L’altro lato del calcio dilettantistico. Schiaffi e spintoni contro arbitri e allenatori

di Giacomo Tirozzi

Gli arbitri, le prime vittime

I calciatori: i principali aggressori

Sicilia: la regione più violenta

Le brutalità contro gli allenatori

Sangue e testate sugli spalti: le risse tra genitori

I giocatori: le ragioni di un comportamento violento

Tutte le domeniche gli italiani interrompono tutto quello che stanno facendo per incollarsi davanti alla televisione o per andare allo stadio a guardare una partita di calcio. Un rito cui partecipano milioni di persone. Dietro al calcio patinato, in Hd, alla Serie A dei campioni pagati a suon di milioni c’è però una realtà nascosta da un cono d’ombra. Quella del calcio di provincia in cui arbitri e allenatori vengono minacciati e picchiati. C’è chi è stato preso a pugni, chi è sequestrato negli spogliatoi, chi ha dovuto chiamare i Carabinieri perché dagli insulti verbali si stava passando ai fatti. Neanche gli allenatori sono esenti da questo tipo di violenze. “Un genitore mi ha tirato un pugno e solo perché non avevo fatto giocare il figlio” racconta Augusto De Bartolo, tecnico di una squadra professionistica. Questi episodi riguardano soprattutto il calcio dilettantistico in cui, almeno in teoria, il divertimento dovrebbe venire prima del risultato.

Gli arbitri, le prime vittime

I più colpiti sono gli arbitri. Secondo l’osservatorio sulla violenza dell’Aia (l’Associazione italiana arbitri) nella stagione 2016/2017 ci sono stati 473 casi di violenza. Il fenomeno è in calo rispetto alla scorsa stagione quando per la prima volta si era toccato quota 681, cioè 81 casi in più rispetto al 2013/2014 e più del doppio del 2013. Come sottolinea un dirigente dell’Aia, che ha chiesto di rimanere anonimo, fino a qualche anno fa si pensava che picchiare un arbitro non portasse a conseguenze di alcun tipo. In sostanza si restava impuniti. Ma oggi grazie a nuove misure adottate dall’associazione arbitri le cose stanno iniziando a cambiare.

Le misure dell’Aia per arginare il fenomeno: più avvocati, più informazione

Per aiutare gli arbitri a denunciare le aggressioni subite l’Aia ha messo loro a disposizione degli avvocati. Quando la denuncia si trasforma in condanna la notizia esce sui giornali. Questo rappresenta un deterrente sia per le squadre che per i calciatori. Secondo l’Aia queste iniziative hanno dato i loro frutti. Le persone stanno iniziando ad avere paura di una denuncia, comprese le società.

A confermarlo è anche Luca Marelli, ex arbitro di serie A e B e avvocato: “Il calo dei casi non è casuale, sicuramente è stata messa in atto qualche misura che ha consentito di abbassare queste cifre. Forse è stata fatta un po’ di informazione, sicuramente è stata diffusa l’idea che chi compie queste azioni ne subirà le conseguenze, ci saranno delle sanzioni penali. Ricordiamo che fino a qualche anno fa era tutto consentito. Sembrava quasi che il campo fosse una zona franca. Invece adesso sembra stia passando il messaggio che chi si rende colpevole paga”.

Luca Marelli, ex arbitro di Serie A e B durante una gara

In sostanza si sta facendo passare il messaggio che a ogni aggressione corrisponde un’azione penale. “Ogni episodio di violenza deve essere seguito da una denuncia per aggressione e per danni. Comunque 473 casi rimangono troppi” conclude l’ex arbitro. Dopo aver appeso il fischietto al chiodo Marelli ha fatto parte del Comitato regionale arbitri della Lombardia (Cra) nel ruolo di designatore dei campionati di eccellenza e promozione. Si è dimesso dall’Aia nel luglio 2011 per contrasti con l’associazione.

L’altra soluzione: direttori di gara pagati dalle società

Dal dicembre 2014 le società responsabili di episodi di violenza, in genere attraverso le azioni dei loro calciatori o dei dirigenti, rischiano di dover pagare il direttore di gara. Dal 1990 gli arbitri non percepiscono più il loro salario per la direzione delle partite dalle società, ma dal Coni. Se per i grandi club pagare un arbitro non è un problema, per le piccole squadre dilettantistiche è una voce che può incidere sul bilancio. Si parla, infatti, di una cifra che può arrivare fino ai 10.000 euro all’anno. Per l’Aia questa “minaccia” ha influito nella diminuzione degli episodi di violenza. Non è dello stesso avviso Marelli: “È una proposta avanzata tempo fa ed è anche diventata effettiva ma non è mai stata applicata. Non esiste una società che abbia dovuto pagare l’arbitro, o almeno io non ne sono al corrente, il che è molto strano”.

Gli arbitri: come comportarsi in caso di aggressione

Quando un calciatore commette una violenza l’Aia, nell’ambito della giustizia sportiva, deve chiedere l’autorizzazione alla Figc (ci vogliono tra i 60 e i 90 giorni), per potere procedere alla denuncia. In genere la federazione dà sempre parere favorevole. Sul piano giuridico è diverso: il direttore di gara può sempre denunciare all’autorità competente. Se invece si tratta di persone non iscritte alla Figc le cose cambiano. In questo caso non ci vuole l’autorizzazione a procedere da parte della federazione.

In caso di violenza il direttore di gara deve per prima cosa andare all’ospedale per farsi medicare e dopo redigere il referto arbitrale descrivendo l’accaduto. Dall’Aia fanno sapere che spingono sempre per la denuncia. Dello stesso avviso anche Marelli: “Quello che si dice ai ragazzi è sempre lo stesso: di comportarsi tutti allo stesso modo, di essere rispettosi, di allenarsi, di arrivare in campo e dare il meglio. Nel caso in cui dovesse succedere qualcosa di questo genere bisogna comportarsi alla stessa maniera. Una volta che si è toccati o avviene un episodio di violenza bisogna interrompere la partita, redigere il rapporto e fare in modo che i responsabili siano puniti”.

I calciatori: i principali artefici delle violenze

Nel 71% dei casi ad aggredire l’arbitro è stato un giocatore, seguono poi i dirigenti con il 20% e infine gli estranei con il 9%. La maggior parte delle aggressioni sono di tipo fisico, il 60%. Di queste il 45% è compiuta da un calciatore. I dirigenti si fermano all’11% e gli estranei, in genere gli spettatori delle partite che molto spesso sono genitori, sono al 3%. Alte pure le aggressioni fisiche gravi, al 20%. Anche qui sono sempre i calciatori i maggiori responsabili con il 12%. I dirigenti si fermano al 3%. Salgono gli estranei che raggiungono il 5%. Il restante 20% è dovuto a tentate aggressioni fisiche (10%) e morali (10%), in cui la fanno da padrone sempre i calciatori con il 14%.

Sequestri e tentate aggressioni: le storie di Lorenzo e Carlo

“Mi hanno ‘sequestrato’ negli spogliatoi” racconta Lorenzo Grossi, un ex arbitro di terza e seconda categoria: “Dopo una partita molto tesa in cui avevo ricevuto continui insulti da parte dell’allenatore e dei giocatori, un dirigente della squadra ospite mi ha impedito di uscire dallo spogliatoio: ho dovuto chiamare i Carabinieri perché questa persona continuava a minacciarmi”. Questo episodio è avvenuto in Lombardia nel 2015.

Anche Carlo Bitetto, un ex arbitro con dieci anni di esperienza, è stato vittima di una tentata aggressione: “Quando ho cominciato alla sezione di Lodi nel 1999 avevo solo 16 anni, l’età minima per iniziare. Mi ricordo che in una partita nella periferia sud di Milano, dopo aver assegnato nel recupero la rete del 3-2, un calciatore dalla panchina si è alzato e ha iniziato a rincorrermi. Io continuavo a indietreggiare, ma questa persona alla fine mi ha raggiunto e ha tentato di tirarmi un pugno. Per fortuna è stato fermato dai suoi compagni di squadra che l’hanno accerchiato e convinto a desistere dal suo intento”. In Italia eventi di questo genere si verificano ogni domenica.

Sicilia: la regione più violenta

La maglia nera degli episodi violenti va alla Sicilia dove nel 2016-2017 sono avvenuti il 22% dei casi con 105 episodi. Seguono la Calabria con 62 (13%) e la Campania con 49 (10%). In queste tre regioni avvengono quasi la metà dei casi di violenza nei confronti degli arbitri in tutta Italia.

Il nord Italia (Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Trentino-Alto Adige, Valle D’Aosta e Veneto) si mostra più rispettoso e meno violento nei confronti dei direttori di gara. Nelle otto regioni nel loro complesso, Infatti, gli episodi di violenza si fermano al 21%, un punto percentuale in meno rispetto alla Sicilia.
Sotto il 15% il centro Italia (Lazio, Marche, Toscana, Umbria) dove la regione più violenta è il Lazio con 45 episodi (9,5%). Il sud Italia e le isole, invece, hanno il primato: infatti il 56% degli episodi di violenza avviene in queste due macro-aree.

Più il livello scende, più aumenta la violenza

Dopo la serie D nel calcio dilettantistico ci sono altre cinque categorie. Due sono a un livello abbastanza elevato: l’Eccellenza e la Promozione. Soprattutto nella prima non è così strano trovare calciatori professionisti che a fine carriera scelgono di giocarci. Le altre tre sono Prima, Seconda e Terza categoria. Qui il livello è più basso. I calciatori si allenano poco, massimo due volte a settimana. Si gioca per passione e per stare con gli amici.

La categoria più violenta verso gli arbitri è la seconda. Seguono poi la prima e la terza. Più il livello si alza, più i casi diminuiscono. Se in Seconda categoria nella stagione 2016-2017 ci sono stati 109 casi, in serie D neanche uno. Sommate, le tre categorie più violente arrivano al 55% del totale. Se la prima e la terza si fermano rispettivamente il 18% e il 14%, nel 2017 la seconda categoria è arrivata al 23%.

Questi comportamenti avvengono anche nel settore giovanile: di fronte ai 63 casi riscontrati nei giovanissimi, allievi e juniores provinciali (ragazzi che vanno dai 13 ai 18 anni), quelli regionali si fermano a 43, poco più della metà.

Carlo è rimasto coinvolto in un episodio di questo tipo: “Durante una partita di allievi sono stato costretto a chiamare i Carabinieri perché un genitore mi aveva insultato per tutta la partita e infine mi ha anche minacciato: continuava a dirmi ‘ti aspetto fuori, ti aspetto fuori’. All’epoca avevo solo 17 anni e mi sono un po’ risentito: non è bello vedere una persona adulta dell’età di tuo padre che ti insulta e minaccia per tutta la partita, è una brutta sensazione. Poi, una volta arrivati i Carabinieri, la situazione si è subito calmata”.

Secondo Carlo questo episodio è emblematico perché ricalca quello che accade tutte le domeniche sui campi dilettantistici: i ragazzi sono abituati a sentire i propri genitori urlare e sbraitare dalla tribuna insulti rivolti all’arbitro. Questo è un problema di educazione come sottolinea lo stesso ex direttore di gara: “Il primo problema del settore giovanile non sono i ragazzi, ma i genitori che fomentano i figli dagli spalti. Tutti i brutti epiteti che sentiamo riferiti all’arbitro tutte le domeniche non sono opera dei ragazzi, ma di chi siede in tribuna e guarda le partite”.

Nelle gare del settore giovanile a livello professionistico si sentono meno insulti nei confronti degli arbitri. In questo caso influiscono molto le società: più importante e blasonato è il club, più si presta attenzione ai fenomeni di violenza e certi comportamenti sia da parte dei genitori che dei ragazzi non sono tollerati.

Le brutalità contro gli allenatori

Gli arbitri non sono i soli a subire violenze, anche gli allenatori sono spesso coinvolti. In questo caso ad alzare le mani o a minacciare non sono i calciatori, ma i genitori. Un fenomeno che riguarda soprattutto il mondo giovanile, come spiega Roberto D’Alessandro, un allenatore con più di 20 anni di esperienza nel settore. Cinquantaquattro anni e una vita passata nel mondo del pallone, prima come giocatore e poi come allenatore, Roberto conosce bene il calcio. Ha allenato tutte le categorie del settore giovanile, a partire dai giovanissimi fino alla juniores, passando per gli allievi. Una vita dedicata ai ragazzi a cui ha riservato gran parte del suo tempo anche se adesso ha deciso, per il momento, di dire basta perché un po’ nauseato dal mondo del pallone: “È cambiato il calcio. Ormai è visto come un mezzo per fare soldi, per arrivare al successo. È diventato solo un modo per mettersi in evidenza”.

Roberto D’Alessandro

I responsabili delle violenze sono i genitori

Secondo l’allenatore il principale problema è costituito dai genitori che ripongono tutte le loro speranze nei figli, mettendoli troppo sotto pressione: “Il calcio è diventato un business. Quando un ragazzo non raggiunge un obiettivo prefissato, per il genitore la colpa non è mai del figlio, ma dell’allenatore e della società. Non c’è mai autocritica. Questo ambiente è diventato molto opprimente e i giovani non crescono più con i valori sportivi, pensano solo al successo, solo a se stessi”. Per i ragazzi il calcio non è più un gioco, ma un impegno a cui molti sono obbligati a sottostare: “Si pensa che il calcio possa accelerare o favorire l’ascesa sociale – commenta Roberto -, so già che ci sono procuratori a livello dilettantistico di ragazzini di 14-15 anni. Questa per me è una cosa assurda”.

Questo tipo di atteggiamento si riflette anche in campo e i genitori da semplici spettatori o accompagnatori si sono trasformati in tifosi accaniti, disposti a tutto pur di far arrivare al successo il proprio figlio: “Mi è capitato di allontanare dei ragazzi per colpa del comportamento dei genitori. Ci sono dei genitori che criticano i compagni del proprio figlio e creano un ambiente destabilizzante” aggiunge Roberto.

Augusto: “Un genitore mi ha tirato un pugno”

Gli episodi di violenza non mancano, come racconta Augusto, 38 anni, che, dopo quattro anni di esperienza nel settore, allena nelle giovanili dell’Alessandria, una squadra professionistica di Lega Pro: “Un genitore mi ha insultato e tirato un pugno solo perché non avevo fatto giocare in una partita il figlio”. Nella fase agonistica, che inizia a partire dall’età della terza media, gli allenatori non sono più obbligati a far giocare tutti i ragazzi. “Nella gestione del gruppo si cerca di mettere il bambino nelle migliori condizioni di esprimersi – spiega Augusto – se un giovane è un po’ più indietro e la partita è più difficile cerco di farlo giocare dove può esprimersi al meglio, come ad esempio quando si affronta un avversario più abbordabile, perché altrimenti può entrare in difficoltà. Ci sono molti ragazzi che smettono di giocare per queste ragioni” spiega.

Quando si è piccoli si gioca a calcio per passione. Per un ragazzino non è facile vedere altri coetanei che giocano meglio di lui. Per questo motivo molti possono risentirsi e magari tendono ad escludersi dal gruppo e a lasciare la squadra. Compito dell’allenatore è anche quello di incoraggiarli e di infondergli sicurezza.

Dopo questo episodio il ragazzo non è più venuto agli allenamenti e poco dopo ha smesso del tutto di giocare a calcio. “Questa per me è la cosa più grave e ritengo che sia la peggior sconfitta per un genitore, sconfitta che sento anche un po’ mia” commenta Augusto. “Noi allenatori cerchiamo di formare i ragazzi, il settore giovanile deve essere un ambiente di crescita in cui bisogna rispettare le regole e imparare a stare in mezzo agli altri”.

Sangue e testate sugli spalti: le risse tra genitori

Le aggressioni non avvengono solo nei confronti degli allenatori e degli arbitri, ma anche tra genitori. Nel 2015 durante una partita tra sedicenni, in provincia di Milano, due genitori si sono presi a testate sugli spalti: “I due hanno iniziato a discutere per un fallo fino a quando dalle parole si è passati ai fatti – spiega Roberto, testimone dell’evento – gli animi poi sono diventati tesi anche in campo e l’arbitro è stato costretto a sospendere la partita fino all’arrivo delle forze dell’ordine. C’era sangue dappertutto sugli spalti” racconta l’allenatore che poi conclude: “Il punto è che in una gara del settore giovanile di ragazzi di 15-16 anni è successo un fatto intollerabile”.

Ma non è un caso isolato. Nello stesso anno un genitore ha cercato di scavalcare la rete che separa le tribune dal campo per cercare di aggredire un arbitro: “È stato un gesto dimostrativo – commenta Roberto – ma fotografa comunque la situazione in cui vive il calcio dilettantistico oggi”.

Le tentate aggressioni dei genitori nei confronti degli arbitri sono minori rispetto alle violenze fisiche vere e proprie. Nel corso della stagione 2016/2017 ce ne sono state due, un numero nettamente inferiore rispetto ai dirigenti che arrivano a 14 (20%) e ai calciatori che raggiungono l’8% (34 casi). Nel corso della sua carriera, un arbitro rischia più facilmente di subire un’aggressione fisica rispetto a una di tipo morale o a una tentata violenza. Dei 473 casi totali le violenze fisiche infatti sono 380, l’80% degli episodi.

I giocatori: le ragioni di un comportamento violento

In Italia oltre un milione di giocatori è tesserato della Figc (Federazione Italiana gioco calcio) e si disputano più di 600.000 partite all’anno. Di queste il 65% (378.547) sono gare del settore giovanile, mentre il 34% (201.406) appartengono al settore dilettantistico. Solo l’1% (3.387) delle gare è tra i professionisti.

Per un calciatore, soprattutto a livello dilettantistico, la partita è tutto. È il momento in cui si possono sfogare tutte le frustrazioni accumulate durante la settimana. Molti giocatori vanno in campo la domenica per divertirsi. Luca, nome di fantasia, è uno di questi. Ha giocato per sette anni in due delle categorie più violente del nostro calcio, la seconda e la terza, prima di ritirarsi. “Ho sempre avuto una grande passione per il calcio e anche se non sono arrivato in alto per me era sempre un’emozione scendere in campo” ricorda l’ex calciatore. “In particolare mi ricordo di due episodi di violenza fisica nei confronti degli arbitri. Più che altro il direttore di gara era soggetto soprattutto a insulti. Una volta un mio compagno di squadra ha rubato il cartellino rosso all’arbitro mentre lo stava buttando fuori e lo ha calciato via. Dopo l’accaduto comunque il giocatore ha accettato la decisione e ha abbandonato il terreno di gioco”.

Luca è stato anche artefice di un episodio di violenza nei confronti di un arbitro: “All’epoca facevo il difensore centrale. Mi ricordo che durante una partita ho subito un brutto fallo e l’arbitro non ha fischiato, ma, anzi, ha fatto finta di niente e io in preda alla rabbia e all’adrenalina del momento mi sono alzato di scatto e senza pensarci sopra ho dato uno spintone all’arbitro. L’arbitro poi mi ha solo ammonito, anche se il mio gesto era da espulsione, forse perché si sentiva anche lui un po’ in colpa per non aver prima fischiato il fallo a mio favore”.

Dello stesso avviso anche Gianluca Corini, un allenatore che ha giocato per quasi dieci anni in seconda e terza categoria.. “Bisogna entrare nell’ottica che nel calcio dilettantistico l’arbitro è lasciato completamente solo, non c’è nessuno che lo aiuti, ed è ovvio che la percentuale di errori aumenti, però i calciatori dovrebbero vivere questa situazione più tranquillamente. In questa fase è solo un gioco e non deve essere un trampolino di lancio per diventare per forza un professionista ”.

Per Gianluca gioca un ruolo importante anche l’educazione: “Tutto parte dai genitori che spingono i figli verso il mondo del calcio pensando che il loro debba arrivare ai più alti livelli. Questo porta a della frustrazione da parte dei ragazzi”. Carlo la pensa come Gianluca e rimanda il tutto a un problema culturale: “È da bambini che parte il problema, se il genitore insulta l’arbitro lo farà anche il figlio e se non si punisce il figlio per un cattivo comportamento nei confronti dell’arbitro questo lo rifarà sicuramente”.

Questo servizio è un progetto di fine corso per il biennio 2016-2018 dell'Istituto per la Formazione al giornalismo di Urbino (IFG), pubblicato il 29 marzo 2018