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Un giornalista a distribuire cuffie e cioccolatini: il festival vissuto tra i volontari della logistica

di    -    Pubblicato il 19/04/2015                 
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Il nostro Claudio intento a sistemare le cuffie per la traduzione simultanea

Il nostro Claudio intento a sistemare le cuffie per la traduzione simultanea

PERUGIA – “Cosa ci vai a fare a logistics, con la ‘s’?”. Me l’avranno chiesto tutti i miei colleghi, da quando ho deciso di vivere l’esperienza del Festival del giornalismo 2015 da addetto ai lavori. Un’attività magari poco intellettuale, ma indispensabile per il buon funzionamento di tutto l’evento.

La mia giornata tipo da volontario ha inizio relativamente presto. Sveglia alle otto, doccia e via all’Hotel Brufani, il quartier generale del festival. L’hotel domina lo spiazzo antistante il belvedere della città di Perugia. È un cinque stelle L, di quegli hotel che difficilmente avrei avuto modo di vivere così intensamente per tanti giorni, non fosse stato per il festival. Ha quell’aria da hotel che vive di occasioni come queste, anzi: che vive davvero solo in occasioni come queste. Alcuni membri dello staff me l’hanno confermato, fra uno sbuffo e l’altro per il carico di lavoro extra cui devono far fronte per rendere possibile un evento così impegnativo.

Nei giorni del Festival internazionale del giornalismo le sale del Brufani si popolano di ragazzi, di giornalisti, di stagisti, turisti e curiosi fin dalla mattina. Le conferenze iniziano infatti alle nove e capita che siano affollate già le prime. Spesso sono in lingua inglese, per cui al volontario di turno toccherà distribuire le cuffie che permetteranno a chi vorrà prendere parte ai vari panel, gli incontri della giornata, di avere la traduzione simultanea dell’evento. A noi il compito di assegnarle, dietro consegna di un documento.

Per me ha significato imparare che il tesserino per i giornalisti, in un festival di giornalismo, non vale come documento di identità; realizzare che in molti sono disposti a lasciarti la carta di credito senza alcun problema, pur di avere la propria cuffia; constatare che la mia vecchia carta d’identità, lisa e stracciata ormai da anni, è come nuova rispetto a quella di tanti; che davvero pochi giornalisti capiscono l’inglese. Che le conferenze sui media in Russia e sulla propaganda dell’Isis tirano più di un carro di buoi, a giudicare da quanti son rimasti senza traduzione perché le cuffie erano finite. E che una bottiglia d’acqua naturale sul tavolo davanti all’ingresso di sala Raffaello è sufficiente perché qualcuno possa pensare di chiederti: “Dell’acqua frizzante, per favore. Magari fredda di frigorifero”.

I panel prevedono spesso il coinvolgimento del pubblico, e spesso mi sono ritrovato a dare il microfono a quanti volevano fare domande. Stefano, il responsabile della sala Raffaello, dice che ho un talento naturale nel dare i microfoni; dice che sembra l’abbia sempre fatto. E io sono soddisfatto, anche se forse non era un complimento.

Ma il crocevia del Brufani è la sala dell’Infopoint, da cui i giornalisti passano per un accredito, gli affamati per un pranzo al sacco, gli speakers per avere i buoni pasto e i rimborsi da Francesca Cimmino, che tutto vede e provvede. Ci ho visto passare moltissimi fra i più noti giornalisti italiani e non solo. Spesso molto disponibili, anche se non tutti. L’impressione è che si conoscano tutti da secoli, e che molti siano anche amici ma come quei parenti che si frequentano solo alle feste comandate. Ho visto Marco Travaglio salutare affettuosamente uno stagista che per il Fatto Quotidiano ha lavorato due mesi, anni fa. Ho dato l’accredito a un giornalista di cui non avevo mai visto il viso, ma il cui nome mi è sempre stato familiare. E ho scoperto che quel nome l’ho sempre pronunciato con l’accento sulla vocale sbagliata: Alberto Puliàfito.

All’info-point ho dispensato chili di Baci Perugina e di Kit Kat, che Fulvio Abbate ha esclamato essere “meglio di una scopata”. Ho messo a durissima prova il mio inglese arrugginito dando indicazioni che in genere consistevano in: “The restrooms are over there, on the left”, che mi esce sempre bene.

Certo, qualcuno potrebbe avermi visto nella hall a caricare il mio smartphone nella -preziosa – colonnina Tim per più del tempo necessario. Ma è perché le batterie del mio cellulare durano il tempo di un panel, non perché effettivamente avessi troppo tempo libero.

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