I
"buoni" fumetti prima di tutto
Intervista a Roberto Recchioni
La critica l'ha definito la
"rock star" del fumetto italiano.
Negli anni, Roberto Recchioni
è riuscito a diventare uno degli autori
più amati. Il suo curriculum vanta sceneggiature
per alcuni dei principali personaggi dell'immaginario
di carta, tra cui serie a lungo termine (Diabolik,
Dylan Dog) ma anche storie
a cicli con una conclusione già segnata
(John Doe, David Murphy 911).
Cosa cambia per
chi scrive?
"Sono un autore che
bada fortemente al lato "produzione"
di ogni lavoro. Significa che, in genere, prima
di scrivere una sola parola di sceneggiatura
ho già pianificato una serie di elementi:
il mercato, il pubblico di riferimento, le finalità
di quello che sto scrivendo. Nello scrivere
una miniserie, per esempio, bisogna rispondere
a istanze diverse da quelle richieste da una
serie infinita, e questo influenza non solo
il modo in cui concepisco la storia nella sua
totalità, ma anche ogni singolo albo.
Le storie per una serie ongoing, che non prevede
una conclusione, hanno la necessità di
essere forti e complete anche se prese a sé.
Le storie che compongono una miniserie, invece,
non per forza devono "stare in piedi"
autonomamente, perché sono soltanto il
tassello di una storia più grande. E’
ovvio sia meglio che ogni episodio abbia una
propria completezza, ma non è una condizione
strettamente necessaria".
John Doe è una delle
poche novità che nell'ultimo decennio
è riuscita a sopravvivere nelle edicole,
uscendo mensilmente come una serie regolare
nonostante sia pensato e strutturato per cicli.
Prima dello stop, che è comunque temporaneo,
le pubblicazioni sono durate per circa sei anni
e mezzo. Di questi tempi è un record.
Pensa che il suo personaggio sia riuscito a
diventare una sorta di piccolo mito?
"No, non lo penso.
Non è un fumetto con un pubblico di massa,
lo dicono le cifre del venduto. Penso che John
Doe sia stato un piccolo momento importante
per l'editoria a fumetti italiana. Ha ridato
il via a un certo tipo di produzioni, ha saputo
usare un linguaggio diverso in un formato tradizionale
e ha proposto una serie di autori che hanno
avuto un grande successo tanto in Italia quanto
all'estero. E nella sua 'nicchia di mondo' ha
venduto bene per parecchio tempo. Un piccolo
pezzetto del fumetto italiano, nel nostro Paese
e nel mondo, passa per le pagine di John
Doe. E questa è la cosa importante.
Non che sia un presunto 'mito' o meno".
Che caratteristiche
deve avere un personaggio per diventare mito?
"Deve riuscire a essere
trasversale, a incontrare i gusti di tante fasce
di pubblico diverse tra loro. Deve arrivare
a quanta più gente possibile".
C'è ancora
spazio per nuovi Tex o Diabolik?
"E’ più
difficile, perché il pubblico di massa
non esiste più. Si è 'settorializzato',
ed è sempre più complesso creare
personaggi che sappiano catturare l'attenzione
di appassionati di varie estrazioni".
Le sue sceneggiature
per per Dylan Dog di casa Bonelli fanno
discutere, e "Mater Morbi" ha creato
un vero e proprio caso politico-mediatico toccando
trasversalmente temi come eutanasia e accanimento
terapeutico. Pensa sia l'attualità la
strada da percorrere per far entrare il fumetto
in un immaginario sempre meno smaliziato e sempre
meno capace di sorprendere?
"I media italiani tendono
a parlare di fumetti soltanto in due modi: trattandoli
con affettuosa accondiscendenza (ah, i bei
passatempi di una volta!) o demonizzandoli
(ah, quegli strumenti del demonio che influenzano
le menti deboli!). In questo contesto,
un fumetto popolare che tocchi temi di attualità
viene visto con sospetto perché dal loro
punto di vista non è 'normale' che un
fumetto (roba per bambini!) metta in
scena situazioni per adulti. Certo, è
ovvio che questa sia una strada per attirare
l'attenzione, ma non è l'unica. E soprattutto
non è detto che sia la più corretta.
Sono contrario all'allergia che il fumetto (in
particolare quello popolare e seriale) ha nei
confronti del mondo reale e dell'attualità.
Di contro, non sono nemmeno a favore della ricerca
del facile sensazionalismo. Il sistema migliore
per far parlare del fumetto è fare dei
buoni fumetti, che non stiano a preoccuparsi
troppo di non dare fastidio a nessuno ma che,
allo stesso tempo, non cerchino nemmeno la polemica
facile".
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