E’ morto oggi Giovanni Bischi, sindaco di Fermignano dal 1970 al 1990 ed ex presidente dell’ANPI di Pesaro-Urbino. Aveva 91 anni.
Riproponiamo il suo ricordo del 25 aprile 1945 pubblicato sul “Ducato” numero 8 dell’aprile 2012
di Maria Sara Farci
“Ci fu come un risveglio di un popolo oppresso. E così si trovarono gomito a gomito preti e militari; intellettuali e operai; contadini e contadine di ogni tendenza politica: tutti si sono trovati d’accordo per combattere contro i tedeschi e i fascisti. Era un popolo oppresso che si risvegliava e questo risveglio è stato bello”, lo ricorda così Giovanni Bischi, 90 anni, uno dei pochi partigiani ancora in vita, il 25 aprile 1945, con le parole del suo amico Paolo Volponi.
Il giorno della liberazione Giovanni era già a casa.“Ero alla scuola ufficiali a Padova quando ci hanno catturato i tedeschi, in un momento di distrazione della sentinella che era sul carro armato, ho saltato il muro alto tre metri e sono scappato nelle campagne. Poi sono arrivato sino a Fermignano e subito mi sono schierato con i partigiani. Mio padre non si era mai iscritto al fascio, aveva sempre rifiutato l’idea di diventare fascista e quindi era difficile per me rimanere a casa a far nulla. Ho organizzato il fronte della gioventù, ma non mi fidavo di tutti”.
E aveva ragione. Erano gli ultimi mesi del 1944 quando il Triestino, un vero e proprio traditore, fa il nome di Giovanni ai tedeschi: “Mi hanno cercato e non mi hanno trovato, allora hanno preso mio padre. Doveva essere fucilato a Forlì, poi miracolosamente lo abbiamo salvato. Sono andato a parlare con il Federale e siccome sapevo che si conoscevano da quando erano bambini, gli ho detto: ‘Si ricorda di Italo? È un repubblicano, ma non ha mai dato fastidio a nessuno’. Lui mi ha risposto: ‘Tu non fare l’eroe, rifugiati nelle campagne e non farti più vedere. A tuo padre ci penso io’. E così è stato liberato insieme ad altri nove di Fermignano. Io mi sono ritirato come avevo promesso, sono stato in campagna per un po’ di tempo, a Ca’Marino a sei chilometri da Fermignano”.
In realtà, il Triestino non si limitò fare il nome di Bischi e dei suoi compagni, ma fece anche fucilare Don Giuseppe Rinaldini, che per miracolo rimase in vita: “Fu uno scampato nel vero senso della parola: gli hanno tolto trentasette pallottole e il colpo di grazia non l’ha ucciso. C’è stata l’omertà – continua Giovanni – nessuno ha parlato fino all’arrivo degli alleati. Poi ha dovuto subire un processo per riavere il suo nome, perché all’anagrafe di Urbania risultava deceduto”.
In quegli anni il timore di essere traditi era sempre dietro l’angolo. Basta ricordare l’episodio della fucilazione di Maria Keller, la ballerina ucraina, accusata dai partigiani del Montefeltro di essere una spia.
“Era una persona pericolosa e la paura era a fior di pelle. Se questa avesse riferito ai tedeschi dove eravamo sarebbe stata la nostra fine. Noi eravamo a Colle Antico, fra Pianello di Cagli e Umbertide. Era una spia condannata dal fascismo a 25 anni di carcere. Un giorno incontra il Prefetto di Perugia Rocchi, vede che è una bella ragazza e le dice: ‘vuoi uscire da questa prigione? Ti devi intromettere tra i partigiani e ci riferisci dove sono, perché abbiamo bisogno di fare un rastrellamento’. E così è entrata nel gruppo dei resistenti, non ha mai fatto la spia, ma alla fine è stata fucilata da tre partigiani di Cantiano”.
Giovanni, che all’epoca aveva 22 anni, non ha mai preso parte ai combattimenti, il suo compito era quello di fare da collegamento fra i vari nuclei: “Ci si ritrovava in campagna, nelle case dei contadini, e si organizzavano operazioni di sabotaggio alla ferrovia, una volta abbiamo fatto saltare un treno carico di munizioni. In realtà, io capii subito che se volevamo vincere, non dovevamo combattere con le armi, ma trovare un metodo più diplomatico. Ci siamo dati da fare per decidere noi il segretario comunale del fascio e avendolo cercato noi sapevamo che non ci avrebbe disturbato. Lo stesso accadde con il maresciallo dei carabinieri Antonio Boeri che poi divenne un ottimo partigiano. All’inizio ebbe un po’ di paura, perché pensò: ‘e se poi questi mi tradiscono?’ però con molta diplomazia, non ha mai fatto arrestare nessuno, ci ha fatto occupare la caserma senza colpo ferire e poi è diventato uno di noi”.
Giovanni ci racconta tutto questo nella sua poltrona con il braccio fasciato. In vita sua non ha mai visto un ospedale, ma la gioia di raccontare la sua esperienza al fronte gli fa dimenticare che non è più un ragazzino e così gli scalini bagnati sulla soglia di casa lo tradiscono. Si rompe il braccio proprio davanti ai nostri occhi, ma lui non cede: ha sentito questa intervista come un dovere, il dovere di mantenere viva, anno dopo anno, quella memoria.