URBINO – “Maltrattando la cultura non perdiamo una merce, perdiamo un valore, perché la bellezza ha bisogno di manutenzione. Il Made in Italy è un concetto ipocrita, non possiamo vivere di rendita”. Ne è convinto Marino Sinibaldi, direttore di Radio3, critico letterario, presidente del Teatro di Roma, ospite del Festival di giornalismo di Urbino. Se la conoscenza non è propriamente una merce, ci si chiede se il mercante contemporaneo, oltre a essere un agente di commercio, sia ancora, come accadeva durante il Rinascimento, un mediatore culturale.
“I beni di scambio sono di diversa natura – sostiene Sinibaldi – e tra questi rientrano l’informazione, la cultura, la conoscenza. Ormai l’accesso a questi ‘prodotti’ è libero ed è per questo che oggi abbiamo bisogno di persone che sappiano scovare i luoghi inosservati, indicare le relazioni tra le cose e che si assumano la responsabilità di dare giudizi”.
Sta parlando dei giornalisti?
“Penso che giornalista sia un termine superato, se lo intendiamo come mediatore, filtro tra me e la notizia, tra me e i contenuti. È finita l’era del giornalista come custode di un bene riservato. I giornalisti dovrebbero facilitare l’accesso all’informazione, renderlo più libero e gratuito. Bisogna nutrire l’informazione di contenuti e connessioni, indicare la diversità e la qualità delle notizie. Questo dovrebbero fare i giornalisti se hanno a cuore la libertà dell’informazione”.
Crolli a Pompei, musei spesso vuoti, turisti in calo, botteghe artigiane con le saracinesche abbassate, grandi firme della moda e del settore automobilistico italiane fuori dai confini nazionali. È giusto continuare a parlare di Made in Italy?
“Questo è un marchio ipocrita e quantomeno equivoco. Inoltre, trasformare in un marchio quella che è una grande tradizione, dell’arte, della qualità italiana, non mi sembra sia servito a molto. Aver inventato il Made in Italy non ha salvato Pompei o altri aspetti della nostra cultura. Li ha resi solo appetibili a livello commerciale, senza curarli. Le mura di Urbino non sono un Made in Italy, sono i luoghi che definiscono il modo di stare al mondo degli urbinati. Se li abbattiamo non perdiamo una merce, perdiamo un valore”.
Insomma, l’”italianità” è una categoria priva di senso
“Made in Italy, italianità, sono termini che si possono usare, basta che non diventino delle coperture ipocrite. L’importante è che dietro al culto commerciale o retorico non si nascondano disattenzione e distruzione”.
L’Italia, economicamente parlando, non gode di buona salute. Succede anche perché non vengono adeguatamente promosse le nostre eccellenze?
“Basta guardare al declino del nostro turismo. Tutti sognano e immaginano l’Italia come un luogo in cui la bellezza naturale e storica si è depositata in modo peculiare, però, allo stesso tempo, lo conoscono come un Paese dove la bellezza e i turisti stessi vengono maltrattati. All’origine di questo disastro economico e culturale c’è la disattenzione e la rapacità”.
Ci si ciba delle eccellenze del passato senza immaginare nuovi mondi possibili. Campare di rendita suona male e difficilmente lo si ammette. È d’accordo?
“Siamo degli sfruttatori falliti. Vorremmo campare di rendita, ma di rendita non si campa. La bellezza ha bisogno di manutenzione continua, di investimenti, di essere reinventata. La bellezza va vissuta come un elemento della propria vita perché se invece la si vede solo come un bene da esporre per trarne profitto dopo un po’ decade, si degrada. Smette di essere un elemento di identità e diventa un elemento di corruzione”.
E se fosse questa passività la nostra grande bellezza?
“La passività non è mai bella perché per conservare non bisogna essere passivi. Dobbiamo essere attivi, costruire le condizioni non solo per la conservazione, ma anche per la comprensione. Noi abbiamo distrutto la nostra bellezza perché non ne abbiamo capito il valore”.
Quindi siamo degli “sfruttatori falliti”, disoccupati. E i giovani scappano dal Bel Paese perché qui con ricerca e cultura difficilmente si mangia.
“La fuga dei cervelli potrebbe rientrare nella normalità dei flussi di idee e di valori se ci fossero altrettanti giovani interessati a venire in Italia. Il problema vero è che noi non attiriamo più nessuno, nemmeno gli studiosi d’arte. In questo modo ci impoveriamo sempre più e i ragazzi sono costretti ad andar via. Se non si possono esaudire i propri desideri in un Paese bisogna andare in un altro. Abbandonare i sogni: quella è la sconfitta peggiore”.