Benvenuti
nell'era "fast food"
Intervista ad Andrea Aromatico
Nel panorama del fumetto italiano,
il suo è un nome relativamente nuovo.
Prima del suo secondo progetto, Pinkerton
S.A., Andrea Aromatico
aveva scritto soltanto Nemrod, pubblicato
da Star Comics. Era novembre
2007, e per l'editore perugino non si trattava
del primo esperimento di questo tipo. Ma di
certo è dal lancio di Nemrod,
simultaneo a quello di Khor, che la
Star ha dato il via a una serie
di proposte "a breve termine" che
sembra non fermarsi.
Crede
sia proprio quello delle miniserie l'unico futuro
possibile per il fumetto popolare italiano?
"Oggi come oggi sì.
Abbiamo di fronte un mercato vasto e articolato
che la 'manga invasion' (i prodotti giapponesi
e in parte quelli coreani) ha suddiviso in nicchie
tematiche, e diventa estremamente difficile
proporre qualcosa di generalista che sia capace
di catturare ampie fasce di lettori. Ovvio che
gli editori si sentano più tutelati proponendo
progetti a breve termine atti a sondare il mercato
senza correre troppi rischi. C'è poi
la questione della cultura 'fast food', che
più o meno colpisce ogni settore merceologico,
e dunque anche l'industria culturale di cui
il fumetto è parte, per quanto 'pop'.
Questo rende difficile la fidelizzazione del
pubblico, già stordito da un'offerta
ampia come non mai anche per via della globalizzazione
e dall’apertura dei mercati. Ecco, in
un contesto come questo, la miniserie è
un tentativo di sopravvivenza. Rivolto, magari,
alla ricerca di qualcosa che sia capace di fare
centro e di farlo in grande stile, garantendo
la resurrezione di un settore che oggi, in Italia,
non è certo in espansione. Ma mi chiedo
quale lo sia".
Una miniserie di
12, una di 4, e un'altra di 12 (ma con un cambio
di marcia da mensile a trimestrale, e non più
miniserie ma speciali): Nemrod ha avuto
una vita editoriale tormentata ma intensa. Come
vengono vissuti da chi sceneggia questi cambi
di direzione?
"Male, ovvio. Ma ci
si adatta".
Come si affronta
la scrittura di storie in evoluzione ma dalle
prospettive sempre indefinite?
"Con la passione e
con un grande spirito di sacrificio, gli unici
motori capaci di garantire una decente linea
di galleggiamento, prima esistenziale e poi
creativa, in una situazione davvero critica
come quella attuale".
Anche se non come
una serie regolare, alla fine Nemrod
avrà una vita editoriale lunga circa
tre anni. In un mercato a breve raggio come
quello di oggi non è poco. Crede che
il suo fumetto abbia creato qualche mito che
verrà ricordato anche dopo la fine delle
pubblicazioni?
"Al di là dei
personaggi, sì. La struttura narrativa,
i temi trattati e i risvolti culturali che Nemrod
ha posto in essere hanno colpito nel segno.
Lo dimostra lo zoccolo duro di appassionati,
che ne piange forte quella che almeno per ora
è una chiusura. Nemrod parlava di fede
e di coraggio, di lotta senza quartiere tra
il bene il male, mettendo in evidenza un mondo
di cose e di fatti occulti. Il tutto attraverso
personaggi strani ma credibili, eroi veri in
un mondo che comincia ad averne davvero bisogno,
dopo generazioni di antieroi e figure “borderline”.
Il più amato di tutti? Credo Padre Bernard
De Molay, un prete-ninja che grazie alla sua
abilità di combattimento e la sua spada
magica affronta demoni e mostri a viso aperto.
Come sempre dobbiamo fare noi con quelli che
ci portiamo dentro e con il male che ci circonda".
Crede che il fumetto
sia ancora in grado di creare nuovi miti, in
un'epoca in cui le nuove proposte durano lo
spazio di pochi mesi e gli altri media "distraggono"
i lettori? Come può nascere, oggi, un
nuovo Tex o un nuovo Diabolik?
"E' difficile, ma possibile.
Tutto dipende dall'humus culturale in cui le
storie nascono e vengono proposte. Oggi un mito
diventa tale solo se sa porsi come capofila,
come figura archetipica in grado di incarnare
quello che tutti sentono ma non sanno come dirlo.
Se sa dare voce ai bisogni delle masse, al loro
vivere e agire. L'era moderna ne ha trovato
uno in Dylan Dog, l'investigatore
dell'incubo e del rimosso nato non a caso negli
anni Ottanta, quando tutto era soltanto 'Milano
da bere' e business scintillante. Ma che ne
era degli incubi? Cosa dell'orrore? E del male
di vivere che nascondiamo sotto le nostre maschere?
Con Dylan, Tiziano Sclavi ha
saputo dar voce a tutto questo, e tre intere
generazioni ci si sono abbeverate al suono dei
Nirvana e delle liriche di Cobain.
"Per diventare mito,
un fumetto deve saper incarnare quel che c’è
di latente nell'immaginario collettivo. E dargli
corpo, forse anche anima. Tex
fu John Wayne e il sogno americano. Ha avuto
vita facile perché all'epoca la frontiera
americana era l'unica cosa su cui potersi confrontare,
sostenuta poi dal cinema e dalla televisione.
All’epoca l'Italia sognava l'America,
aveva bisogno di visioni semplici e manichee
che facessero da base per costruire il futuro
collettivo di un Paese devastato dalla guerra
ed arretrato dal punto di vista socio-culturale,
perlopiù dominato da un perbenismo che
negava al singolo ogni possibilità di
avventura. Tex era il buono
e giusto che a suon di cazzotti e sparatorie
faceva trionfare il bene. Il tutto in una vita
libera e selvaggia che la morale borghese rifiutava.
Non poteva non diventare il mito di tutti.
"Diabolik,
invece, rappresenta il fascino del male. La
trasgressione, in una società già
più ricca, ma anche cieca e perbenista,
in cui iniziava a serpeggiare la nemesi coscienziale
che si lega al benessere economico e sociale:
la noia. Ladro e assassino, Diabolik
fu il primo vero ribelle. Bello e maledetto,
sempre alle prese con una giustizia che non
è mai tale, che quando diventa ordine
costituito schiaccia il debole nel nome di prevaricazioni
attuate dai ricchi e dai potenti. Ecco, la creatura
delle sorelle Giussani è
un vero e proprio Robin Hood in calzamaglia.
Da lui derivano i vari giustizieri della notte,
i solitari che nella loro ambiguità hanno
saputo rispecchiare quel che tutti sentivano
ma non potevano dire".
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