I “figli d’arte di Gisella”: le storie dei detenuti-pittori del carcere di Terni

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Due dei detenuti che partecipano al laboratorio "Arte in carcere"
di LORENZO CIPOLLA

TERNI – Forse il carcere di Terni “ospita” un nuovo Pietro Cavallero, protagonista del banditismo negli anni ’60, condannato all’ergastolo nel 1967 e che, durante la permanenza nel carcere di Porto Azzurro sull’isola d’Elba, iniziò a dipingere paesaggi per sfuggire all’angoscia del “fine pena mai”. Forse capiterà ancora, come accaduto nel 2009 a Raffaele Sollecito, incriminato, condannato e poi assolto per l’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher, che alcuni quadri realizzati tra le mura del penitenziario umbro siano poi venduti a una mostra cittadina. O, più probabilmente, non avremo mai notizia delle opere realizzate durante il laboratorio “Arte in carcere”, attivo dal 2004 nel carcere di Terni.

Nella piccola stanza in fondo a uno dei corridoio di quel labirinto di cancelli aperti con grossi mazzi di chiavi e controlli a ogni ingresso, c’è infatti un laboratorio di pittura. Al suo interno, tra chi s’ingegna con matita e lo sguardo concentrato, e chi, con ago e filo, traccia un albero di Natale guarnito di palline e pacchi dei regali, c’è chi in passato ha maneggiato armi, commesso rapine e alzato le mani troppo volte.

A guidare il laboratorio c’è Gisella Manuetti Bonelli, una pittrice ternana che ha avviato l’iniziativa dopo aver seguito un corso di formazione per volontari carcerari organizzato dall’Associazione di volontariato San Martino di Terni. Dopo aver varcato le soglie del carcere, insieme al direttore dell’epoca, Francesco Dell’Aira, l’artista ha deciso di offrire la sua conoscenza tecnica e culturale per creare una nuova attività, invece di prendere parte a una già esistente. Un’esperienza che, nel tempo, ha creato un legame profondo tra l’operatrice e i reclusi, tanto che questi ultimi hanno deciso di ribattezzare il laboratorio “Figli d’arte di Gisella”.


NON GIUDICARE

I FIGLI D’ARTE DI GISELLA

UN LUOGO DI TRASCENDENZA

DI YOGA, CARTOLINE, AGO E FILO

“UN LUOGO APERTO”

FORMAZIONE E AFFETTIVITÀ


Con la sua iniziativa, la pittrice ha portato umanità e solidarietà ai reclusi in regime di massima sicurezza, tenuti separati dagli altri detenuti: “Abbiamo stabilito un rapporto confidenziale, i detenuti mi considerano come una sorella o una madre – spiega Gisella – perché ho dato loro gli strumenti per esprimere se stessi e trovare qualcosa di buono che forse nemmeno sapevano di avere”. Per loro non è solo una maestra, come dice Marco (nome di fantasia, ndr). “Ha ascoltato le nostre frustrazioni e i nostri problemi”, aggiunge Paolo (nome di fantasia, ndr).

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Una lezione d’arte in carcere

La prima immagine che la parola “lezione” richiama alla mente è spesso fatta di file ordinati di banchi, una cattedra, una lavagna. Il laboratorio, a cui partecipano sia i detenuti in regime di massima sicurezza sia quelli in media sicurezza, invece è una stanza con due tavoli al centro e gli altri addossati alle pareti completamente rivestite di quadri. Ritratti, nudi, personaggi di fantasia, spiagge, tramonti, fiori, bandiere di Stati si susseguono lungo i quattro lati della stanza arrivando fino al soffitto.
Qui l’insegnamento si fonda su poca didattica e tanta libertà. Gisella ha scoperto che questa miscela funziona, forse anche in virtù della sua esperienza personale: niente studi accademici, lei ha imparato l’arte da sola e non l’ha affatto messa da parte.

La sua lezione, se proprio la si vuole chiamare così, è semplice: si parte dalla pratica, le nozioni teoriche vengono dopo. “Comincio facendoli disegnare liberamente – racconta Gisella – perché se parti subito con le regole chi non sa disegnare non ti segue e si stufa. Perciò do loro un foglio e una matita e chiedo a ciascuno di disegnare quello che gli passa per la testa perché qui non c’è nessuno che sbaglia. Al massimo cancelli e riparti”.

“All’inizio – prosegue la pittrice –  voglio capire come gestiscono lo spazio. Questo genera, a volte, scene che fanno quasi sorridere: c’è sempre un detenuto che confonde il sopra e il sotto o non riesce a sfruttare bene la prospettiva. Per esempio, se deve disegnare una curva sulla strada, si ritrova con la strada che finisce in cielo”. Ma la regola di Gisella di fronte all’errore è nessuna reprimenda perché i detenuti sono liberi di sbagliare finché non migliorano da soli.

Gisella Manuetti Bonelli, l’artista-operatrice del corso di pittura “Arte in carcere”

La sua tattica è essere presente ma mai invadente. Se hanno difficoltà e le chiedono aiuto, Gisella mostra loro come devono fare e in questa maniera, più partecipata che frontale, comincia a infondere loro le basi della pittura. Il corso non ha un programma ministeriale da rispettare: ciascuno lavora con i propri tempi, per sé e su di sé. L’obiettivo vero è capirsi a fondo e scoprire nella propria interiorità qualcosa che non è mai stato approfondito o che era sconosciuto e che mostri loro che non sono solamente autori di crimini, una visione di sé che la detenzione può accentuare fino al vedersi esclusivamente come “persone sbagliate”. Osservarli mentre disegnano  e cosa disegnano serve a Gisella per capire chi ha davanti: “Il disegno – spiega – è uno strumento di comunicazione molto potente. Puoi capire chi ha dei particolari problemi psichici oppure da come usano i colori capisci se veramente ‘ci credono’ oppure lavorano distrattamente”.

Dopo aver lavorato sul disegno libero si passa a riprodurre soggetti tratti da libri illustrati, fotografie, tabloid: qualsiasi cosa abbia delle immagini diventa fonte d’ispirazione. Poi si passa al colore, ma con una fase propedeutica: prima si usano i pastelli, tempere e pennelli arriveranno dopo. “Quando cominciamo a usare il colore, c’è sempre qualcuno che mostra un’inclinazione per creare le più diverse combinazioni e allora mi riempiono di domande su come funzionano i colori”. Ma c’è chi esce dal tracciato, vuole sperimentare e sceglie un altro modo di fare le cose. Mario (nome di fantasia, ndr), che da tre anni frequenta il laboratorio, in vista delle feste natalizie ha deciso di usare ago e filo: “Un anno fa un compagno di ‘disavventura’ – racconta – ha realizzato delle cartoline d’auguri per i parenti e gli amici con la tecnica del ricamo. La cosa mi ha incuriosito e insieme a Gisella abbiamo cercato di capire come si facesse, per poi riprodurlo su un quadro”. La tecnica – per la cronaca – consiste nello sforacchiare un foglio creando la forma del soggetto che si vuole realizzare, poi si poggia il foglio sulla tela e con l’ago si fora pure quella, seguendo l’immagine già tracciata sul foglio. Infine, si ricama l’opera sulla tela.

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I figli d’arte di Gisella

“Nessun settore della vita è  tanto esiguo e insignificante da non offrire spazi all’ispirazione artistica”, disse il pittore austriaco Gustav Klimt nel 1908, durante il discorso inaugurale di una rassegna d’arte a Vienna. I partecipanti al laboratorio di Gisella hanno ripreso queste parole nel 2014 per la mostra pittorica e performance “Creativamente verso il domani”. Perché “nemmeno un ambiente come il carcere può impedire alla fantasia di volare”, spiega Gisella.

L’idea di esporre le opere dei detenuti è nata già al primo anno del corso: “Una volta che abbiamo avuto abbastanza dipinti abbiamo pensato di organizzare una mostra”, racconta la volontaria. La prima esposizione dei quadri dei detenuti si è  tenuta nel 2005 a Palazzo Primavera, un centro espositivo ternano per le arti contemporanee, occupandone tutte le cinque sale. Il successo dell’iniziativa convince a ripeterla nel 2006, ampliandola. Aderiscono al progetto anche i detenuti di altri istituti penitenziari, tra cui quelli di Cuneo, Taranto, Rimini e Viterbo, e degli artisti di Terni che tengono un confronto con i detenuti.

Nel tempo queste iniziative si sono evolute: i detenuti hanno ottenuto partecipare nella veste di guide del percorso dell’esposizione; è stata introdotta la vendita delle opere, con la suddivisione del ricavato tra l’autore dell’opera, il laboratorio e gli altri partecipanti; sono stati aggiunti elementi scenici, musica e letture. Solo dal 2014 però i detenuti hanno potuto partecipare alle mostre.

Quell’anno l’evento si tenne all’interno del carcere perché ancora non gli era stata data la possibilità da uscire dalla struttura. “Abbiamo costruito un percorso tra i quadri, collezionando frasi di artisti, come quella di Klimt, e versi scritti dai detenuti – spiega Gisella – allegandoli ai quadri”. Per caratterizzare di più l’esposizione i detenuti ricrearono l’ambiente del laboratorio nella sala della mostra disponendo tavolini, cavalletti, pennelli e colori. Per creare più curiosità nei visitatori i dipinti vennero installati ‘di spalle’ al pubblico e coperti da un telo, per essere poi scoperti alla fine di 25 minuti di inserti musicali e letture da parte di uno dei detenuti. “Questa esperienza gli è piaciuta molto – prosegue  Gisella – e nei preparativi per la mostra successiva mi hanno aiutato in tutta l’organizzazione dell’evento. Queste persone hanno dentro tanta energia e non vedono l’ora di poterla incanalare in qualche attività”.

L’anno seguente, il 2015, la mostra, intitolata “Percorsi”, torna fuori dalle mura del carcere tenendosi al Museo Diocesano di Terni e i detenuti, per la prima volta, escono. “Ho ottenuto che potessero venire con me per affiancarmi e poter fare da ‘guide’ al pubblico”, spiega Gisella. Prende parte alle esposizioni chi dimostra di partecipare al laboratorio e ai corsi con profitto e mantiene, durante la pena, un comportamento responsabile e consapevole. Ma non spetta alla volontaria scegliere chi portare con sé: “Io segnalo al magistrato di sorveglianza chi si impegna e si comporta bene, poi lui decide”, chiarisce Gisella.

Inoltre ‘nasce’ il logo del laboratorio è introdotta la vendita dei quadri. I detenuti hanno ribattezzato il corso “Figli d’arte di Gisella”, a ogni opera che viene venduta viene applicata una targhetta con il loro marchio. “Per la prima volta abbiamo venduti i quadri. L’offerta era libera e il ricavato di ogni opera veniva suddiviso. Il 60% va all’autore del dipinto, il 30% al laboratorio per acquistare nuovo materiale e il restante 10% è distribuito tra gli altri partecipanti al laboratorio”, illustra Gisella.

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Un luogo di trascendenza

Socializzare e produrre qualcosa che nasca dal di dentro, usando gli strumenti forniti dal laboratorio: è questo l’obiettivo che accomuna i detenuti che partecipano al laboratorio artistico di Gisella. Tra i dieci detenuti che oggi frequentano il laboratorio c’è chi è andato solo per il bisogno di compagnia fuori dalla cella, chi spera di ricevere dei permessi premio partecipando a queste attività e chi avrebbe sempre voluto disegnare o dipingere.

Svolgere un’attività, che sia dipingere o andare a scuola, serve per tenere la mente allenata “perché qui ti formattano, entri che magari conosci un milione di parole, passa del tempo e te ne ricordi cento”, spiega Paolo mentre è intento a mescolare i colori sulla tavolozza con la punta del pennello leggermente inumidita, per trovare la tonalità di rosso adatta per il quadro a cui sta lavorando, un ritratto della “Regina di Cuori” di Alice nel Paese delle  Meraviglie, che ha le fattezze di Helena Bonham Carter, l’attrice che ha interpretato la dispotica sovrana in un film di Tim Burton. Paolo partecipa al laboratorio da dieci anni perché “questo posto trascende la gabbia in cui siamo rinchiusi. Qui possiamo esprimere noi stessi, liberarci e in qualche modo evadere”, spiega mentre si leva le cuffie dove risuona un brano dei Red Hot Chili  Peppers, il gruppo che ascolta per concentrarsi e isolarsi dalle voci e dai rumori.

Venire al corso e condividere con altri detenuti discorsi su quello si che fa, scambiarsi opinioni e lavorare fianco a fianco per allestire le mostre gli ha permesso di sconfiggere il vero nemico del recluso: l’indifferenza, quella che nasce dal considerare i detenuti solo in virtù dei loro errori. È quando si sente solo e abbandonato da tutti che il detenuto non si tiene più in considerazione e lentamente si lascia andare senza nemmeno provare a chiedere aiuto. Paolo lo sa perché è entrato e uscito dal carcere più volte – ora è alla terza carcerazione – e ha capito solo con l’ ‘esperienza’ che doveva trovare un’altra via che non fosse quella della violenza, che l’ha fatto finire in isolamento, né quella dell’apatia. In mezzo ad altri uomini alla ricerca di un modo per alleviare il proprio dolore, è riuscito a trovare orecchie che lo ascoltano e una voce che lo consiglia: “Nel laboratorio i rapporti sociali migliorano in maniera tangibile. Si è formato un gruppo affiatato perché, oltre a ridere e scherzare, discutiamo e ci confrontiamo su ciò quello che facciamo – spiega questo ‘veterano’– poi  vedi anche le emozioni mentre lavori, le tue e quelle degli altri”.
Per Paolo le emozioni sono state un grave problema: è finito in carcere proprio perché non sapeva controllare la sua rabbia e la sua frustrazione. Ma con l’impegno al laboratorio e la vicinanza di Gisella, ha trasformato quelle mani che sferravano pugni in mani d’artista.
Al lato destro della finestra c’è un quadro che colpisce appena si entra nella stanza: rappresenta un volto demoniaco con la bocca contorta e spalancata in un grido. “L’ho fatto usando lo stucco, in modo tale che venisse in rilievo, e quelle strisce tutte intorno indicano qualcosa che s’infrange. La faccia con la bocca spalancata – spiega con un certo orgoglio Paolo, gli occhi che guizzano dal dipinto al volto dell’osservatore per spiarne la reazione – è la rabbia che ho dentro, ma in carcere non puoi far uscire fuori certe emozioni, allora quella rabbia rompe la gabbia dentro il quadro”.
L’arte è diventata il suo modo di esprimersi, nei disegni e nei dipinti trasmette il suo mondo interiore più segreto “come se fossero dei confidenti”. Tramite questo lavoro introspettivo negli anni è riuscito a scalare la “montagna del mantenersi vivo”, aprendosi agli altri, diventando più empatico e riallacciando rapporti umani dentro e fuori le mura del carcere, tanto da farsi assegnare un lavoro all’interno dell’istituto penitenziario come imbianchino per sei mesi a un euro e cinquanta all’ora.

Del mondo oltre le sbarre gli manca l’affetto di una donna e il calore di parenti e amici: “In Italia siamo indietro rispetto ad altri paesi. Non capisco perché se una persona sbaglia poi deve pagarne le conseguenze anche la gente che gli è vicina”. I detenuti nelle carceri italiane sono sottoposti a un rigido e ristretto regime di colloqui e telefonate. I reclusi hanno a disposizione sei ore di incontri al mese, e dieci minuti di telefonate alla settimana con famigliari e conoscenti.
Grazie a questa esperienza, comunque, Paolo ha capito che quando uscirà continuerà a dipingere per hobby. Da Gisella ha ricevuto ciò che gli ha permesso di rinascere e tesse continuamente le sue lodi: “Non c’è nessuno dotato di maggior umanità e gentilezza di un volontario, lei ci ha aiutato a crescere come persone – riflette – ascoltando le nostre frustrazioni ed è sempre stata in prima linea per le nostre esigenze e quelle del laboratorio, riuscendo a portarlo avanti e innovarlo. Ha ottenuto che il carcere organizzasse delle mostre e che noi vi prendessimo parte”.
Paolo, ma non solo lui, identifica così tanto le doti umane di Gisella con l’esistenza del laboratorio da concludere che “nel giorno in cui lei andrà via, se ne andrà anche l’anima di questo corso”.

Paolo non è il solo che vorrebbe continuare a dipingere una volta tornato a casa. Anche Marco intende continuare a dedicarsi a riprodurre i paesaggi della sua terra, la Calabria, con il mare davanti e alle spalle le montagne. È al corso da poco, alcuni mesi, ma già considera il laboratorio una bella esperienza: “Con il disegno e la pittura tiri fuori quello che hai dentro perché magari non riesci in altri modi”. Negli istituti precedenti aveva già frequentato dei laboratori artistici, finalizzati a integrare il lavoro degli psicologi del carcere. “L’obiettivo – racconta – era per studiare quello che avevamo dentro e non eravamo in grado di dimostrare apertamente”.

All’inizio, in un altro penitenziario dove non c’erano corsi, Marco ha potuto per la prima volta avvicinarsi all’arte grazie alla buona volontà di un agente di custodia: “Un appuntato era bravissimo a disegnare e dedicava gratuitamente le sue ore libere a noi che volevamo imparare”.
A Terni, grazie alla partecipazione al corso di Gisella ora ha un motivo per sentirsi orgoglioso, cosa che non poteva essere prima data la vita che conduceva, quando “portavo in mano tutt’altre cose rispetto a un pennello” e che gli è costata vent’anni di carcere. Riversando se stesso in quello che disegna o dipinge e poi mandando il risultato a casa, alla sua famiglia, “è come se mandassi un foto di me stesso”, afferma.

Marco è all’inizio e Gisella lo guarda, consiglia e corregge mentre, matita alla mano, riproduce su un foglio l’illustrazione di un libro da disegno. Marco apprezza molto la cura e l’attenzione della volontaria, che quando lo vede in difficoltà si siede accanto a lui e gli mostra cosa sta sbagliando e come deve fare: “C’è un bel rapporto con lei perché non è una semplice maestra, ma ti aiuta a capire”. Confessa che all’inizio aveva persino problemi a disegnare un sole rotondo e quando gli si chiede se intende esporre un suo lavoro risponde: “Al momento avrei un po’ di vergogna perché non sono molto bravo”. Ma l’aspirazione c’è: perché “se qualcuno guardasse o comprasse un mio quadro, potrei dire a me stesso di aver fatto qualcosa di bello”, conclude.

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Di yoga, cartoline, ago e filo

Su una tela è dipinta la sagoma di una persona che medita. La figura irradia linee che simboleggiano vibrazioni interiori e sul corpo corrono verticalmente sette sfere luminose, i chakra (centri energetici che, secondo alcune filosofie orientali, governano le funzioni organiche e quelle mentali). “Pratico yoga e meditazione”, spiega Antonio, l’autore del quadro, “per trovare il mio equilibrio interiore. Anche se questo mi impone alzarmi prima degli altri la mattina, per non disturbare”.

Antonio è arrivato a Terni nel 2016, dal carcere di Prato. Ironia della sorte, ha vissuto per otto anni proprio davanti alla casa circondariale pratese: “La guardavo e mi chiedevo come vivessero i detenuti, ma non mi sarei mai immaginato com’è starci dentro – racconta – perché trovo sia contro natura rinchiudere una persona”.
A differenza dei suoi compagni di detenzione, Antonio cerca di non pensare troppo al mondo libero oltre le mura del carcere, né conta i giorni che mancano alla fine della pena: “Far vagare troppo la mente è  una trappola, preferisco restare con i piedi per terra e vivere il momento – chiarisce – senza pensare che quando arriverà il 2020 uscirò di qui. Se ti proietti in avanti, dimentichi i giorni che ti separano da quel momento. Giorni di sofferenza, perché non si sta bene in carcere”.

Per impedire alla mente di ‘viaggiare’ senza freni ci si butta in qualche attività per arginare altri pensieri, sostiene Antonio. Lo yoga, la meditazione e la pittura perciò lo aiutano a distrarsi, concentrarsi su se stesso e trovare l’equilibrio interiore: “Cerco di crescere spiritualmente – spiega – per controllare le mie sensazioni. Per me è indifferente stare tra cento persone o da solo: posso sentirmi isolato nella massa come in compagnia nei momenti solitudine”. I rapporti sociali di Antonio traggono giovamento dal suo equilibrio interiore: “Cerco di essere rispettoso e positivo verso gli altri, anche se sono persone scurrili o cattive. In questo modo – racconta – provo a fargli capire che c’è del bello nel mondo e in noi stessi, altrimenti resteranno come sono”.

Migliorare le persone, un compito che spetta al carcere. Ma secondo Antonio le cose non vanno esattamente così: secondo lui è assurda “la netta separazione dagli affetti, dalla vita, di cui l’uomo si nutre” e non trova giusto che il personale del carcere abbia “un accanimento verso i detenuti”. Sente che tutti loro sono giudicati come “feccia”, per via degli errori che li hanno portati dietro le sbarre. “Chi lavora nelle carcere forse pensa solo allo stipendio, senza rendersi conto che in questo posto serve tanta umanità. Si prova una tristezza orribile a stare dentro – si sfoga – anche se durante il giorno ridiamo e scherziamo, in realtà soffriamo pazzamente. Secondo me questo trattamento non migliora le persone, anzi fa aumentare in loro la rabbia e il rancore”.

Per Antonio, l’unica persona altruista e amica nel carcere è Gisella e il laboratorio di pittura è una “manna dal cielo”.  Un passatempo che lo arricchisce, in un carcere “bello e confortevole, ma con poche occasioni di svago”, puntualizza. È sempre stato attratto dalla pittura e una volta arrivato al carcere di Terni ha colto l’occasione per imparare. Il suo stimolo maggiore è quando incontra delle difficoltà davanti alla tela, quando una voce interiore gli ripete “non ce la faccio” e la preoccupazione di non essere ancora all’altezza diventano uno sprone in più. Superato questo momento, “”iò che ho dentro passa lungo il braccio, arriva alla mano e da lì alla tela. Dipingere è un piacere”.
Mentre c’è chi scarica anche rabbia e frustrazione nei propri quadri, il ‘segreto’ di Antonio è la serenità: “Provo solo sentimenti positivi mentre lo faccio, nessuna negatività. Anche perché non sono competitivo. Non devo dimostrare niente, neanche a me stesso. Vivo il momento”, spiega.

La soddisfazione e la gratificazione maggiore gli arrivano dal suo lavoro, non dai complimenti degli altri: “Non m’interessa vendere i quadri, anzi li porterei via con me. Ciò che conta è la crescita personale e questo laboratorio mi ha dato una buonissima risposta”, afferma. In attesa del giorno in cui sarà di un nuovo un uomo libero e potrà dedicarsi a quest’hobby “davanti a un bel paesaggio di colline, con un bicchiere di vino in una mano e un pennello nell’altra”.

“All’inizio non prendevo il laboratorio molto sul serio”, racconta invece Andrea, arrivato a Terni da Prato nel 2016. Ha iniziato a frequentare il corso di Gisella per trascorrere due ore fuori dalla cella, ma la volontaria gli ha aperto un mondo: “Mi ha fatto capire il senso delle combinazioni di colori, ora mi piace ‘giocare’ con le tempere. Gisella si dedica a noi con l’anima e il cuore – continua l’uomo – sa davvero trasmetterci tutto quello che riguarda la pittura”.
Seppure sia ancora agli inizi, Andrea si è già tolto una soddisfazione: per l’esposizione del 2016 ha preparato delle “cartoline di auguri per i famigliari, da mandare a casa”, con la tecnica del ricamo, “e sono letteralmente evaporate, le hanno prese tutte”.

Oltre al laboratorio artistico, Andrea fa il barbiere dentro il carcere per 24 euro al mese e una volta a settimana gioca a calcetto al campo sportivo del carcere. Si butta in qualsiasi attività che riesce a trovare perché “qui non ce ne sono poi molte. L’Italia è carente nell’organizzare le attività, ma queste sono fondamentali per aiutarci nella rieducazione – afferma – invece se non facciamo nulla non possiamo cambiare”. Nel suo paese natale Andrea praticava pugilato, arrivando fino a livelli agonistici. In Italia non ha potuto continuare, il carcere gli ha chiuso ogni porta. “Sono solo due le strutture dove si organizzano incontri, in genere la boxe non è ben vista in carcere”.
Gli piacerebbe avere più ore a disposizione per potersi dedicare alla pittura, ma per il momento è soddisfatto del laboratorio e dei suoi compagni: “Ti permette di liberarti e sfogarti, ti solleva un po’ dal fatto di stare qui. Tutti noi coltiviamo questo interesse per la pittura e il tempo che trascorriamo insieme ci permette di conoscere e di capire com’è fatto ciascuno”.

Un altro detenuto, Mario, oltre al laboratorio frequenta le lezioni scolastiche: “Sono all’ultimo anno poi prenderò il diploma dell’istituto tecnico-professionale”. Anche lui avverte la necessità di avere qualcosa da fare, durante la permanenza in carcere, per poter tenere la mente attiva ed elastica e non lasciarsi ‘formattare’ e sfuggire alla “routine che porta a chiudersi in se stessi”.
A differenza di Andrea, Mario ha preso subito seriamente il corso di pittura. Ne è venuto a conoscenza nel 2014, quando ha assistito alla mostra interna “Creativamente verso il domani” e la sua ricerca di stimoli non si è fermata: di fronte alle cartoline fatte con ago e filo da Andrea si è chiesto se fosse possibile provare la stessa tecnica sulla tela. Da lì è nata l’idea di un quadro con l’albero di Natale e i pacchi dei regali ricamati.
“È la persona migliore che abbia mai conosciuto nei diversi circuiti dove sono stato”, dice Andrea di Gisella. “I volontari, di solito, sono più comprensivi e altruisti di chi prende uno stipendio dal carcere – prosegue – e lei è piena di umanità. La bontà delle persone si vede anche dalle piccole cose: in occasione delle feste di Natale, Capodanno e Pasqua, per esempio, organizza sempre un piccolo buffet per noi”, conclude.

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“Un luogo aperto”

“Sono molto contenta di questo laboratorio che cerca di andare incontro a persone con problemi importanti”, dichiara la direttrice del carcere di Terni Chiara Pellegrini, che ha ricevuto l’incarico – “il mio primo da direttore” – proprio nella struttura della sua città d’origine nell’inverno 2013. “Le attività – aggiunge – sono importanti spazi per incontrarsi, cucire relazioni e lavorare”.

Il direttore del carcere di Terni Chiara Pellegrini

Il laboratorio di pittura lo ha ‘ereditato’ dal suo predecessore, Francesco dell’Aira, mentre sotto la sua gestione ne sono nati altri, tra cui un laboratorio teatrale e uno di lettura e scrittura di fiabe.
La tipologia e la cadenza dei laboratori variano in base alla disponibilità di risorse, personale e interesse. “Il corso di teatro, organizzato dall’associazione volontariato penitenziario Toto Corde, per esempio, è al secondo anno di attività, mentre il laboratorio delle fiabe “è nato inizialmente come corso per la lettura, poi si è trasformato in un laboratorio di scrittura improntato alla genitorialità”, spiega la direttrice. Lo scorso 19 settembre 130 bambini sono entrati in carcere per incontrare i propri padri e alcuni detenuti hanno una letto la fiaba scritta a più mani, “Aspettando il proprio papà”.

A settembre invece si è tenuta un’altra iniziativa, “Addetti all’assistenza”, un corso di formazione non professionale – non è rilasciata nessuna qualifica riconosciuta dalla Regione – organizzato insieme all’Usl Umbria 2. “Questo corso forma i detenuti per dare aiuto materiale, morale e sociale a detenuti con disabilità”, spiega la direttrice, “sia fisiche, come persone non in grado di pulire la cella o lavarsi, sia psicologiche, per coloro che vivono la difficoltà a vivere in comunità in un gruppo così vasto come quello carcerario. Oppure devono affrontare forti tendenze alla depressione, all’autolesionismo, ai tentativi di suicidio”.

La direttrice è soddisfatta del numero di aderenti alle attività: una decina partecipano ad “Arte in carcere”, una ventina sono iscritti al laboratorio di teatro, 15 al corso formativo per assistenti ai disabili. “Ci sono una buona partecipazione e un impegno costante negli anni e possiamo dire di aver ottenuto dei risultati non scontati perché se non si forniscono motivazioni e stimoli la detenzione induce all’ozio, all’apatia, alla depressione”, illustra la direttrice.
Le iniziative in carcere sono uno strumento importante per la rieducazione: “Più possibilità si danno ai detenuti, più cala la recidività a commettere reati. Ma non sempre il carcere riesce ad abbatterla, succede anche che aumenti, dato l’ambiente – chiarisce ancora Pellegrini -. Per i laboratori culturali siamo soddisfatti così, mentre vorremmo aumentare quelli per il lavoro e la formazione professionale”.
Ancora, la direttrice ribadisce il suo apprezzamento per il laboratorio “Arte in carcere” di Gisella: “Ha grandi capacità di rinnovamento per mantenere vivi gli stimoli – dichiara –  e sostiene veramente i percorsi di vita dei partecipanti. Credo che questo lavoro darà i suoi frutti anche quando usciranno dal carcere”.

Ascolto, rispetto e attenzione sono i maggiori bisogni dei detenuti, seconda la direttrice. Bisogni che devono essere ascoltati “perché in ciascuno di loro – afferma – ci sono delle risorse che possono essere messe a frutto”. Il rispetto “equivale a riconoscerli per quello che sono”, ovvero non l’incarnazione del male ma persone che hanno commesso un errore. L’attenzione gli viene data fornendo loro degli sproni a non lasciarsi andare. Un aspetto importante per la rieducazione, secondo la direttrice, è la considerazione del detenuto anche come individuo, non solo come appartenente alla comunità dei carcerati. L’attenzione al singolo “serve per rieducarli alle proprie emozioni in un ambiente difficile, perché qui si è privati della libertà”.

In questo contesto, i rapporti umani sono fondamentali e la visione del carcere che ha la direttrice si deve accompagnare a molta attenzione e pragmatismo: “Per me il carcere deve essere un ambiente aperto, ma non può trasformarsi in uno zoo. È importante curare il percorso di selezione all’inizio (i corsi di formazione per il volontari, ndR) perché qui – dichiara con fermezza – non può accedere chiunque. Il rapporto umano richiede molta responsabilità e assenza di un giudizio, perché quest’ultimo spetta esclusivamente al sistema giudiziario”.
L’anello debole della catena rieducativa, nella realtà ternana, sembra però essere fuori dalle mura penitenziarie. “A Terni ricorriamo molto alle misure alternative alla detenzione, tramite gli uffici di esecuzione penale esterna, ma non riceviamo molto sostegno”, ammette la direttrice.

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Formazione e affettività

“Un terzo dei detenuti coinvolto nelle attività del carcere è un numero che supera, anche se di poco, la media nazionale, ma non è soddisfacente”, commenta Stefano Anastasia, garante regionale dei diritti dei detenuti di Umbria e Lazio a proposito dei numeri del carcere di Terni, dove 15 detenuti che partecipano al corso di formazione dell’Usl, 161 iscritti ai corsi scolastici e 170 ad attività culturali (dati aggiornati al 24 marzo 2017, ndR). “Questo perché – spiega – nella programmazione triennale dal 2015 al 2017, il ministero della Giustizia e la Regione Umbria si erano suddivisi la formazione professionale dei detenuti: il primo ha pensato a quella interna al carcere, la seconda ha investito in quella esterna. Ma tutti i quattro istituti umbri, Perugia, Terni, Spoleto e Orvieto – aggiunge il garante – sono rimasti senza fondi”.

Stefano Anastasia, garante dei diritti dei detenuti e presidente onorario dell’Associazione Antigone

Il compito del garante è tutelare i diritti fondamentali delle persone private della libertà e affrontare i problemi connessi alla detenzione e alla rieducazione: “Seguo dalle cose più minute al percorso giudiziario, chiedo valutazioni sulle condizioni di salute di un detenuto, se hanno la possibilità di svolgere attività, se hanno una corretta fornitura d’acqua calda e gli ambienti sono igienici e idonei”, illustra Anastasia che da 30 anni si occupa di carceri.
“La prima volta che entrai in un carcere era il 1988, avevo 23 anni, ero un ricercatore che si occupava di temi giuridici e andai a Rebibbia con alcuni parlamentari quando Renato Curcio e gli altri capi della Brigate Rosse dichiararono conclusa la lotta armata”, racconta il garante. Fu in questa occasione che ebbe modo di conoscere Mauro Palma, all’epoca docente in corsi di formazione per operatori penitenziari e attuale garante nazionale dei diritti dei detenuti, con cui fondò nel 1991 l’Associazione Antigone, un’organizzazione non lucrativa di utilità sociale che vigila sulle condizioni di vita dei detenuti e su quelle dei carceri, oltre che denunciare l’eventuale violazione dei loro diritti.

I laboratori in carcere e le misure alternative alla detenzione sono modi efficaci per rieducare i reclusi, soprattutto le seconde. Secondo la direttrice dell’Ufficio per l’Esecuzione penale esterna – suddiviso in organismo territoriali che sottostanno al Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità – Lucia Castellano chi ha l’opportunità di seguire percorsi fuori ha un tasso di recidiva molto più basso di chi termina la pena dentro senza aver nulla da fare: il 19% contro il 67 %.
Un ostacolo allo svolgimento di percorsi esterni arriva però proprio dallo Stato: il ministero della Giustizia, infatti, per ottimizzare le spese ha accorpato diversi piccoli provveditorati, gli organi dirigenziali periferici, su base regionale, trasferendo in Toscana anche i compiti di quello dell’Umbria con un decreto della presidenza del Consiglio, il numero 84 del 15 giugno 2015. “Se si passa da una misura per il risparmio a un modo per tamponare le emergenze trasferendo i detenuti una regione all’altra non va bene perché i detenuti hanno diritto a scontare la propria condanna nel contesto di riferimento – spiega il garante – mentre allontanando le persone dal luogo di residenza si interrompono dei percorsi di reinserimento. Un conto è togliere le persone da un ambiente criminogeno, un altro è farlo per carenza di spazi”.

Il garante del Lazio e dell’Umbria, da parte sua, ritiene i laboratori “importantissimi perché il carcere è un luogo monotono in cui sei a contatto con persone che non hai scelto. I laboratori non sono solo attività ludiche ma anche creative, permettono di formare la personalità dei detenuti. Un’opportunità sono i corsi di teatro perché in carcere, anche luogo di limitazione psichica, consentono d’imparare un mestiere e di esprimere se stessi”.
Istruzione e formazione per sviluppare nuove competenze sono dunque gli strumenti che consentono al detenuto, all’interno o al di fuori del penitenziario, di reinserirsi nella società: “Chi svolge delle attività in carcere – prosegue Anastasia – deve vedersi riconoscere l’acquisita preparazione. Inoltre chi segue un percorso all’esterno e si trova ad affrontare dei pregiudizi nei suoi confronti o ha una situazione familiare difficile non è lasciato solo, ma è monitorato e aiutato”.

Sono stati fatti anche dei progressi per quel che riguarda il personale penitenziario nonostante i detenuti lamentino comportamenti non sempre civili nei loro confronti: “Non solo a livello dirigenziale c’è più formazione e preparazione – spiega il garante – negli anni c’è stata una maturazione sia degli agenti della Polizia penitenziaria sia nei gradi di comando, commissari e vicecommissari. Negli ultimi dieci anni sono entrati sempre più laureati, spesso in giurisprudenza che hanno fatto pratica come avvocati e sono maggiormente consapevoli della funzione rieducativa della pena sancita dall’articolo 27 della Costituzione”.

La detenzione è pur sempre privazione della libertà, una “inflizione di sofferenza da parte dello Stato”, puntualizza il garante, per cui chi si trova dietro le sbarre soffre la propria condizione. Per far sì la condanna non si tramuti in un’esperienza disumana e degradante “va stabilità una relazione di umanità – prosegue – e il carcere può essere un luogo ricco di solidarietà e comprensione grazie al lavoro degli operatori. Anche gli stessi detenuti che possono aiutarsi tra loro, come accade con la figura del caregiver, il recluso che assiste un compagno disabile, e anche i laboratori sono una componente molto importante per attenuare la condizione di sofferenza”.

Di certo, c’è ancora da lavorare in una prospettiva di civilizzazione della pena sia nella formazione del personale sia nelle diritti dei detenuti. “Il lavoro in carcere può essere molto duro e c’è il rischio che gli operatori sviluppino una sorta di insensibilità nei confronti delle persone che seguono o si verifichino episodi di ‘burn-out’ (perdita delle motivazioni, ndr). Servirebbero – ragiona Anastasia – riforme sul lungo periodo che consentano di fare diverse esperienze lavorative”. Il garante, inoltre segnala un ritardo nelle carceri italiane per quanto riguarda i colloqui e il diritto all’affettività: “Siamo rimasti a una normativa vecchia di decenni che è completamente diversa dalla vita fuori dal carcere in cui sono essenziali i rapporti e relazioni”.

Dei passi avanti sono stati fatti: la legge 103/2017, nota come ‘riforma Orlando’, che contiene una delega per l’esecutivo in materia di detenuti e sul diritto all’affettività, che comprende anche la sfera sessuale, lo scorso 17 marzo ha ricevuto il via libera dal Consiglio de ministri e ora dovrà tornare alle commissioni parlamentari per via delle modifiche apportate al testo. Spetta quindi al Governo lavorare su un decreto attuativo ed eventualmente attrezzare della stanze apposite per gli incontri intimi, ma la scadenza della delega è ad agosto 2018. Finora non è stato fatto, adducendo una mancanza di fondi, ma nell’ultima legge di bilancio sono stati stanziati per la riforma dell’ordinamento penitenziario dieci milioni di euro per il 2018, 20 per il 2019 e 30 dal 2020 in poi.
In precedenza, altre due proposte di legge di iniziativa parlamentare erano rimaste sospese. Si tratta del disegno di legge 1587 del 2014, che prevede una visita al mese dalla durata non inferiore alle tre ore consecutive con il coniuge o il convivente, che ‘giace’ al Senato, mentre il progetto di legge 1762/2013 – in cui viene proposto che i detenuti abbiano diritto a una visita mensile da un minimo di 6 a un massimo di 24 ore – è dal novembre 2015 fermo in commissione parlamentare di Giustizia. “Siamo indietro – conclude Anastasia – rispetto alla quasi totalità dei paesi europei sul diritto all’affettività – riconosciuto, tra gli altri Paesi, in Russia, Svezia, Spagna, Austria ma anche in India, Messico e Israele”.

Questo servizio è un Progetto di fine corso per il biennio 2016-2018 dell’Istituto per la Formazione al giornalismo di Urbino (IFG), pubblicato il 28 marzo 2018