Joe Locke è una persona gentile, oltre ad essere, per la critica, il più grande vibrafonista jazz contemporaneo. Appena prima del concerto che lo scorso venerdì ha entusiasmato il pubblico del teatro Sanzio, Locke ha dedicato al Ducato il tempo di un’intervista. Si è presentato in italiano, con un forte accento americano: “Pia-ci-ere io mi chia-mou Giou-vanni”.
Joe Locke è un artista californiano poliedrico e pluripremiato: ha pubblicato 30 cd e partecipato a più di 50 registrazioni, ha suonato con grandissimi musicisti jazz (come Dizzie Gillespie, quando era ancora alle superiori) e fatto parte di diverse formazioni musicali.
Ha suonato al Sanzio, la prima di 11 tappe italiane del tour “Force of four”. Locke, al vibrafono, era accompagnato da Robert Rodriguez al piano, Ricardo Rodriguez al contrabbasso e Terreon Gully alla batteria.
Come è nato il progetto “Force of four”?
“Ho sentito Robert Rodriguez e Ricardo Rodriguez al jazz Lincoln center di New York. Suonavano in maniera emozionante e intelligente: mi sono detto che volevo assolutamente fare musica con loro. Un anno e mezzo fa abbiamo registrato, insieme al batterista Johnatan Blake, il cd “Force of four”. L’abbiamo chiamato così perché la forza della nostra musica è l’energia che nasce solo quando le persone si uniscono per creare qualcosa”.
Siete quattro musicisti originari di tre paesi diversi che hanno tradizioni musicali differenti. Cosa significa per la vostra musica?
“Ciascuno di noi contribuisce con qualcosa di suo. L’esperienza di Terreon, come la mia, è molto americana. Io sono anche il prodotto dei viaggi che ho fatto, dei luoghi dove ho suonato. Vivendo a New York poi sono sottoposto a mille influenze diverse. Robert, che è nato a New York, ha radici cubane e Ricardo viene dal Portorico. Mi pare che insieme formiamo una bella miscela”.
Pensa che il vibrafono nel jazz moderno sia meno importante rispetto a prima?
“È un grande momento per il vibrafono: oggi, diversamente dal passato, ci sono alcuni giovani musicisti molto promettenti che lo stanno rilanciando. Uno strumento poco importante nel jazz? No, direi proprio di no: storicamente, alcuni dei migliori improvvisatori jazz sono stati vibrafonisti. Penso a Milt Jackson, Bobby Hutcherson, Garry Burden. L’unico problema è che i grandi vibrafonisti non sono stati molti, mentre ad esempio ci sono stati tanti grandissimi sassofonisti e pianisti, moltissimi trombettisti”.
Perché ha scelto il vibrafono?
“Più che altro è il vibrafono ad aver scelto me. Quando avevo otto anni ho cominciato a suonare la batteria e il piano, a 13 sono passato al vibrafono, che per me è perfetto, perché è una via di mezzo tra il piano e la batteria: suoni melodie ma con le bacchette. Il vibrafono è arrivato quasi per caso, in realtà: mia mamma ne ha trovato uno in svendita, e me lo ha comperato. È stata un’ottima idea anche per lei, dato che è molto meno rumoroso della batteria”.
È mai stato qui? Conosce qualcosa di Urbino?
“È un ottimo inizio per il nostro tour italiano cominciare da una città – è una città vero? Non un paese? – così bella. Non so nulla di Urbino, sono arrivato neanche un’ora fa, ma ho appena scoperto che è rinascimentale. Bella architettura, bella atmosfera. Farò una passeggiata nel centro storico”.
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