PERUGIA – Anche nel 2015 le condizioni indispensabili sono sempre quelle: passione, uscire dalla redazione, parlare con le persone per trovare notizie e saper innovare. Ma poi c’è la necessità di una “cultura digitale”, da coltivare e fare propria, come ultimo, indispensabile, pilastro per chi vuole diventare giornalista. E per chi il giornalismo lo insegna. Perché, come spiega Mario Tedeschini Lalli, vice responsabile innovazione e sviluppo per il gruppo editoriale L’Espresso, il mondo in cui viviamo è un mondo digitale.
Se esistesse un mercato per un giornale scritto con la penna d’oca su una pergamena dovremmo sfruttarlo, ma chi al giorno d’oggi scrivesse con la penna d’oca su una pergamena dovrebbe comunque essere un “giornalista digitale”, cioè un giornalista che vive e comprende l’universo nel quale vive, che è – appunto – digitale.
Nel primo incontro sul tema al Festival del giornalismo di Perugia, “Insegnare giornalismo oggi”, si è approfondito questo tema. Mindy McAdams, docente di giornalismo digitale all’università della Florida, ha introdotto all’interno del percorso per diventare giornalisti un corso di coding. Non di quelli insegnati agli informatici, perché il fine non è programmare un sito, ma comprendere i linguaggi di di base, capire la lingua che parlano le macchine e saperli maneggiare. “Molti ragazzi non si accorgono di poter essere bravi nel coding – ha detto la professoressa americana – dobbiamo promuovere l’idea che chi vuole fare il giornalista non debba spaventarsi di fronte a questa materia”. L’importante non è dare però competenze specifiche ma insegnare il significato delle tecnologie dalle quali si è circondati.
Una consapevolezza che richiede un enorme sforzo: capire l’ecologia del mondo digitale vivendoci all’interno ma allo stesso tempo sapendosi astrarre da questo e comprenderne il funzionamento. Un concetto ben espresso da Marc Cooper, professore all’University of Southern California, durante l’incontro “Come insegnare il giornalismo oggi “. Non si deve essere sempre aggiornati sull’ultima app uscita ma padroneggiarne la filosofia che le sta dietro. Infatti ha sottolineato come lui stesso sappia in realtà pochissimo di software ed applicazioni, ma conoscendone a fondo il modo in cui funzionano è in grado di indirizzare precisamente il proprio messaggio ed inserirlo nel flusso di informazioni. Un pensiero analogo a quello di Juan Luis Manfredi, moderatore del panel e professore di Comunicazione politica all’università di Castiglia-La Mancia. Ai suoi alunni lui non insegna ad utilizzare un programma o un’applicazione, visto che possono cambiare in continuazione, ma il metodo di lavoro per costruire tramite quelle un appropriato Business plan per la propria attività giornalistica.
In Italia però la cultura digitale è ancora carente. “Le università italiane dovrebbero inserire corsi dedicati solo a questo – sostiene Tedeschini Lalli – parli di cultura digitale a ragazzi ma leggi nei loro occhi che non ti stanno seguendo nel tuo discorso. Superare il gap di cultura digitale in Italia è oggi una priorità. L’alternativa è dolorosa: emigrare. “I ragazzi che sono o sono stati miei studenti vengono a chiedermi consigli per il lavoro – ha continuato Tedeschini Lalli ma io non posso dire loro semplicemente di andare a Londra. Il mio problema come cittadino italiano non è solo cosa ne sarà del giornalismo, ma soprattutto cosa ne sarà di questo Paese”.
Di diverso avviso è stato invece George Brock, professore di giornalismo alla City University di Londra. “L’unica vera possibilità per superare questa arretratezza è andare in un’università dove la cultura digitale sia al centro dell’attenzione – sostiene l’accademico britannico – solo svuotando l’Italia dei suoi giovani giornalisti ci potrà essere un vero cambiamento”.
Digitale a parte le fondamenta del giornalismo rimangono quelle del passato. Connettersi ad una storia, uscire fuori dalle redazione e raccontare quello che si vede. Una massima di Ken Harper, professore alla Syracuse University. La collaborazione, il community first, è invece il nodo cruciale dell’intervento di Andrew DeVigal, un tempo multimedia editor del New York Times. La vera rivoluzione sarebbe imparare ad ascoltare, per dare voce alle persone che ci troviamo vicino. Ancora più idealista è Marc Cooper. Il vero segreto rimane comunque la passione, unico vero motore per chiunque voglia approcciarsi al mondo del giornalismo.
“In Italia penso che le scuole di giornalismo non siano così utili, ho dei dubbi sul loro futuro” afferma lo stesso Cooper su una delle questioni che hanno attraversato il dibattito. Altri sono meno drastici. Sia Brock che McAdams invece hanno sostenuto la necessità di riformare i corsi già esistenti piuttosto di creare di altri nuovi.Un processo di evoluzione che andrebbe applicato a tutto il mondo del giornalismo.