accogliere i visitatori, a pochi metri, ci sono Nadir o Farina, i due cani della Tribù.
Anche se a Cupramontana non ha trovato la sorgente, Fabrizio ha comunque voluto tenere il rubinetto dell’acqua fuori di casa, in giardino. “Il fatto che sia fuori permette un maggiore contatto con la natura. Se la bottiglia è vuota, devo uscire e oggi c’è la luna piena. Domani magari c’è la nebbia o piove”. Anche il gabinetto è fuori. E’ una semplice buca nel terreno e per pulirsi si usa l’acqua, senza dover sprecare carta igienica. Quando la prima latrina è piena si utilizza la seconda, così gli escrementi nell’altra diventano compost e possono essere utilizzati per concimare il terreno.
“Mi sembra che l’essere umano sia fatto per questo tipo di vita – afferma Fabrizio – anche se oggi la direzione della società va da tutt’altra parte. Ma fino a 50 o 60 anni fa la stragrande maggioranza della gente faceva parte del mondo contadino”.
La compagna di Fabrizio, Gessica, è arrivata nel 2005 e tre anni dopo è nato il piccolo Siddhartha. Da quando i genitori si sono separati, vive un mese con l’uno e un mese con l’altra. In questo periodo vive con la Tribù anche Leandro. “Una mano santa – afferma Fabrizio – perchè da solo non ce l’avrei mai fatta. Alla legna non ci penso più, la taglia sempre lui, macina il grano e ha anche piantato le fave e i piselli”. La presenza di qualche aiutante è essenziale per la vita della Tribù. Non solo perché ci sono tante attività da svolgere, ma anche per una questione sociale: “In città c’è sempre l’opportunità di incontrare persone e avere degli scambi. In campagna no, ma è utile averli. In questo Siddhartha è fondamentale per me: se non ci fosse lui mi mancherebbe un affetto”.
Eppure, che sia da solo o con altri, Fabrizio non rimpiange la città. Prima di tutto, per il senso di libertà. “Per esempio – spiega – tutti parlano di crisi, ma io non so nemmeno cosa significhi. Domani non vado a fare spesa e nemmeno dopodomani”. Il suo posto, ormai, è la campagna. “Questo per me è l’unico modo di vita possibile. Apro la porta e c’è l’erba, c’è l’albero. Sopporto le città solo perché mi capita di starci per brevi periodi. Già la stazione di Roma per me è un bombardamento: video da tutte le parti, schermi, pubblicità. La gente con le cose infilate nelle orecchie continuamente. Non ce n’è uno tranquillo”. Ma la vita selvatica non è solo frutto di benessere personale, per Fabrizio. Il suo obiettivo è essere d’esempio. “Il mio stile di vita è un modello di alternativa possibile. Non solo per le persone, ma per il mondo, per l’ambiente, per l’umanità e per il futuro”.
Diana Orefice