PESARO – Quando il cancello di ferro, sotto il ponte con la scritta ‘esercito’ a grandi lettere, si è aperto al nostro passaggio, ci aspettavamo di trovare un ambiente estraneo e profondamente diverso da quello della nostra scuola di giornalismo.
Ci aspettavamo di trovare una sorta di sergente Hartman che nel film Full Metal Jacket svilisce e umilia i suoi soldati. In realtà abbiamo trovato dei colleghi.
Il 28° Reggimento Pavia di Pesaro è l’unità dell’esercito dove i militari si occupano di stabilire una comunicazione diretta con la popolazione dei luoghi in situazioni di conflitto armato, ad esempio in Libano e in Afghanistan. Come i giornalisti, questi soldati producono video informativi trasmessi su emittenti televisive locali, gestiscono stazioni radio e inviano comunicati, ma in luoghi dove le guerre politico-religiose rendono instabili gli equilibri sociali, la comunicazione è più importante e delicata del normale: una parola fuori posto rischia di inasprire l’odio e quindi il conflitto.
Sapere cosa dire in situazioni critiche e pericolose non è mai facile, neanche se sei un generale esperto: da un lato c’è il pubblico che chiede spiegazioni, vuole capire, sapere perché i nostri soldati sono lì e se sono al sicuro, dall’altra ci sono le autorità che dettano la linea che non può essere contraddetta.
Proprio qui sta il motivo per il quale ci troviamo al di là della barricata: ‘addestrare’ uno di questi generali che presto partirà per il Libano. La sua missione, adesso è quella di perfezionare le tecniche per relazionarsi con il pubblico, soprattutto in situazioni critiche.
Sorpassiamo il cancello e veniamo portati in una stanza vicino alla sala radio. Ad aspettarci c’è un maggiore dei Bersaglieri e addetto stampa dello Stato Maggiore dell’Esercito italiano, che ci spiega cosa fare.
L’esercitazione consiste in tre interviste, una telefonica, una radiofonica e una televisiva. Dopo un breve aggiornamento sulla situazione in Libano, buttiamo giù i tre ipotetici scenari e prepariamo delle domande il più possibile scomode per il generale.
Il nostro compito è di metterlo in difficoltà evidenziando gli elementi critici e oscuri di questi scenari, già di per sé molto rischiosi per il contingente. Un lavoro delicato per un uomo che ha la responsabilità di 1.500 soldati italiani più il coordinamento degli altri caschi blu della missione.
In una giornata e mezza abbiamo registrato le interviste e realizzato servizi radio e tv di un minuto mostrando al generale come sia possibile – per un giornalista in malafede – estrapolare una frase e decontestualizzarla a proprio piacimento. Il futuro comandante del contingente è riuscito a evitare le trappole che gli abbiamo preparato, cadendo solo in qualche piccolo tranello. L’esito dell’esame è stato positivo; noi ne siamo usciti arricchiti ma felici di aver messo in pratica gli insegnamenti della scuola di giornalismo e di aver imparato come i ruoli del giornalista e del militare addetto alla comunicazione siano in fondo simili, destinati a incrociarsi senza incontrarsi mai.
Le parole sono importanti, soprattutto quando una di queste, se messa fuori posto, può fare la differenza tra la vita e la morte.