Tra spopolamento e resistenza: viaggio nei paesi lucani con meno di 1000 abitanti

di FEDERICA OLIVO
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Craco vecchia all'orizzonte in una mattina d'estate

In Basilicata il calo dei residenti è costante. Ogni anno quasi 3.000 persone in meno. Poche nascite e tanta emigrazione: questi due elementi caratterizzano una regione che, secondo l’ultimo rapporto Svimez, nel 2065 scenderà sotto la soglia dei 400.000, contro gli attuali 570.365.

Popolazione Basilicata
Infogram

In Lucania non ci sono città grandi. Se si escludono i due capoluoghi di provincia – Potenza e Matera che, secondo i dati Istat, hanno rispettivamente una popolazione di 67.168 e 60351 abitanti – tutti gli altri centri contano meno di 20.000 residenti.

In 27 dei 131 Comuni della regione gli abitanti sono meno di mille.  Alcuni di questi corrono il serio rischio di rimanere completamente disabitati nel giro di pochi decenni. In altri, invece, abitanti e istituzioni hanno reagito all’emorragia demografica proponendo un’offerta turistica e culturale che ha garantito la sopravvivenza dei borghi e, in alcuni casi, uno sviluppo quasi impensabile fino a pochi decenni fa. Un esempio virtuoso è quello di Castelmezzano (PZ), il comune delle Dolomiti lucane rinato grazie al turismo. Un altro caso positivo è quello di Guardia Perticara (PZ), un paese che prova a puntare sulla cultura per arginare lo spopolamento ma anche il rischio che i propri abitanti – quelli giovani soprattutto – si abbandonino all’apatia. C’è poi Craco (MT), il borgo abbandonato diventato set di numerosi film per la sua peculiarità. È l’esempio più tangibile di una grande contraddizione: il borgo antico, disabitato da decenni a causa di una frana, è meta di turisti e curiosi. La parte nuova, invece, è un luogo anonimo, triste, popolato da poche centinaia di persone che devono spostarsi nei centri limitrofi per usufruire dei servizi che nell’agglomerato di case dove si trovano a vivere non sono garantiti.

Ma se Craco è in bilico tra il turismo che cresce e i residenti che diminuiscono, ci sono comuni dove invece lo scenario sembra ancora più chiaro. Dove, cioè, lo spopolamento sembra ormai un fenomeno inarrestabile, al quale gli abitanti sembrano quasi essersi rassegnati. I paesi del Pollino sono tra questi.

A Carbone, ad esempio, o a San Paolo Albanese, la diminuzione degli abitanti, la scarsità di lavoro e la carenza di servizi per i cittadini sono più lampanti che in altri centri.


GUARDIA PERTICARA  CASTELMEZZANO – CRACO – CARBONE  SAN PAOLO ALBANESE
IL PARERE DEGLI ESPERTI

Cultura e petrolio: così Guardia Perticara non smette di sperare

Le case vuote si ripopolano grazie alla filiera del petrolio

Lo chiamano “Il paese delle case di pietra” per il materiale con cui sono stati costruiti gli edifici del suo centro storico. Negli anni scorsi la maggior parte dell case di Guardia Perticara – comune della Val d’Agri, che fa parte del circuito dei borghi più belli d’Italia – erano vuote.

Le case di Guardia Perticara

A risollevare le sorti demografiche del comune – che al 31 agosto 2017 contava 542 residenti – da qualche anno, però, è arrivato il petrolio. L’incremento dell’attività estrattiva nella zona, con tutte le polemiche e le contraddizioni che ha portato con sé, per gli abitanti di Guardia Perticara è stata un vantaggio, almeno in termini economici. I lavori di costruzione del nuovo Centro Oli della Total hanno portato nell’area centinaia di maestranze. Risiederanno nella zona fino a quando l’impianto non sarà attivo.

Angelo Mastronardi, sindaco di Guardia Perticara

“Da qualche anno a questa parte sul nostro comune gravitano molte più persone di prima – racconta il sindaco, Angelo Mastronardi – la popolazione effettiva è quasi raddoppiata e la maggior parte delle case, prima disabitate, sono affittate”. Una ricaduta positiva, secondo il primo cittadino, anche da un punto di vista lavorativo.

Se il petrolio non basta a risollevare un’area né a guardare al futuro con serenità

Questa specie di boom economico che vede protagonista il centro della Val d’Agri non è, però, destinato a durare in eterno: “Non si può negare che in questo momento nella filiera del petrolio il lavoro per i giovani ci sia – afferma Gianfranco Massaro, geometra comunale– quello che si sottovaluta è che questa occupazione è legata al presente. Quando la costruzione del centro sarà ultimata e l’impianto funzionerà ci sarà bisogno di un numero inferiore di lavoratori”. A quel punto, la disoccupazione potrebbe tornare ad essere un problema.

“Per chi è interessato a lavorare nella filiera del petrolio, al momento, ci sono molte possibilità – dice Lucia , una ragazza di Guardia Perticara che frequenta l’Istituto alberghiero a Potenza e d’estate lavora nell’unico bar della piazzetta del paese – ma chi vuole fare altro non ha molta scelta. Alle persone che vengono da fuori, Guardia piace perché ne apprezzano la tranquillità. Ma per chi vive qui è diverso: c’è un solo negozio di alimentari e non c’è modo di comprare vestiti”. Sulla possibilità di costruirsi un futuro nel suo paese dice: “Ancora non ho deciso cosa farò nella vita, ma non escludo che me ne andrò da qui”.

E ad andarsene, negli corso del tempo, sono stati in tanti, al punto che da due anni è stata chiusa la

Una strada del centro del paese

scuola secondaria di primo grado, perché gli alunni iscritti non bastavano a tenerla in piedi. “I ragazzi frequentano le scuole medie ad Armento o a Corleto Perticara, i paesi più vicini”, spiega il sindaco.

Da Guardia ci si deve spostare non solo per studio, ma anche per svago. Il cinema più vicino, ad esempio, è a Potenza: per vedere un film sul grande schermo bisogna percorrere 60 chilometri di curve, su una strada che d’inverno non è delle più agevoli. Per sopperire a questa mancanza, il sindaco ha pensato di mettere a disposizione un pulmino che porti gli abitanti fino al cinema potentino, ma l’idea non è stata particolarmente apprezzata dalla cittadinanza: “Siamo riusciti ad organizzarci solo per andare a vedere la proiezione di un film di Natale”, dice con rammarico Mastronardi.

La cultura per reagire ad apatia e spopolamento

Nonostante la scarsità di strutture, il Comune da anni si impegna per assicurare un’offerta culturale agli abitanti e ai turisti che arrivano a Guardia. In cantiere ci sono quattro esposizioni permanenti, che saranno realizzate in un palazzo storico del paese. In passato, invece, è stata garantita l’apertura della biblioteca comunale: “Poiché in paese non arrivano i giornali – racconta il sindaco – l’amministrazione precedente aveva pensato di tenere aperta la biblioteca del municipio e di fare arrivare lì giornali e riviste. La struttura era gestita dai giovani del paese, che si alternavano ogni due mesi”. Poi la graduatoria si è esaurita e, per il momento, la struttura è chiusa.

Strada che porta alla piazza

La biblioteca, però, non ha perso la sua importanza e ha ricevuto da poco un’importante donazione da parte di una persona molto legata al paese: “Mio padre era un uomo molto colto. Aveva una biblioteca di circa 2000 volumi che, dopo la sua morte, non avrei potuto conservare in casa. Ho deciso così di donarla a Guardia, il paese dove era nato e al quale era legatissimo, come invito alla lettura e alla riscoperta della cultura”. A raccontare com’è nata l’idea di donare i libri del padre alla biblioteca guardiese è Rosi Massari, avvocato milanese e figlia di Franco, medico e docente universitario originario del paese della Val d’Agri. “Mio padre aveva un grande amore per il suo paese natale – continua – e l’ha trasmesso anche a me. Nonostante sia nata e cresciuta a Milano, considero questo Guardia come uno scrigno di valori autentici, quasi un’isola felice. Per questa ragione, non vorrei vederla morire”.

 Rosi torna in paese ogni estate e organizza in paese eventi culturali; l’ultimo, “AvanGuardia”, è un festival dedicato all’arte in tutte le sue forme. “Perché la cultura – conclude – porta ad avere consapevolezza della bellezza che possiede la propria terra e a valorizzarla. È ciò che vorrei accadesse anche a Guardia”.

Il silenzio e la bellezza dei vicoli di uno dei “Borghi d’Italia”


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Castelmezzano, il paese dove “tutto è possibile”: aumentano i turisti ma diminuiscono i bambini

Da borgo di montagna poco conosciuto a destinazione turistica grazie al “Volo dell’Angelo”

Una veduta del paese

Ad agosto 2017 il sito del quotidiano inglese The Telegraph ha inserito Castelmezzano – paese che sorge ai piedi delle Dolomiti lucane, proprio al centro della regione – nella lista dei borghi italiani da visitare. Il Motivo? Per le sue bellezze naturalistiche e per il principale dei suoi attrattori: il Volo dell’Angelo. Si tratta di un cavo d’acciaio che permette a chiunque lo voglia di “volare” in totale sicurezza a circa mille metri d’altezza tra Castelmezzano e il paese di fronte, Pietrapertosa, e viceversa. “Siamo arrivati all’undicesima stagione e, nel corso del tempo, sono state sempre di più le persone che hanno voluto provare questa esperienza – spiega Rossana Tolla, operatore turistico del paese, che tranquillizza chi teme sia pericoloso lasciarsi scivolare su un cavo a quell’altitudine – il visitatore viene imbracato e agganciato adeguatamente al filo, non corre quindi nessun tipo di pericolo. Pensate che possono farlo anche i ragazzi di dodici anni, insieme ai genitori”. Durante la scorsa stagione al Volo dell’Angelo sono stati staccati 19079 biglietti.

In passato solo poche centinaia di turisti all’anno si avventuravano nelle strade della Basilicata interna per raggiungere il paesino, correndo anche il rischio di restare senza benzina. Come annuncia un cartello all’inizio del paese, a Castelmezzano, infatti, non ci sono distributori di carburante. Per far rifornimento bisogna raggiungere Potenza. Oggi, invece, i visitatori sono molte migliaia. L’aumento dei turisti ha portato all’incremento delle strutture ricettive e delle attività commerciali: “In paese ci sono circa 200 posti letto e una quarantina fra alberghi e bed and breakfast – afferma Rossana – in tutte le strutture lavorano persone della zona”.

Maudoro e Peperusko: due esempi di imprenditoria locale

Il proprietario di “Maudoro – Specialità lucane”

Tra chi ha scelto di aprire un’attività in paese c’è Domenico, il proprietario di “Maudoro, specialità lucane”, affittacamere e rivendita di prodotti tipici: “Abbiamo iniziato nel 2011 – racconta – all’inizio avevamo solo pochi posti letto. Poi ci siamo allargati e ora cerchiamo di consorziarci con gli altri albergatori. Con una quindicina di colleghi, abbiamo creato un gruppo WhatsApp: se riceviamo prenotazioni quando la nostra attività è piena, ci contattiamo per verificare la disponibilità delle altre strutture, così da indirizzare i viaggiatori”.

Daniele e Lucio, due dei tre proprietari di Peperusko

La fioritura del turismo a Castelmezzano è un’opportunità per i giovani: tre di loro, Daniele Salvia, Donato Coviello e Lucio Iosco pur avendo già un lavoro sicuro, hanno scelto di investire nel paese. È nato così Peperusko, un locale aperto tutta la giornata in cui si possono assaggiare prodotti tipici ed eventualmente comprarli: “L’idea di aprire questo esercizio è nata in una latteria di Matera – racconta Daniele, che fa il geometra a Potenza – abbiamo pensato che, anche in vista del 2019 (anno in cui Matera sarà capitale europea della cultura, ndr) sarebbe stato bello creare un brand nostro, con cui promuovere la lucanità nel mondo e far conoscere i nostri prodotti sia a chi viene da fuori che a chi è di qui e li ha dimenticati”.

D’estate Peperusko ha quattro dipendenti, tutti del posto. Tra loro c’è Aurora, che ha già la valigia in mano: “Ho fatto la maturità quest’anno – racconta – ed ora andrò via per studiare”. A Castelmezzano vorrebbe tornare solo per le vacanze: “Due o tre volte all’anno può bastare – scherza – Qui d’estate si sta bene, c’è tanta gente, ma d’inverno il paese si svuota”.

Leonardo in cima alla scalinata normanna, dove ogni estate accompagna i turisti

Non tutti, però, hanno la sua stessa idea. Leonardo ha 18 anni e frequenta il professionale a Potenza, d’estate accompagna i visitatori lungo la scalinata normanna, una struttura di 68 gradini scavati nella roccia per dominare con la vista la valle e proteggersi dalle invasioni: “Accompagnare i turisti mi piace – racconta – è un modo per incontrare nuove persone”. Un futuro a Castelmezzano non lo disdegnerebbe: “Ancora non so cosa vorrò fare nei prossimi anni – racconta – ma in questo paese si sta bene e potrei decidere di restare qui. L’importante è che ci sia lavoro”. I lunghi inverni di Castelmezzano non lo spaventano: “Fa freddo e non c’è nessuno, è vero, ma ne approfittiamo per stare a casa e studiare”.

Il calo demografico: l’altra faccia del paese

Se i turisti aumentano, però, a Castelmezzano diminuiscono i bambini: “Abbiamo una media di due nascite all’anno – racconta Rossana Tolla – e proprio perché ci sono pochi bambini, da quest’anno non ci sarà più la scuola secondaria di primo grado”. I giovani studenti devono quindi – a spese del Comune – anticipare di tre anni le trasferte quotidiane verso il capoluogo di regione, dove gli adolescenti di Castelmezzano, da sempre, si dirigono per fare le scuole superiori.

Un momento del Volo dell’Angelo

In 15 anni, secondo i dati Istat, i residenti di Castelmezzano sono diminuiti di 177 unità, passando da 969 a 790. Ma tra le strade piene di turisti – accolti con entusiasmo dagli anziani del paese che continuano a giocare a carte davanti ai bar, nonostante il via vai sempre più fitto di forestieri – il fenomeno dello spopolamento sembra solo un dettaglio, forse superabile se il turismo continuerà a portare lavoro. E i presupposti, al momento, sembrano esserci tutti.

In giro per le strade di Castelmezzano, tra anziani che giocano a carte e turisti che ammirano il paesaggio

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Craco: il paese abbandonato affascina i turisti, mentre gli abitanti vivono in un “posto senza storia”

La frana e l’abbandono forzato del “paese del grano”

Il borgo abbandonato di Craco

“Pane e lavoro”. In rosso sbiadito, la rivendicazione, scritta dai contadini prima della riforma agraria, si intravede sulla facciata di palazzo Grossi, dimora dei latifondisti del luogo. Craco, piccolo centro della provincia materana, fino agli anni 60, era il paese del grano. Se ne produceva talmente tanto che i 2000 abitanti non bastavano a coltivare le terre delle famiglie benestanti. La manovalanza arrivava anche dal Salento.

Quelle terre, redistribuite dopo la riforma, oggi non sono coltivate. L’Unione europea paga i proprietari perché le tengano a riposo. Quel paese, arroccato su un’altura e circondato dai calanchi – già terra di conquiste normanne e bizantine – non esiste più. La sua morte è cominciata

Quel che resta della scritta “pane e lavoro”, fatta dai contadini in rivolta sulla facciata di Palazzo Grossi

nel 1963, quando una frana ha iniziato a mettere in pericolo le case e le persone che ci vivevano. Fu un cedimento lento che poteva essere fermato. A incrementarne la potenza distruttiva è stata anche la cecità dell’uomo. “Un ingegnere americano, nel 1967, quando la frana era profonda 20 metri, aveva suggerito di creare dei terrazzamenti alberati. I tecnici del posto, però, preferirono costruire due grossi muri di contenimento che iniziarono dare i primi segni di cedimento cinque giorni dopo la costruzione. A partire dal 1974 gli abitanti furono costretti a lasciare le loro case”. A raccontare questa storia ai visitatori è Vincenzo Montemurro che lavora come guida tra i ruderi di Craco vecchia. Suo nonno era netturbino e conosceva ogni singola pietra del paese. Dalla passione con la quale accompagna i visitatori tra i vicoli di Craco, si direbbe che quella conoscenza l’ha ereditata e che ora prova a diffonderla. “Dovevate venire a vederlo quando era vivo il paese, non ora che è morto”, scherza Vincenzo. Poi inizia a raccontare: “Prima della frana Craco aveva un cinema, un ospedale e una piccola stazione. Erano stati in costruiti l’acquedotto e le reti idriche e fognarie”. Non un agglomerato di case senza storia insomma: era un paese vero e proprio e poteva sperare in un futuro di benessere.

Da borgo fantasma a meta turistica e set cinematografico

Quello rimane oggi è uno scenario di bellezza antica, da decenni scelto per girare film e cortometraggi. In tanti, da Francesco Rosi a Mel Gibson, l’hanno selezionata per realizzare scene dei loro film. Per il Comune, che dal 2009 ha iniziato un’opera di valorizzazione del centro storico, le riprese sono fonte di introito.

Sempre più turisti rimangono colpiti dall’affascinante desolazione che si respira tra i vicoli di Craco: “Nel 2010 hanno visitato il sito 1.500 persone. Nel 2016 erano 15.000 – spiega Vincenzo – con questa operazione il luogo è stato salvato dall’azione dei vandali, del tempo e delle capre che, indisturbate si aggiravano tra le stradine del paese”.

Dopo anni di oblio, insomma, l’amministrazione, insieme a una cooperativa composta da una quindicina di persone, sta facendo rifiorire questo luogo. Un luogo che, contrariamente a quanto sostenuto da Rocco Papaleo nel suo “Basilicata coast to coast”, non ha “rifiutato la modernità” ma è stato distrutto in parte dalla natura, in parte dall’incuria.

I vicoli di Craco non potranno essere più popolati da chi tra quelle pietre era nato e cresciuto, né dai suoi figli, ma quelle case restano lì, in bilico e, nonostante le crepe, resistono al tempo, per ricordare quanto male possano fare la superficialità degli esseri umani.

Il trasferimento degli abitanti in un “luogo senza storia”

Vincenzo Montemurro (a sinistra) mentre spiega ai turisti la storia di Craco

Tra i visitatori che Vincenzo accompagna nel centro storico di Craco qualcuno chiede: “Ma chi ha pagato una frana che poteva essere arginata e invece non lo è stata?”. La risposta è chiara, senza mezzi termini: “Hanno pagato i cittadini”. Agli abitanti di Craco furono assegnati degli alloggi popolari a Peschiera, una località a valle, molto vicina a Pisticci, il centro più grande della zona. “I crachesi Peschiera non la nominavano neanche – spiega Vincenzo – non è mai stata considerata territorio di Craco e gli abitanti non sono stati contenti di essere trasferiti lì”. Unica concessione: l’esenzione dal reddito delle case che possedevano in paese e dove non sarebbero mai più potuti tornare.

Oggi la nuova Craco è un agglomerato anonimo di case popolari, un posto senza nessuna peculiarità e, come dice Vincenzo, “senza storia”. Secondo i dati Istat gli abitanti sono 730.

Il fascino del passato e l’amarezza del presente: Craco Vecchia e Peschiera a confronto

Passeggiando tra le strade tutte uguali di Peschiera, soprattutto dopo aver percorso i vicoli di Craco Vecchia, si ha la percezione di trovarsi in un luogo simile a un dormitorio. “Per capire come sia un paese vero – racconta Vincenzo – devo andare dove è nata mia madre (Senise, in provincia di Potenza, ndr). Lì si può ascoltare il suono delle campane e, quando si corre nei vicoli, sentire il rumore delle scarpe che battono sulle pietre. Tutto questo a Peschiera non c’è”.

Forse il nuovo parroco, da poco nominato, cambierà le cose, ma negli ultimi anni le campane non suonavano perché la messa era celebrata una sola volta alla settimana. L’ultimo prete non viveva insieme agli abitanti del paese, che sono sempre meno. “In tanti se ne vanno perché non c’è lavoro” – spiega Anna Colangelo, che da sei anni insegna alla scuola primaria di Craco – “Quando sono arrivata, le classi erano cinque subito dopo sono state introdotte le pluriclassi, perché gli alunni sono diminuiti”. Oggi gli allievi della scuola primaria sono 31 e la sopravvivenza dell’istituto nei prossimi anni è in forse.

Insieme agli abitanti, diminuiscono anche gli esercizi commerciali. Mancano la macelleria e i negozi di abbigliamento, ma da qualche anno non c’è più neanche il forno per il pane. I giornali non arrivano da una decina d’anni e di palestre o luoghi di svago, neanche l’ombra. “Per fortuna ci sono un paio di negozi di alimentari e la farmacia – dice Vincenzo – per il resto, andiamo a Pisticci”.

Le case popolari di Peschiera

“Chi abita a Craco Peschiera deve percorrere 20 chilometri, tra andata e ritorno, anche solo per comprare una fetta di carne. Ma, del resto, chi potrebbe assumersi il rischio di aprire una macelleria in un posto con così pochi abitanti?”. A fare questa osservazione è Giuseppe Modena, un ragazzo di origini crachesi, che 6 anni fa ha lasciato il suo paese per andare a studiare fuori: “Anche prima di andare all’università ero costretto a spostarmi per studiare. Ho fatto le scuole superiori a Matera e, ogni giorno, rientravo a casa alle 16”. Giuseppe oggi vive a Roma e lavora per una webtv. Conserva un solido legame con il suo paese, ma non tornerebbe a vivere lì. E sul futuro del luogo dice: “Sono sicuro che il sito di Craco Vecchia accoglierà sempre più visitatori. Credo invece che, purtroppo, Peschiera sia destinata a morire in pochi decenni. Non ci sono elementi che mi fanno pensare ad una sua crescita”.

“Pane e lavoro”. I contadini di Craco vecchia li chiedevano a gran voce ai potenti del paese. Gli abitanti di Craco nuova li cercano altrove, consapevoli saranno sempre di meno quelli che riusciranno a trovarli tra le anonime costruzioni di Peschiera.

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A Carbone, nel cuore del Pollino, in tanti se ne vanno ma c’è chi sceglie di tornare. Con un’idea in testa e lo sguardo al futuro

Catia e Giuseppe: “Siamo tornati nel nostro paese con un progetto imprenditoriale”

“Ci siamo trasferiti a Carbone da sette anni. All’inizio, soprattutto per me, è stata dura. Ero abituata a vivere a Milano e non mi piaceva stare in paese. Poi, col tempo, i miei due figli hanno iniziato a trovarsi bene e anch’io mi sono convinta a restare qui”. A raccontare la storia della sua famiglia è Catia Iorio, vicesindaco di Carbone, un paese di 610 abitanti al centro del Parco nazionale del Pollino.

Catia Iorio, vicesindaco di Carbone

Nata nel capoluogo lombardo da genitori carbonesi, è tornata in paese perché il marito, Giuseppe Chiorazzo, ha deciso di aprire un’attività: “Ho comprato un terreno e degli animali. Voglio creare un allevamento di capre e produrre il formaggio per esportarlo. Ho fatto da poco un corso di formazione e a breve la nostra azienda partirà”, racconta.

Per una famiglia che ha scelto di tornare, decine invece hanno lasciato il loro paese per sempre. “All’inizio degli anni ’90 eravamo circa 1500. Oggi siamo quasi mille in meno. Mi piacerebbe pensare che le cose cambieranno in futuro ma credo che, a meno che le persone non inizino in massa ad abbandonare le città, questo paese è destinato a morire”, dice amaramente Giuseppe.
“D’estate si sta bene, perché tornano le persone che vivono fuori, ma d’inverno siamo pochissimi – afferma sua moglie – perché non sono solo i giovani a partire. Spesso anche gli anziani raggiungono i figli nelle città dove vivono”. Così, nei mesi invernali nel borgo restano poche centinaia di persone, costrette a raggiungere i centri più grandi – Chiaromonte e Senise in particolare – per usufruire dei servizi che in paese mancano.

Una veduta del paese

“A Carbone ci sono quattro generi alimentari e una farmacia – racconta Iorio – sono inesistenti, però, gli altri servizi. È impossibile comprare ago e filo, ad esempio”. Ma nel paese non mancano solo ferramenta e mercerie: la scuola primaria resiste ancora, anche se ci sono meno di dieci bambini, ma per proseguire le scuole bisogna spostarsi nei centri più grandi. “Per gli studenti ci sono collegamenti diretti solo per Senise – spiega – se qualcuno volesse quindi fare una scuola che in quel centro non c’è, è costretto a rinunciare alle sue aspirazioni”. Quello degli spostamenti è un problema anche per i meno giovani: “La mattina ci sono alcuni autobus – prosegue – il pomeriggio, però, è impossibile muoversi”.

Emilio Chiorazzo, giornalista de Il Tirreno: “Via da Carbone a 12 anni, ma non ho mai dimenticato le mie origini”

Così come accade negli altri piccoli centri della zona, neanche a Carbone arrivano i giornali: “Ma a noi non servono! Sappiamo i fatti del passato, quelli del presente non ci interessano!”, scherza un residente. In realtà, sono decenni che la carta stampata non arriva in paese. Emilio Chiorazzo, giornalista di origini carbonesi, fino all’anno scorso caporedattore del il Tirreno, racconta quanto fosse difficile reperire i giornali già alla fine degli anni ’70: “Sono andato via da Carbone a 12 anni ma, fino ai 30, tornavo ogni estate. Per riuscire a leggere i giornali dovevo chiedere al barbiere – che era anche edicolante – di procurarmene una copia. Spesso però, quella che mi serviva arrivava il giorno dopo!”.

Emilio non torna nel suo paese natale da molti anni: “Mi spaventa l’idea di non riconoscere più le persone che ci vivono, di non associare più i volti ai membri famiglie che abitavano a Carbone quando c’ero anch’io”, spiega. Il suo legame con la Lucania, però, è rimasto forte, al punto che ha deciso di raccontare la sua terra in un blog: “Da quando sono in pensione ho dato vita al sito storieoggi.it – racconta – in cui do spazio alle storie di lucani che hanno avuto successo altrove o che si occupano di promuovere la regione nel resto del mondo”. Un modo per restare ancorato alle proprie radici, pur senza rimettere piede a Carbone: “Credo che le mie origini abbiano inciso anche sulle mie scelte lavorative – conclude – il desiderio di diventare giornalista, del resto, è nato in me quando vivevo in paese”.

Il grano carosella, l’oro di Carbone minacciato dai cinghiali

Il grano carosella

Trovare lavoro in paese è difficile: “Molti uomini lavorano nell’agricoltura e nell’edilizia, anche in paesi vicini. Le donne invece, se si escludono i lavori domestici, quasi mai hanno un’occupazione”, spiega Catia Iorio. Una fonte di ricchezza, potrebbero però essere i prodotti tipici della gastronomia carbonese. Oltre ai pregiati tartufi che nascono nella zona e che vengono commercializzati in autunno, nelle campagne si coltiva il grano Carosella, un prodotto che cresce solo ad altitudini molto elevate: “La mia attività si trova ad un’altezza di 1150 metri – racconta Gaetano Castronuovo, titolare di una delle aziende che producono questo tipo di grano – insieme agli altri produttori puntiamo ad ottenere la denominazione di origine protetta, perché il nostro è un prodotto d’eccellenza”.

C’è un’insidia naturale, però, che sta mettendo in pericolo la produzione: “I cinghiali sono ghiotti del grano e distruggono le piantagioni – spiega, preoccupato, Castronuovo – riescono a scavalcare le recinzioni e noi non riusciamo ad arginare il problema. Io prima coltivavo 80 ettari di terreno, ora invece mi limito a 20, perché so che gli animali lo distruggerebbero. Altri agricoltori, per lo stesso motivo, hanno smesso di coltivare”. Rimedi contro questo problema, sembra non ce ne siano: “Nessuno può fare niente, i cinghiali danno fastidio in tutta la regione”, spiega Castronuovo. Il suo timore è che l’invasione di questi animali metta a repentaglio per sempre la produzione del grano carosella, così da rendere vani tutti gli sforzi fatti per cercare di ottenere la Denominazione di Origine protetta. Un rischio, questo, che potrebbe mandare in fumo l’ultima carta che Carbone può giocarsi per arginare lo spopolamento: quella di tornare a valorizzare i prodotti della terra e farli diventare fonte di lavoro e di ricchezza.

Il “mondo immobile” di Carbone

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San Paolo Albanese: il paese più piccolo della Basilicata. Uno scrigno di cultura e tradizioni che rischia di scomparire

In 10 anni 100 abitanti in meno: il borgo fondato dagli albanesi che scappavano dai turchi rischia di sparire in pochi anni

Il signor Giuseppe mentre riveste un vassoio

Seduto davanti alla porta della sua casa, il signor Giuseppe, con calma e dedizione, ricopre con la paglia un vassoio. Se gli si chiede quanto ci vorrà ancora prima che il lavoro sia finito, risponde che ci vuole tempo e pazienza. Fatica a parlare l’italiano, un po’ per timidezza, un po’ perché l’italiano non è la sua lingua natia. Giuseppe è uno dei 263 abitanti di San Paolo Albanese, il comune più piccolo della Basilicata e uno dei cinque paesi lucani di origini arbëreshë. Fu fondato nel XVI secolo da una comunità di profughi albanesi che scappavano dall’invasione dei turchi ottomani.

Delle loro origini, gli abitanti di San Paolo albanese – la maggior parte anziani, basti pensare che l’età media del paese è 54,2 anni, contro i 45,7 della regione – conservano la lingua e le tradizioni religiose. Se li si incontra tra le strade semideserte del paesino, è facile sentirli parlare tra di loro in albanese antico, una lingua che custodiscono gelosamente, anche se a conoscerla bene sono sempre di meno.

Paolo Aringoli davanti al municipio del paese

“Il nostro paese ha subito un forte spopolamento. Nell’ultimo decennio abbiamo perso 100 abitanti. Una media di 10 persone in meno all’anno”, spiega Paolo Aringoli, l’unico vigile urbano del paese. Da poco più di un anno anche lui ha lasciato, con la famiglia, il borgo per andare a vivere a Senise, il centro più grande dell’area. “San Paolo è un paese molto bello, ma la vita quotidiana qui è difficile”, dice sua moglie Maria.

Se si vive in un posto così piccolo è necessario spostarsi per qualsiasi tipo di esigenza. A volte, anche per comprare il pane. Ad eccezione di un emporio che vende un po’ di tutto, infatti, in paese non c’è altro. Non una macelleria, non un negozio di abbigliamento, non un ufficio postale. Il medico di guardia di notte è non è presente e dal 2011 è stata chiusa anche la scuola primaria. L’assenza di scuole in paese comporta il rischio che i bambini che non parlano l’arbëreshë in famiglia non abbiano modo di imparare la lingua della loro comunità.

Insegnare l’arbëreshë a scuola, l’esempio di San Costantino albanese

Poco distante da San Paolo c’è un altro paese arbëreshë, San Costantino albanese, dove invece le scuole resistono ancora e le maestre preparano per i loro allievi attività per approfondire la loro lingua d’origine. “In famiglia si parla sempre meno  – afferma Lina La Rocca, insegnante del paese – la scuola prova quindi a sopperire a questa mancanza, aderendo alle iniziative dell’amministrazione volte a promuovere le tradizioni della nostra comunità e dedicando una, seppur piccola, parte dell’attività didattica all’insegnamento dell’albanese”. Hanno presentato un progetto per introdurre nell’attività curriculare un’ora di albanese a settimana: “Vorremmo usufruire della legge sulle minoranze linguistiche – prosegue La Rocca – per introdurre stabilmente l’insegnamento della nostra lingua tra le attività didattiche”.

Ma i pochi bambini di San Paolo Albanese non vanno a scuola a San Costantino. La maggior parte di loro va a Cersosimo, il paese più vicino. Possono frequentare lì solo la scuola dell’infanzia e la primaria, perché la secondaria di primo grado è stata chiusa l’anno scorso anche in quel paese. Per proseguire gli studi, bisogna allontanarsi ancora.

“Tra i più giovani sono in pochi a parlare l’albanese. Noto, però, che durante l’adolescenza i ragazzi riscoprono la loro lingua – racconta Paolo Aringoli – qualche anno fa abbiamo organizzato dei corsi e la partecipazione è stata molto alta: siamo arrivati ad un massimo di 40 persone. Poi, però, i fondi sono finiti”.

Le strade del silenzio: istantanee da un borgo che non vuole morire

Un luogo per “custodire” la storia del paese: il Museo della cultura arbëreshë

I vestiti tradizionali conservati nel Museo della cultura arbëreshë

Nel centro del paese, c’è uno scrigno che conserva gli usi e i costumi di San Paolo: si tratta del Museo della cultura arbëreshë, dove in poche stanze si può ripercorrere la filiera della lavorazione della ginestra – dalla quale si ricavava il filo per i tessuti – ed osservare gli abiti tradizionali del paese.

C’è un modo, però, per toccare con mano la tradizione, ed è a pochi passi dal museo, nella chiesa del paese. Lì viene celebrata la messa con il rito greco bizantino, tipico delle popolazioni arbereshe. Ogni domenica le campane suonano e, uno dopo l’altro – senza particolare attenzione all’orario prestabilito – i fedeli arrivano. Quando la chiesa è piena, il parroco inizia la celebrazione.

Tra quelle panche, piene di persone con i capelli bianchi che cantano inni in arbëreshë, il paese che sta morendo sembra vivo e lo spopolamento uno sparuto miraggio, un’invenzione di sociologi venuti da lontano. Basta, però, allontanarsi dal sagrato della chiesa e percorrere i vicoli di San Paolo per tornare alla realtà. Una realtà che, dati alla mano, racconta di un borgo che rischia, nel giro di pochi decenni, di scomparire.

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Spopolamento: fenomeno inarrestabile o fase superabile? Il parere degli esperti

Ma come si potrebbe fare per fermare l’abbandono dei piccoli centri lucani? Gli esperti hanno opinioni confliggenti a riguardo. Giuseppe Las Casas è docente di tecnica e pianificazione urbanistica all’Università della Basilicata, ha dedicato una buona parte dei suoi studi ai centri con pochi abitanti e sembra avere le idee molto chiare. “Se estendiamo il concetto di disastro alla componente sociale, allora possiamo dire che l’abbandono dei territori è un vero e proprio disastro – spiega – I piccoli comuni dovrebbero essere il presidio del territorio. In passato lo sono stati, ma ora non lo sono più. E se non c’è un presidio, c’è precarietà. Una delle tante conseguenze della poca attenzione nei confronti di un luogo – e, quindi, del suo abbandono – sono le frane. Si pensi, ad esempio, a quella che ci fu a Sarno nel 1998”.

L’unico metodo per arginare lo spopolamento dei comuni lucani, sostiene Las Casas, è ripensare il modo in cui si erogano i servizi agli abitanti: “Una possibile soluzione potrebbe essere la gestione condivisa e, quindi, unitaria, dei servizi. È un’idea di cui si parla ma che non trova applicazioni concrete. Un tema importante, a questo proposito, è quello dell’isolamento. In molti pensano di risolverlo facendo le strade. Ma le vie, poi, devono essere percorse. Se io faccio strade che collegano posti in cui l’età media degli abitanti è molto alta, come potranno usufruirne se non garantisco loro anche il trasporto pubblico?”.

Per il professore sarebbe poi importante guardare al futuro: “Dovremmo iniziare a preoccuparci di cosa succederà tra 10 anni – spiega – I calcoli sono stati fatti, ma non è seguita la dovuta presa di coscienza. Il problema non è solo l’abbandono dei piccoli centri, ma il non porvi rimedio, il fatto che le istituzioni non affrontino la questione”.

C’è, però, anche chi vede in questo scenario spiragli di luce: è Ettore Bove, docente di Economia e Politica agroalimentare all’Università della Basilicata. Con i suoi studenti lavora per riscoprire le tradizioni gastronomiche della regione e capire come queste possano diventare un punto di forza per il suo futuro. Non nega che quella demografica sia una vera e propria emergenza ma è convinto che creando una rete turistica adeguata questo problema si possa arginare: “La Basilicata è divisa in due parti: da un lato abbiamo la polpa che corrisponde alle zone più sviluppate, come Matera e le fasce costiere. Dall’altro, invece, c’è l’osso, ovvero le aree depresse. Questa sorta di dualismo è destinata ad assumere proporzioni maggiori, a meno che non si intervenga – spiega indicando il turismo come possibile mezzo di contrasto dell’abbandono dei territori – Bisogna individuare e valorizzare le risorse locali, così da creare un’offerta turistica che indirizzata verso la cultura, l’ecologia, la scienza. La vera sfida è destagionalizzare la presenza turistica”.

                                                           
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Questo servizio è un Progetto di fine corso per il biennio 2016-2018 dell'Istituto per la Formazione al giornalismo di Urbino (IFG), pubblicato il 28 marzo 2018.