di Libero Dolce
Lampedusa invasa, Lampedusa abbandonata, Lampedusa eroica. L’isola il cui nome evoca subito immagini di sbarchi e tragedie in mare non ha deciso di diventare il simbolo che è adesso. Negli ultimi quindici anni migliaia di esseri umani ne hanno calpestato il suolo per varie ragioni. I migranti certo, ma anche migliaia di turisti attratti dal mare cristallino, i militari ormai onnipresenti, i curiosi, gli operatori del terzo settore. Un via vai continuo che ha cambiato volto alla comunità semichiusa del secolo scorso. Indietro non si torna e la “nuova” isola sta ancora facendo i conti con questa nuova identità, in parte imposta dall’esterno in parte faticosamente in costruzione all’interno.
ESTATE
TRE MESI FRENETICI – L’ISOLA A COMBUSTIBILE – UN SISTEMA CHE NON PUO’ DURARE – FANTASMI ESTIVI IL NOBEL PER LA PACE
INVERNO
NO FINGERPRINTS – SOLIDARIETA’ SUSSIDIARIA – D’INVERNO – TURISTI ANCHE A GENNAIO
UN ULTIMO SGUARDO PRIMA DI PARTIRE
Le cifre. A Lampedusa arriva e se ne va ogni anno l’equivalente in abitanti di una città grande come Messina. La maggioranza tra questi non sono migranti, perché il loro afflusso è determinato da fattori esterni indipendenti. Condizioni meteorologiche, l’apertura e chiusura di altri passaggi per l’Europa a est o a ovest, gli accordi statali per il recupero dei naufraghi. A raccontarlo sono i dati del Ministero dell’Interno. Nel 2011, l’anno del boom degli sbarchi, a Lampedusa, Linosa e Lampione arrivano 51.753 persone. L’isola, per varie ragioni, rischia di annegare sotto questa pressione. L’anno dopo però gli arrivi sono 5.202 che risalgono a 14.753 nel 2013. Ancora sull’altalena gli anni successivi: 4.194 nel 2014, 19.019 l’anno scorso.
E i turisti? Difficile stimarli con esattezza. Gli albergatori registrano le presenze ma nei flussi estivi c’è molto nero ed è difficile ricavare un dato preciso. Per l’ultimo quinquennio i dati dell’Ast aeroservizi dicono che, prendendo in considerazione il periodo che va da giugno a settembre, nel 2011 si è avuto il dato più basso: 55.277 arrivi. L’anno dopo risalgono di quasi settemila, arrivando a 62.968 e nel 2013 si raggiunge il picco di 72.370 sbarcati sulla pista di Lampedusa. Il totale ha poi oscillato tra i 64.000 e i 66.000 negli ultimi due anni. A questi sono da sommare gli arrivi con la nave, che portano circa 20.000 persone in media ogni anno.
Definire correlazioni di causa-effetto tra i due fenomeni sarebbe temerario oltreché impreciso. Se da un lato è vero che nel 2011, l’anno con più migranti, gli arrivi in aereo scendono sotto i 60.000, è possibile anche vedere come nel 2012 c’è una risalita che evidentemente non ha risentito della “cattiva pubblicità” dell’anno prima. “Tra gennaio e febbraio i lampedusani fanno filosofia – ironizza don Mimmo Zambito, parroco dell’isola dal 2013. “Sono preoccupatissimi, temono che non arriverà nessuno e che sarà un disastro. Poi ad aprile qualcuno comincia ad arrivare, d’estate c’è il boom e a settembre, stremati, non vedono l’ora che vadano via”. Normali paradossi di un’isola che d’estate vive di turismo e d’inverno aspetta e alimenta i suoi rimpianti su una gestione dei flussi che potrebbe essere migliore.
L’ESTATE
Tre mesi frenetici. “Io preferirei si tornasse all’isola com’era prima – racconta Nino Taranto, gestore dell’Archivio storico di Lampedusa – con meno chioschi e folla nei lidi. Prima del boom degli anni Ottanta. Un turismo più selettivo che affatichi meno il territorio, magari stimolato di più a immergersi nella storia del posto”. In una piovosa mattina d’agosto, che ha svuotato in parte le spiagge, Taranto accoglie i visitatori dentro la sede dell’associazione e interrompe il racconto ogni volta che entra qualcuno a chiedere informazioni. Stranieri perlopiù, che si fermano davanti alle foto d’epoca, le mappe antiche e all’anfora di origine nordafricana ripescata in mare, custodita qui finché non aprirà il museo archeologico delle Pelagie. Taranto è fiero del lavoro svolto dall’associazione ma critico verso l’assenza di alternative: “Lampedusa è un posto che vive di tanti miti: il mito dei missili di Gheddafi, quello dei turisti, quello dei migranti. Ora c’è anche il mito del sindaco, nel bene e nel male. Sono come un ufficio della Pro Loco ma non è questa la funzione dell’Archivio. Ecco una mancanza dell’isola. Si può vivere di turismo senza saperlo offrire a chi arriva, senza sapersi raccontare?”.
Alternative al turismo però non ce ne sono. “Nel ventesimo secolo – spiega Taranto – la scoperta del passaggio del pesce azzurro nelle acque circostanti ha stimolato una discreta industria del pescato e della conservazione ma rimane un’attività incapace di trainare da sola l’economia isolana”. Un’alternativa per poche famiglie. In più la concorrenza dei pescherecci di Sciacca, e soprattutto dell’imponente flotta da pesca mazarese, taglia fuori i pescatori locali dalle aree più pescose. Fiorente, prima, era anche l’attività della pesca delle spugne, entrata in crisi sia perché incapace di reggere la concorrenza dell’industria sintetica sia perché le spugne vivono in un ecosistema fragile. Impossibile tirarne fuori troppe senza causare un prosciugamento della risorsa. Così i lampedusani si sono trasformati, con diversa fortuna, in imprenditori del turismo.
L’isola a combustibile. A luglio e agosto l’isola si trasforma in un formicaio. Gli arrivi sono gestiti dagli operatori turistici, in genere con la formula del “sei notti e sette giorni”. La maggior parte degli arrivi provengono dagli aeroporti del nord Italia, con voli charter comprati per intero dall’operatore (la cosiddetta formula “vuoto per pieno”) che poi rivende il solo biglietto di andata e ritorno all’acquirente o all’interno di un pacchetto completo. Volo, albergo, mezzo di trasporto. Quest’ultimo è essenziale in un’isola con le spiagge distanti l’una dall’altra, raggiungibili in alternativa soltanto con la non troppo frequente navetta blu. Trovare uno scooter, una macchina o una mehari in alta stagione, se non lo si è fatto con anticipo, può essere complicato.
In paese il rombo di scooter e macchine durante l’estate è incessante. Il rumore è molto fastidioso, come il traffico dell’ora di punta in una grande città. Al tramonto, quando si ritorna dal mare verso il paese, il tanfo dei gas di scarico rende l’aria irrespirabile per la puzza di oli bruciati e benzina. Raro che conducenti e passeggeri indossino un casco o la cintura ma le forze dell’ordine sembrano non farci caso. Uno studio del Politecnico di Torino ha evidenziato che il parco macchine di Lampedusa è molto vasto, con circa il 70% degli abitanti che possiede una macchina contro il 63% dell’isola madre. “Basti pensare che a Lampedusa – scrivono Massimiliano Curto e Marco Diana su QualEnergia- quasi un veicolo su quattro è di categoria Euro 0 mentre la media a livello nazionale è un veicolo Euro 0 ogni 10”. Il 74% delle persone che arrivano si muovono con mezzi in affitto, mentre il 15% si muove con mezzi propri. Solo l’11% sceglie le navetta. Considerando che durante le settimane centrali di Agosto il picco di presenze supera tranquillamente le 14.000 presenze si ha un’idea dell’affollamento di mezzi.
Un sistema che non può durare. A Cala Pisana, una piccola insenatura molto suggestiva nel lato est dell’isola, c’è un B&B molto particolare. Attraverso un cancelletto abbellito dal disegno di alcuni edifici di stile orientale si accede al bianco patio frondoso. Strano a dirsi su un’isola ma sembra di entrare in un’oasi di pace, mentre fuori tutto si agita. Il B&B è gestito da Paola e Melo, coppia di palermitani da 13 anni trapiantati a Lampedusa. “Il problema è la sostenibilità – ragiona Paola a proposito delle presenze – un criterio che non ispira nessuno dei grossi operatori turistici dell’isola. Non è mai stato fatto uno studio serio sulla capacità di carico di Lampedusa perché lavorando quattro mesi all’anno riusciamo a campare di rendita per tutto il resto dell’anno. C’è quasi da augurarsi una crisi perché si faccia una riflessione seria”.
Un’isola di 20 kmq con seimila abitanti che durante l’estate arriva a ospitare tra i 30.000 e i 40.000 visitatori. “Non so fare una previsione – continua Paola – l’isola può reggere magari per altri venti o trent’anni ma alla fine non resterà più niente da salvare. Lampedusa attira turisti per l’ambiente e il mare ma se continui a scaricarci dentro i rifiuti di quasi cinquantamila persone, se continui a costruire case abusive e brutte a un certo punto sarà un disastro”. Il turismo sostenibile non è un’opzione ma l’unico modo con cui si può garantire a una comunità fondata sui visitatori e la bellezza una sopravvivenza a lungo termine. Alternative al turismo? Per Paola non ce ne sono. “Potrebbero trasformarlo in un enorme centro d’accoglienza o un grande presidio militare ”, conclude scherzando amara.
Fantasmi estivi. “Dove sono? A Lampedusa i migranti non si vedono, stanno al centro e poi li rimandano via. Bisogna dirle queste cose”. Salvatore Brignone, proprietario del frequentatissimo Bar dell’amicizia, non ha dubbi su cosa rispondere a chi chiede se turismo e migrazioni siano legati: “Nel 2012 c’è stato un notevole calo delle presenze, anche a causa di come l’hanno raccontata i giornali. Adesso la situazione è tranquilla, i turisti e i migranti non si incrociano”.
Il 2011 in effetti è un anno complicatissimo per l’isola. In Nord Africa e Medio Oriente iniziano le cosiddette primavere arabe che divampano dalla Tunisia. Uomini e donne cominciano a fuggire da un paese diventato caldissimo, dove il dittatore presidente Ben Ali faceva sparare sui manifestanti. Nel febbraio di quell’anno a Lampedusa arrivano in quattromila. Un numero ingestibile per il Centro di primo soccorso e accoglienza.
Moltissimi dormivano per strada, in condizioni di disagio in un’isola non attrezzata per la situazione. In televisione passano di continuo immagini di cortei di uomini esasperati, di sbarchi e soccorsi in mare. Alla fine sull’isola sarebbe arrivato il presidente del consiglio Silvio Berlusconi a rassicurare tutti: “Nel giro di due giorni a Lampedusa ci saranno solo lampedusani”.
La crisi invece continuò finché il 20 settembre al centro esplose la rivolta. In 1500 dentro una struttura capace di ospitarne 300, alcuni appiccarono il fuoco ai materassi infiammabili. Il Cpsa (centro di primi soccorso e accoglienza) finì in cenere, fortunatamente senza che nessuno morisse. Il giorno dopo i migranti raccolti nel campo comunale, vicino al porto, minacciarono di fare esplodere alcune bombole di gas. Furono caricati dalla polizia per disperderli. Ma in questo caso i lampedusani esasperati scesero in strada, bersagliando i migranti in rivolta con una sassaiola.
Finì che sull’isola vennero inviate le navi turistiche per sgombrare i tunisini e portarli sulla terraferma. Le immagini delle proteste, delle cariche e dei volti trasfigurati dall’esasperazione fecero il giro del mondo. Quell’anno Berlusconi propose Lampedusa per il premio Nobel alla pace.
Il Nobel per la pace. Candidata al premio da quattro anni, Lampedusa continua a non vincerlo. La recente vittoria dell’Orso d’oro a Berlino del film di Rosi “Fuocoammare” ha rilanciato per quest’anno la candidatura dell’isola. Premiare un luogo divenuto simbolo tramite il premio simbolico per eccellenza, in un gioco di specchi da far perdere l’orientamento. “Non lo vincerà mai” dicono quasi tutti in paese, perlopiù disinteressati alla cosa. D’altronde premiare Lampedusa perché accoglie i migranti sembra un paradosso. Come fa un’isola ad accogliere? A farlo sono i singoli, i gruppi o le associazioni. Non tutti, con i normali distinguo interni a una comunità variegata, attraversata come tutte da contraddizioni e interessi divergenti. Il gruppo Askavusa, un collettivo critico attivo sull’isola, in un post sul suo blog commentando il film Rosi ha commentato così la candidatura: “Il premio Nobel temiamo che prima o poi possa anche arrivare. Perché non darlo all’isola dell’ ‘accoglienza’, armata fino ai denti per le guerre NATO, che toglie diritti ai propri cittadini e che detiene dietro le sbarre i migranti con giusto un paio di cessi e di docce per centinaia di persone”.
L’INVERNO
“No fingerprints, no fingerprints”. È uno dei cortei più strani cui si può assistere quello che sfila il 6 gennaio 2016 tra le vie di Lampedusa. Scortato e fotografato all’inverosimile dalle forze dell’ordine che lo accompagnano. Ordinato e organizzato, con un uomo al megafono che scandisce slogan e rivendicazioni precise: niente impronte e libertà di proseguire il percorso in Europa.
dove europa? va deto e ripeterei fingerprints. La controparte del corteo però è molto più a nord, a Roma forse. O piuttosto a Bruxelles, dove da qualche mese si chiede all’Italia più severità nelle procedure d’identificazione dei nuovi arrivati. Se chi deve capire ha occhi e orecchie a Lampedusa durante questa piovosa vigilia dell’Epifania, sono occhi e orecchie silenziosi. Finora la prassi si è scostata dalla teoria, con le autorità italiane che chiudevano un occhio sulla sorte di diversi profughi, scomparsi durante i trasferimenti nei vari centri.
Per il gruppo che ha deciso di manifestare è diverso. L’Italia ha accolto le richieste europee e dal 2015 il primo hotspot europeo è Lampedusa. Dal punto di vista strutturale tutto è rimasto com’è: stesso edificio, stesso personale, stessa capienza. La differenza sta nella sostanza. Ora chi arriva deve farsi identificare, tramite le impronte, in modo che le autorità stabiliscano se il migrante può rimanere o deve essere rimpatriato, in base al paese di provenienza. Una mannaia che cala impietosa su gran parte dei migranti economici, costretti a fare retromarcia. Per chi si fa identificare ed è idoneo al passaggio scatta la seconda fase dell’accoglienza, la ricollocazione nei vari paesi europei. Sulla base di un sistema di quote proporzionalmente distribuite tra i vari stati europei secondo le dimensioni dell’economia, la popolazione e al numero di richieste di asilo ricevute.
Non è l’uomo a scegliere il paese ma il paese a scegliere l’uomo. Il sistema della relocation non va bene per chi scappa: è una forzatura Ibrahim Esmael
Ibrahim ha 32 anni, ha superato il mare ma in Libia ha lasciato la moglie. Prima del viaggio li hanno divisi e lei è stata rapita. Divide le giornate tra lunghe telefonate, per provare ad avere sue notizie, e l’organizzazione dei suoi connazionali. Sorride sempre. La protesta è cominciata con un raduno di fronte alla chiesa, a dormire sui gradini in 200 col freddo invernale sollevato dal vento costante. Don Mimmo segue la vicenda in un andirivieni dentro e fuori alla parrocchia. Ha subito aperto le porte della chiesa per chi volesse dormire dentro. Le donne e i bambini si rifugiano, gli altri restano fuori. Per farsi vedere, perché la protesta sia presa sul serio.
Solidarietà sussidiaria. Durante il giorno un gruppo di lampedusani si dà il cambio nella piazza. Per portare una coperta o un vestito, per offrire ai bambini una doccia, per parlare. Sono pochi e volenterosi. Eleonora Maggiore e Yadira Torrente sono due amiche, ventenni, che studiano fuori. ‘Nel continente’ si sarebbe detto un tempo, quando la Sicilia era una terra di migranti economici. Sono sull’isola per gli ultimi giorni di pausa dallo studio. “Con gli hotspot hanno creato un casino e non sanno come risolverlo”, sbotta Eleonora. “È come se io vivessi a Lampedusa – continua – e mio padre a Palermo e mi dicessero: ‘No, non puoi andare da lui, ti trasferiamo a Catania’. È inutile che i miei compaesani mi dicano ‘basta dare le impronte e tutto si risolve’. Non possiamo costringerli ad andare in un posto, sono andati via proprio da questo e non è stato facile per nessuno di loro’.
Gli operatori della Misericordia, la srl che gestisce l’hotspot di contrada Imbriacola, dicono che non possono intervenire fuori dal centro. Per il cibo dunque occorre arrangiarsi. La prima sera un giro dei panifici e distribuzione di calzoni, pane, pizze e panettoni. Il giorno dopo si va a cucinare nel resort di Yadira. Pentoloni su pentoloni di riso, comprato dalle ragazze e distribuito agli infreddoliti davanti alla chiesa. S’improvvisa con il sorriso. Dopo due giorni i migranti si convincono a rientrare al centro, con la mediazione del sindaco, di don Mimmo e di don Mussie Zerai, sacerdote eritreo che negli ultimi 20 anni ha contribuito a salvare migliaia di migranti africani passati dal mar Mediterraneo.
L’hotspot però rischia di tramutarsi in un imbuto. Alcuni di loro sono arrivati a inizio dicembre e sono stati portati via solo a metà gennaio. Dopo il trasferimento in nave in Sicilia alcuni raccontano d’impronte prese con la forza nelle questure sull’isola. “Un’occasione persa per ripensare un modello di accoglienza diverso, più inclusivo ed efficace”, si rammarica don Mimmo. “Lampedusa è il primo approdo per questa gente e potrebbe essere tutt’altra l’idea di Europa che trasmettiamo a chi spera in noi”. La gente però è stanca e la questione interessa sempre meno. “Un luogo di venti chilometri quadrati che deve assolvere alla missione storica e geografica di salvare i migranti”, dice don Mimmo. A suo dire Lampedusa è fortunata proprio perché qualcosa arriva da fuori però lo stato non ha mai voluto farsi carico del fardello che sopportano i lampedusani. Don Mimmo suggerisce mancanza di volontà: “Dopo anni e anni di centro d’accoglienza ci sono ancora delle falle e si procede a tentoni. È evidente che qualcosa non va e si vuole far sì che continui così”.
D’inverno. Difficile per un europeo fare turismo più a sud di Lampedusa senza dover tirare fuori il passaporto e macchiarlo con un timbro. Impossibile invece per chi raggiunge l’isola da meridione oltrepassarla senza tingere d’inchiostro il dito per lasciare le impronte digitali su di un foglio. Le porte girevoli di questa isola, divenuta soglia d’Europa suo malgrado, funzionano in modo diverso a seconda della direzione di arrivo e due fenomeni all’apparenza contraddittori, turismo e migrazioni, qui si toccano finendo per provocare un cortocircuito ma anche una finestra sui possibili mondi che verranno.
Sul volo Palermo-Lampedusa delle 10:30 del 5 gennaio, a metà del viaggio, un passeggero ha abbandonato il libro che stringeva in mano dal decollo per mettere a parte la sconosciuta di fianco del suo stupore riguardo la collocazione geografica di Lampedusa. Il punto più meridionale d’Europa. Il più avanzato avamposto africano nel vecchio continente. Punti di vista. A pensarci volando poco più a ovest si atterrerebbe in Tunisia in pochi minuti. “Se salta Schengen – lo interrompe la signora secca dopo qualche assenso di malcelata noia – il passaporto toccherà tirarlo fuori anche qui. Pensa un po’”.
Ad accogliere i passeggeri sbarcati alle 11:30 all’aeroporto non c’è però nessuna guardia di frontiera. L’Unione europea e il suo trattato di libera circolazione tengono e per chi si avvicina da nord alla “porta d’Europa” l’accesso è ancora garantito esibendo solo il documento d’identità. Dei 68 posti liberi sull’ ATR 72 500 della compagnia Mistral Air più della metà sono vuoti e l’apertura della porta automatica degli “Arrivi” spalanca ai 30 passeggeri la visione di un aeroporto semideserto. Lampedusa è in regime di continuità territoriale con l’Italia. Significa che i collegamenti con la penisola sono un diritto, che gli isolani hanno conquistato solo nel 2003. Il transito di passeggeri è in media al di sotto delle 200.000 unità annuali, ben al di sotto della soglia dei 500.000 che servirebbero per chiudere il bilancio in pari.
Turisti anche a gennaio. Non molti arrivano in inverno qui e la speranza di “destagionalizzare i flussi”, mantra ripetuto da chiunque si interessi di turismo sull’isola, quindi quasi tutti, rimane un auspicio che finora non ha avuto seguito. L’isola scoppia d’estate e va in letargo d’inverno. E l’idea di allungare la stagione turistica per diversificare gli arrivi non ha finora trovato dei riscontri pratici. Quasi inutile pensare di sedersi in un locale in centro fuori dalla stagione estiva. Le decine di ristoratori che per tre o quattro mesi si danno battaglia a colpi di menù turistici al ribasso e pietanze tipiche, si riducono durante l’inverno a uno o due locali aperti frequentati perlopiù da militari e altri forestieri che per qualche ragione si trovano a lavorare a Lampedusa. I trasporti sono infrequenti e scomodi, le barche per i giri turistici dell’isola ferme o in secco, la maggior parte dei bar chiusi.
“Mi accusano di occuparmi solo di migranti e mai di turismo – si lamenta il sindaco Giusi Nicolini – ma non si capisce come vorrebbero destagionalizzare. Faccio un esempio: l’opposizione consiliare ha bocciato la convenzione per la gestione del museo archeologico. La mia giunta ha preso il museo che era stato espropriato, ristrutturato e poi abbandonato vent’anni fa, ho convinto la Sovrintendenza utilizzando fondi dell’ultima programmazione Po Fesr a completarlo aprendo un dialogo per gestirlo noi da qui e loro in consiglio comunale l’hanno respinto. Le pare sensato?”. Il presidente dell’Associazione Albergatori di Lampedusa, Tonino Martello, sostiene di aver presentato insieme ad altri una proposta per gestire privatamente il Museo e metterlo a disposizione del comune, ricavi compresi. Soprintendenza e sindaco respingono questa ricostruzione. Il risultato di questa contrapposizione è che il Museo è chiuso. Il bando indetto dalla Soprintendenza di Agrigento per lavori di restauro e allestimento data al 2012 ma la struttura è chiusa e non accoglie né opere né ovviamente visitatori. Un’incompiuta piuttosto evidente, collocato com’è alla fine di via Roma, la via del passeggio lampedusano, a costeggiare la terrazza panoramica che si affaccia sul porto.
Un senso d’irrisolto e d’abbandono che non si limita al museo. Lampedusa è un’incompiuta in divenire, brutta e scorticata. Prospetti mai ultimati, edifici crollati, lavori fermi su piani superiori abbozzati e mai completati. Sarà difficile per il forestiero che passeggia per la prima volta in paese scorgere uno scorcio in cui la palazzina a due o tre piani, ormai l’edificio classico di Lampedusa, sarà in una qualche armonia cromatica con quelli che lo attorniano. Secondo una relazione del Cru (Comitato regionale urbanistico) i seimila abitanti di Lampedusa gestiscono un patrimonio edilizio capace di ospitare tra i 60.000 e i 70.000 turisti. Dieci volte più dei residenti.
Si è costruito per anni, noncuranti di regole o limiti. L’equilibrio con il paesaggio e la natura completamente trascurato, finendo per costruire villette squadrate a pochi passi dal mare o edifici del tutto incongrui col circostante, veri e propri cubi di cemento color grigio colata. Secondo Giusi Nicolini le istituzioni, le amministrazioni precedenti “hanno fatto un accordo silenzioso e scriteriato con i lampedusani. Non ci sono soldi, il turismo è in difficoltà? Noi vi facciamo fare case senza dire nulla, così almeno aumentate i ricavi”. Può funzionare una scambio del genere? “Porta a un modello ingestibile – commenta amaro il sindaco – dove le regole sono considerate un fastidio e modelli più sani di turismo vengono rifiutati perché poco convenienti. Non si capisce che il problema viene proprio da un turismo che invece di rispettare il territorio lo impoverisce”.
Un ultimo sguardo prima di partire. “Mio padre arrivò per lavoro nel ‘75, dalla Puglia, e decise di rimanere. S’innamorò di questo posto dove, appena sbarcato, i primi isolani conosciuti lo invitarono a casa loro. Prima funzionava così, vivendo da un posto di mare qualunque cosa ti arrivi dal mare la devi accogliere”. Non è l’unico a usare questa espressione Mauro Buccarello, “giornalista trapiantato” sull’isola, che fotografa la grande migrazione e racconta l’isola per Associated Press.
Nel 2007 l’occhio dei media si è posato sull’isola, con molta insistenza. “Non è stato un anno di grandi numeri, credo fossero 30.000 i migranti arrivati quell’anno ma vennero rilanciati su tutta la stampa italiana. Uno dei motivi per cui ho scelto un’agenzia estera. Io sentivo sempre “Lampedusa invasa” ma andavo al molo e questa invasione non la vedevo. Mi ricordavo di quello che avevo visto fuori, a Brindisi, ad Agrigento, a Macerata dove vedevi realmente l’immigrazione. Lì ovunque andassi c’erano migranti, dalla stazione ai vari luoghi di aggregazione”. A Lampedusa non esiste questa forma di migrazione, qui c’è la realtà della prima accoglienza. La parte, enfatizzata a dismisura nel racconto pubblico, del soccorso ai disperati delle carrette del mare. Quella che si presta a interpretazioni iperboliche e distorsive, nella linea che può si muove dalla retorica dell’eroismo a quella dell’invasione terroristica.
Mauro ha un’idea precisa della correlazione esistente tra il turismo e i migranti: “Nel 2009 c’è stata un’assenza del movimento migratorio, a causa dei respingimenti in mare. Quell’anno non c’è stato un aumento del turismo nonostante non ci fossero migranti. È una cosa che hanno inculcato nella testa dei lampedusani che le migrazioni facciano calare il turismo. In realtà si tratta di un problema strutturale che ha l’economia turistica, che non sempre può stare sullo standard di 50.000 presenze”. Salite e discese fisiologiche, come per altre località turistiche in un mercato che è legato oltre che alla percezione, alla moda e al quadro economico generale.
“Quel che veramente servirebbe – sostiene Mauro – sarebbe un ripensamento dell’accoglienza su tutto il territorio, alleggerendo il ruolo dell’isola che il suo lo fa. Il fatto è che ormai con l’accoglienza si fanno i soldi, come hanno dimostrato le inchieste. Molti parlano di Lampedusa per approfittarne, per far soldi con quel che rappresenta. Una spugna che lava le coscienze di tutti e riempie i portafogli di alcuni”.
Tra poco si ricomincerà a pensare alla prossima estate di turismo. L’isola aspetta i turisti, qualcuno aspetta il Nobel mentre altri stanno al loro posto per dare dignità a chi arriva dal mare. I muri che si alzano ad ogni frontiera nella cosiddetta “rotta balcanica” potrebbero significare un ritorno alla centralità delle rotte sul mediterraneo ovest. Tra Sicilia e Africa il paradosso Lampedusa resta dov’è, quello di un’isola che sopravvive consumandosi e recupera accoglie i migranti sulla soglia di un’Europa fortezza. In attesa che qualcuno provi ad affrontarlo.