Controesodo migranti: 200.000 ogni anno abbandonano l’Italia

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Adrian Paci - The walk, 2011
Courtesy the artist and kaufmann repetto, Milan/New York.
di RITA RAPISARDI

Arrivano e poi se ne vanno. Vivono in Italia per qualche mese, alcuni per anni, ma fanno la valigia. Sono i 200.000 migranti regolarmente iscritti all’anagrafe italiana che ogni anno cancellano il proprio nome. Perdita del lavoro, difficoltà nel rinnovare il permesso di soggiorno e mancanza di opportunità, costringono migliaia di stranieri ad abbandonare la penisola: un paese che non attrae e che risulta tra gli ultimi scelti dai migranti come destinazione finale. È un controesodo silenzioso registrato soltanto dagli uffici dei comuni.


RIENTRARE CON UN PROGRAMMA: IL RITORNO VOLONTARIO ASSISTITO
NIENTE LAVORO, NIENTE DOCUMENTI
CRISI ITALIANA, CRISI STRANIERA
DA ITALIANO POSSO ANDARE VIA

L’Europa negli ultimi anni si è limitata a blindare le frontiere – lasciando fuori i cosiddetti “migranti economici” – l’Unione Europea ha provato ad arginare i profughi offrendo tre miliardi di euro alla Turchia e a Bruxelles si è litigato sulle quote migranti: non fanno rumore le migliaia di persone che in Italia non vedono futuro. Chi se ne va spesso ha investito anni di vita e portafoglio: aperto attività commerciali, ottenuto mutui bancari, pagato affitti e tasse.

Per due immigrati che entrano uno se ne va. L’Italia perde progressivamente il suo appeal: anche se continua a mantenere un saldo positivo con l’estero, + 141.000 ingressi nel 2014, questo è il valore più basso dal 2006. Negli ultimi cinque anni i nuovi iscritti all’anagrafe si sono ridotti del 38%, passando da 448.000 del 2010 a 278.000 nel 2014. Le emigrazioni invece sono più che raddoppiate.

I primi a fare le valige sono stati i sud americani: ecuadoriani, brasiliani, peruviani. In America latina qualcosa si smuove e le opportunità non mancano. In Europa – contando solo gli extracomunitari – moldavi e albanesi. Tra gli africani rientrano marocchini, tunisini, ghanesi. Anche se il fenomeno non sembra escludere nessuno.

Come Jamila, ecuadoriana arrivata in Italia a nove anni. Dopo averne passati 13 qui la crisi nel mantenere un lavoro stabile non le ha permesso di crescere i suoi tre figli nati in Emilia Romagna. Ora vivono tutti e quattro con il padre nel paese d’origine della donna. Lei è una di quelle tornate a casa con il Ritorno Volontario Assistito (Rva), un programma europeo per tutti gli immigrati che, non riuscendo più a rimanere in Italia, tentano una seconda volta nel paese di nascita.

Perché si va via

Difficoltà d’integrazione o economiche, problemi con la documentazione, come il venir meno di status legale, ma anche nostalgia, per il proprio paese o famiglia, problemi di salute o lutti. Sono alcuni dei motivi che spingono gli stranieri a riattraversare la frontiera.

Spesso la scelta del rimpatrio, che riguarda i migranti che tornano a casa, arriva da un gioco fra due parti. Una bilancia dove un piatto è occupato dal deteriorasi della condizione attuale, e l’altro da nuove prospettive economiche nel paese d’origine. Ultimi, ma solo per una ragione numerica, coloro che sono stati spinti alla fuga da conflitti o persecuzioni e che dopo anni riescono a tornare.

Chi lontano da casa ha raggiunto traguardi importanti, conquistandosi una nuova vita, è il primo a mettere in discussione tutto. Paradossalmente è più facile rimanere in Italia in una condizione di illegalità. A differenza di quello che accade in altri paesi, dove le normative, rendono impossibile restare in uno Stato senza un riconoscimento ufficiale.

Gli stranieri in Italia Create your own infographics
Fonti infografica: Istat, Ritorno Volontario Assistito

Per i migranti fare un passo indietro è un fallimento e sono restii a raccontare le proprie vite, anche per questo motivo saranno usati nomi di fantasia. La reticenza nel trattare di certi argomenti deriva dallo smarrimento provato, ripercorrere la propria storia è come riviverlo una seconda volta.

Pizza e lasagne migrano in Ecuador

Tredici anni in Italia non sono bastati per impedire che Jamila lasciasse il paese insieme ai suoi tre figli nati e cresciuti qui. Jamila è ecuadoriana, arrivata in Italia per la prima volta nel 1998, a nove anni, insieme ai genitori. La sua storia è stata raccolta da Oxfam Italia nell’ambito del progetto “Integrazione di ritorno”. Poco dopo l’arrivo in Italia l’instabilità economica spinge la famiglia a rispedire Jamila in Ecuador, dove rimane in casa della nonna fino al 2001 quando, contro la sua volontà, torna in Emilia Romagna. A quel punto i genitori hanno un lavoro stabile. Jamila ha 12 anni inizia a frequentare la terza media, poi le superiori indirizzo economia aziendale e turistica. Nel tempo libero si dedica a un corso di cucina. Conosce un ragazzo, rimane incinta a poco più di 17 anni, si sposa, lascia la scuola e cerca lavoro. E qui inizia un percorso a ostacoli: Jamila non va oltre qualche impiego precario, spesso stagionale, rimbalza da un lavoretto all’altro. Finché nel 2009 arrivano due gemelli e la situazione si fa più dura. Nel 2012 poi il marito è sottoposto a rimpatrio forzato. Jamila rimane in Italia, fatica a pagare i 500 euro di affitto, si fa aiutare dalla madre che va a vivere con i nipoti, ma poi anche lei perde il lavoro. La crisi è forte, non ci sono soluzioni, Jamila soffre: non vuole pesare sulla madre e non vuole vedere i suoi figli crescere senza un padre. Decide di tornare in Ecuador e ricongiungere la famiglia, vivere in Italia vuol dire dare ai figli uno stile di vita che non può permettersi, anche le spese scolastiche sono insostenibili. A settembre 2013 entra nel programma di “Integrazione di Ritorno” per 80 cittadini provenienti da Ghana, Algeria, Perù, Ecuador e Colombia. A dicembre di quello stesso anno Jamila prende l’aereo per casa. Qualche mese dopo, quando gli operatori Oxfam le fanno visita in Ecuador, li accoglie fuori dall’officina dello zio dove si riparano biciclette. Con i soldi del programma ha messo in piedi una società per la vendita di pezzi di ricambio. L’officina ha sede nella casa della nonna, quella stessa casa che anni prima era stata costretta ad abbandonare per tornare in Italia. Anche i figli iniziano da zero: le gemelle in prima elementare e il maggiore in terza, si adattano alla nuova lingua, lo spagnolo. Ora Jamila dice di stare meglio, ha tempo per i suoi figli e per la sua nuova attività. Ha infatti lasciato allo zio la vendita dei pezzi di ricambio, per aprire, forse come ha sempre voluto, un piccolo ristorante: pizza e lasagne non mancano nel menù.

Rientrare con un programma: il Ritorno Volontario Assistito

Nato per gli irregolari, ma poi diventato un mezzo anche per chi non lo era per andare via dall’Italia. E’ il Ritorno Volontario Assistito rivolto agli stranieri che non vogliono o possono più rimanere, proprio come Jamila. La destinazione è casa, il proprio paese d’origine. Nessun piano di redistribuzione o espulsione: dietro il Rva c’è la scelta di tutti quei migranti che in modo volontario decidono di non restare nel paese europeo che li ha ospitati. Il programma è infatti indirizzato ai cittadini extracomunitari, finanziato dalla Commissione dell’Unione Europea, il Ministero dell’Interno italiano e attuato attraverso l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim). “Si è deciso di usare il termine ritorno e non rimpatrio per sottolineare la consapevolezza del migrante, nessuno vuole ‘far tornare’ in patria queste persone” spiega Simona Sordo, responsabile nazionale del programma. La parola rimpatrio infatti rievoca quello forzato, che avviene dopo un periodo all’interno di un centro di identificazione ed espulsione (Cie). Dal 1991, anno quando la rete italiana Rva è nata, e il 2015 di cose ne sono cambiate. La svolta è stata nel 2009 con la creazione del Fondo Europeo Rimpatri e i finanziamenti dell’Unione Europea che dal 2008 al 2013 hanno raggiunto 43.726.870 milioni di euro.


Il documentario “Aller et retour”. Storie di ritorni in Marocco, per la regia di Renato Giugliano racconta alcune storie di migranti rientrati in Marocco con il Rva. Prodotto nel 2013 da CEFA Onlus, con il patrocinio della Regione Emilia Romagna, il corto si basa sul progetto Remida II che ha seguito 210 percorsi, individuali o familiari, di rimpatrio volontario assistito per altrettanti cittadini stranieri provenienti da Marocco, Tunisia, Sri Lanka e Senegal.

Sono passati sei anni e il Rva ha permesso a quasi 4.000 stranieri di far ritorno in patria. “Il successo registrato nell’ultimo periodo è dovuto all’abbattimento di alcuni pregiudizi che vedevano nel programma una sorta di ‘rimpatrio soft’, ma anche soprattutto la costruzione di una ‘cultura del ritorno’: frutto di una scelta maturata in tempi lunghi e che porta il migrante, che ha fortemente investito in Italia, a chiudere un ciclo della sua vita” aggiunge Sordo. Non tutto però è andato come previsto. Il progetto creato per gli immigrati irregolari, “soggetti vulnerabili” come disabili, donne con bambini, anziani con problemi di salute, persone con gravi malattie o senza fissa dimora e vittime della tratta, ha poi dovuto affrontare le richieste di chi in Italia viveva da anni e con tutti i documenti in regola. Anche se la misura è in crescita non è facile intercettare gli stranieri che desiderano tornare. “Possono volerci anche due o tre anni – spiega Sordo – spetta al lavoro della rete di associazioni cogliere questa necessità”.

Costa meno del rimpatrio forzato

Biglietto aereo, documenti necessari, “pocket money” che può variare da 100 a 400 euro e contributo per il progetto da 1.000 fino a 3.000 euro: la valigia per la partenza è pronta. Una volta arrivati inizia la fase di reintegrazione. Il Rva nasce però dopo alcune fasi: segnalazione, valutazione del caso ed elaborazione di un progetto individuale che tenga conto delle capacità e delle aspettative del migrante. Secondo chi gestisce la rete, il rimpatrio forzato, che si presenta dopo un mandato di espulsione, costa allo Stato quattro volte in più di quello volontario. Spese di viaggio, della scorta, del volo charter, permanenza fino a 18 mesi in Cie, centro di identificazione ed espulsione, sono alcune delle voci che pesano sui conti italiani.

Fonte infografica: Ritorno Volontario Assistito

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Adrian Paci - Centro di permanenza temporanea, 2007
Courtesy the artist and kaufmann repetto, Milan/New York.

Niente lavoro, niente documenti

Il motivo principale degli abbandoni è la perdita del lavoro e con esso la possibilità di rinnovare il permesso di soggiorno. Da richiedere non oltre gli otto giorni dall’ingresso in Italia e valido per chi vuole soggiornare per più di tre mesi, questo documento è legato con la condizione lavorativa del richiedente: la sua durata per impiego subordinato non può superare un anno, due anni per lavoro autonomo e subordinato a tempo indeterminato, oltre ai ricongiungimenti familiari, da sei mesi fino a nove per lavoro stagionale e un anno per motivi di studio. Superati i cinque anni arriva il permesso di soggiorno Ue di lungo periodo, per ottenerlo bisogna dimostrare di avere un reddito minino non inferiore all’assegno sociale e non assentarsi dall’Italia per più di sei mesi consecutivi, e non più di dieci mesi nel quinquennio (esclusi obblighi militari e motivi di salute gravi). Ma non basta, serve superare un test di lingua italiana e dimostrare di vivere in un alloggio idoneo alle norme igienico-sanitarie. Secondo i dati Istat nel 2014 risultano circa 3.874.000 permessi di soggiorno: 1.695.000 con scadenza, 2.179.000 di lungo periodo.

Dal vagone della stazione al sogno di una panetteria

Senza lavoro non si può restare. Significa non avere i soldi per l’affitto e i documenti in regola. Lo sa Leonid arrivato in Italia nel 2008. Milano sembrava la scelta migliore: una città dalle grandi possibilità abitata da molti connazionali ad attenderlo, lui ci mette la voglia di sfruttare quel diploma superiore tanto sudato. Leonid proviene da un paese dell’ex Unione Sovietica, suo padre è un ex impiegato in pensione. È il più piccolo di quattro fratelli e il primo a decidere di trovare fuori dal suo paese il proprio futuro. I genitori conservano un po’ di risparmi e lo benedicono alla partenza. Arriva a Malpensa a 19 anni con un visto turistico, inizia con un lavoro in nero in alcuni ristoranti, poi in una panetteria. Ama la ricchezza del Duomo, le luci dei negozi di via Torino, la maestosità del castello Sforzesco e poco a poco anche quella lingua prima sconosciuta che velocemente entra nella sua testa. Tutto questo fino al 2011, anno quando il panificio chiude. Il prezzo del posto letto che Leonid pagava a casa di connazionali diventa proibitivo. Il lavoro manca, i soldi pure. Leonid inizia a dormire prima in stazione Centrale poi in un vagone abbandonato della stazione Porta Garibaldi. Riposa poche ore a notte, ha paura, mangia quando qualche connazionale lo aiuta. Perde otto chili in tre mesi. L’inverno non lo risparmia e quando Leonid si presenta agli assistenti è pallido e stremato: vuole tornare a casa. L’associazione valuta diverse possibilità, ma ormai Leonid è determinato: il suo status irregolare, causato dalla mancanza di lavoro fisso, non gli permette di creare nulla di stabile. I mesi prima della partenza Leonid non vuole dormire nei centri di accoglienza che il comune di Milano mette a disposizione durante l’inverno. A un letto caldo preferisce il vagone ferroviario: lo mette a disagio stare insieme a chi non ha fissa dimora e lui, nonostante tutto, non si sente come loro. Da mesi non sente la famiglia e quando grazie al servizio del Rva fa una chiamata, non resiste e piange insieme alla famiglia. Conta i giorni alla partenza: la madre ha problemi di salute, il padre e i fratelli lo aspettano, dopo giorni in cui non avevano notizie di lui. Il suo atteggiamento con il passare dei mesi cambia: Leonid non si sente più sfortunato, ma vede la partenza come una seconda opportunità. Magari aprendo un panificio o iniziando l’università: riprendere quello che aveva abbandonato qualche anno prima. È febbraio l’Oim risponde alla domanda di Ritorno Volontario Assistito di Leonid, con essa arrivano 400 euro per la prima sistemazione e 1.100 euro per il progetto di reintegro: acquistare farina, olio, affittare un negozio per aprire una panetteria. Nella valigia una macchinetta del caffè e un piccolo vocabolario di italiano. Per non dimenticare.

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Adrian Paci - The line, 2007
Courtesy the artist and kaufmann repetto, Milan/New York.

Crisi italiana, crisi straniera

Le nuove povertà colpiscono prima i migranti. Pagano la crisi economica e la mancanza di tutele: una casa, un’eredità, qualche risparmio o anche solo la pensione dei genitori fanno in parte da cuscinetto agli italiani.

In sette anni la disoccupazione tra gli immigrati si è quasi quadruplicata. E’ dalle regioni più ricche che si parte, quelle in cui le fabbriche hanno chiuso: Lombardia, Lazio, Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte. Dal 2008 ad oggi sono 82.000 le aziende italiane fallite, 15.000 solo nel 2014. Con loro è scomparso un milione di posti di lavoro.

Accanto agli ex operai dell’industria troviamo gli stranieri che hanno svolto lavori di assistenza per anziani e bambini: badanti, babysitter e colf. Le famiglie italiane risparmiano, non assumono più o pagano in nero, non permettendo una permanenza regolare. Tutte quelle donne che dal Sud America si erano mosse spinte da annunci web, o trovati nei giornali locali, tornano indietro, non valutano la possibilità di restare. Spesso alle spalle hanno lasciato figli, marito e genitori, partendo solo per spedire qualche soldo a casa.

Non si può fare la baby sitter tutta la vita

Peruviana di famiglia numerosa – cinque sorelle – e benestante Maria arriva in Italia nel 2005. Ha poco più di vent’anni e sogna di scrivere un libro sull’esperienza di ragazza alla pari in un paese europeo. I suoi studi di giornalismo in Perù le danno le basi, ma non bastano per vivere.

Passati i tre mesi del visto da turista deve dimostrare di avere un lavoro. Lo trova in una famiglia di Torino: madre, padre, due figli. Dopo un mese da colf arriva Francesco, il più piccolo. Maria diventa la sua seconda mamma, baby sitter a tempo pieno. In regola con il contratto, riesce a pagarsi un affitto in casa di parenti a San Salvario, quartiere di movida notturna, vicino alla principale stazione dei treni, Porta Nuova.

Una figlia dall’altra parte del mondo a fare da baby sitter però non piace ai genitori di Maria che la richiamano: in Perù hanno un mobilificio che rende molto, un lavoro sicuro. Maria non vuole tornare, l’Italia le piace il lavoro che fa pure. La madre giura che la taglierà fuori dall’eredità se non torna: l’Italia non le avrebbe dato la solidità economica che aveva in patria. Quando parte Francesco sta iniziando la prima elementare, ha sei anni. Ora Maria vive in Perù, pensa spesso all’Italia e sente la famiglia di Torino via Facebook e Skype. Un anno fa ha avuto un figlio e l’ha chiamato Francesco.

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Damiano Simionato, Bangla town

“Da italiano posso andare via”

C’è anche chi ottenuta la cittadinanza italiana, il passaporto migliore per lasciare il paese, punta agli stati dell’Unione Europea dove le prospettive, e i guadagni, sono maggiori. In testa Germania, Gran Bretagna, Olanda, Francia e Belgio, ma si spingono anche oltre i confini del Vecchio Continente puntando a Canada e Stati Uniti.

Secondo un’inchiesta dell’Independent sono 6.000 i bangladesi italiani che negli ultimi tre, quattro anni si sono trasferiti a Londra con le loro famiglie. Le blanga-town sorte negli anni ’90 a ridosso dei centri industriali del Nord, si stanno svuotando. In Inghilterra i benefit non mancano e il governo sovvenziona le famiglie con un assegno per ogni figlio. In quasi trent’anni i bangladesi italiani hanno assimilato i costumi che ora si traducono nei caffè e piatti tipici in puro stile italiano. E con prezzi economici per Londra: 1,70 £ per un cappuccino.

Passano gli anni e l’Italia agli occhi dei bangladesi cambia: prima luogo dalle grandi possibilità, dov’era facile entrare e regolarizzarsi, diventa spazio ostile. Ottenere la cittadinanza, l’ultimo tassello della migrazione, crea invece uno slancio per un altro spostamento.

Siddique Nure Alam, per tutti Bachu, ha 48 anni, da 20 vive in Italia ed è presidente dell’associazione Dhuumcatu, gestita e diretta da membri della comunità bangladese, un centro che organizza eventi e iniziative multiculturali a Roma. “Non ci vogliono far festeggiare il Capodanno Bangla”, è indaffarato Bachu, tra i fogli sparsi sulla scrivania e diverse pagine aperte sullo schermo del pc. Il Municipio V di Roma non firma l’autorizzazione per celebrare il 1423esimo capodanno bangladese, il diciassettesimo organizzato nella capitale, una tradizione che quest’anno cade il 19 aprile. “Siamo troppi dicono – spiega Bachu -, ci suggeriscono di spostarci al Circo Massimo o a Tor Vergata. Ma perché noi che viviamo per la maggior parte qui al V dovremmo andare a rompere al I al VII Municipio?”.

Sono 28.000 i bangladesi registrati all’anagrafe di Roma, una cifra che scende di anno in anno. “In Inghilterra è più facile inserirsi, è una società multiculturale abituata alle diversità – racconta Bachu -, nessuno per strada ti osserva se sei vestito con i tuoi abiti tradizionali o hai delle scarpe non comuni”.

Con i bangladesi abbandonano per l’Inghilterra anche gli italiani di origine indiana, pakistana e srilankese. I primi due gruppi insieme a loro sono avvantaggiati dalla lingua, retaggio dell’antico impero, che è la seconda ufficiale e viene insegnata nelle scuole.

Non solo quindi la mancanza di lavoro e di un welfare all’altezza tra le cause della fuga verso i paesi del nord: “In Italia anche se passano 15 anni in cui vivi e lavori qui, la polizia se ti ferma ti chiede comunque il permesso di soggiorno. Anche se sulla tua carta d’identità c’è scritto ‘cittadinanza italiana’. Ti guarderanno storto e ti chiederanno dov’è il permesso. Certe cose non cambiano”, conclude Bachu.

Il presidente dell’associazione Dhuumcatu è preoccupato: la mancanza di una seconda generazione, presente invece in paesi come Francia, Germania e Inghilterra, cancella gli anni passati a combattere per ottenere i diritti per la comunità: “Qui non appena si diventa italiani andare via sembra l’unica risposta. Le nostre battaglie stanno diventando inutili: mancando la seconda generazione, mancano anche i risultati”.

Obiettivo “Londoni”

Un caso particolarmente clamoroso è quello di Alte Ceccato dove negli anni ’90 metà della popolazione è bangladese: 3.400 persone su 6.800. Ne parla Francesco della Puppa dottore in ricerca in Scienze Sociali nel libro “Uomini in movimento“, uscito nel 2014.

Alte Ceccato è una frazione del Comune di Montecchio Maggiore, in provincia di Vicenza: il più importante distretto conciaro europeo richiama manodopera straniera, che si aggira intorno al 50%. Ai tempi d’oro dell’industria si fatturava l’1% del Pil nazionale, pari a 3 miliardi di euro l’anno.

La crisi economica e la perdita del lavoro spingono ad andar via, ma non sono i soli motivi. Si aggiungono un welfare insufficiente, lo scadente sistema scolastico e universitario italiano – che impedisce di proseguire gli studi in inglese – e l’impossibilità di praticare l’Islam in tranquillità – avere un luogo in cui pregare che non sia una sala dove si fatica ad ottenere i permessi e studiare il Corano.

Da Alte Ceccato nel 2012 sono partiti 100 nuclei familiari: trasferiti in massa a Londra. Con la crisi anche gli obiettivi cambiano: l’ascesa sociale che aveva avuto la prima generazione non si ripeterà. E così i bangladesi si spostano verso quella che viene definita “Londoni”: Londra – considerata la motherland per eccellenza dopo il Bangladesh -, ma anche Birmingham, Bradford, Oldham, Luton, Derby, Rugby e Manchester. L’illusione di Oxford o Cambdrige spinge i bangladesi italiani a “uscire dalla fabbrica” e sperare per i figli, italiani che hanno visto il Bangladesh non più di un paio di volte, un futuro di prestigio come medici, avvocati e ingegneri.

Nonostante i primi entusiasmi molti bangladesi non hanno vissuto bene il traferimento: si sono sentiti di nuovo strappati da casa una seconda volta. Si sono trasferiti in Italia a vent’anni e qui ne hanno vissuti quasi trenta. Oggi da bangladesi italiani mettono in discussione una seconda volta la loro identità.

Alcune delle foto presenti in questo lavoro sono state scattate dall’artista Adrian Paci. Immigrazione, lavoro, movimento e accoglienza sono le tematiche principali delle sue opere. Migrante lui stesso Paci è arrivato in Italia nel 1992 dall’Albania. 

Questo servizio è un Progetto di fine corso per il biennio 2014-2016 dell’Istituto per la Formazione al giornalismo di Urbino (IFG), pubblicato il 19 marzo 2016.