URBINO – Siamo circondati da “bimbiminkia”, “hipster” e “hashtag”. Bombardati da parole di cui abusiamo (e veniamo abusati) quotidianamente. L’unico modo per liberarcene è continuare a ripeterle, a patto di comprenderne il significato. La riflessione di Luca Mastrantonio, scrittore e giornalista del Corriere della Sera è partita proprio da qui.
Giocando con il pubblico del Festival del giornalismo culturale a una specie di ‘indovina la parola’ il giornalista ha spiegato alcune voci presenti nel suo ultimo libro Pazzesco!Dizionario ragionato dell’italiano esagerato. “Dito medio”, “hashtag”, “hipster” sono solo alcuni degli esempi di parole utilizzate forse senza troppa consapevolezza. Ma trova spazio anche il famigerato “stai sereno” rivolto in forma di tweet da Matteo Renzi a Enrico Letta. Il Ducato lo ha intervistato a margine dell’evento al teatro Sanzio.
@matteorenzi lancia #enricostaisereno a #leinvasioni
— Le Invasioni (@leinvasioni) 17 Gennaio 2014
Molte voci sono mutuate dalla politica: “rottamazione”, “scalabilità”, “a sua insaputa” ecc. Quanto il linguaggio politico influenza il discorso quotidiano? È la politica a imporre questi termini, o sono questi a essere abusati dalla popolazione?
La politica è il potere e il potere è interessato alle forme di controllo. La lingua è la migliore forma di controllo del pensiero, come ci insegnava George Orwell. Dall’Inghilterra viene una delle parole più ‘violentate’ che è meritocrazia. Meritocrazia è un romanzo distopico di Michael Young che negli anni ’50 presentava un mondo governato dal merito calcolato solo sulla base del Quoziente intellettivo, che non teneva conto delle diverse provenienze sociali e dell’impegno anche in base alla lotteria naturale dell’ingegno. In questo senso la meritocrazia è un incubo. Prima Tony Blair e poi anche in Italia, sia i partiti di sinistra che quelli di destra, hanno inteso la meritocrazia come un sogno, tanto che Young scrisse un articolo molto violento sul Guardian contro Blair, accusandolo di aver violentato e tradito il suo libro che paventava invece un incubo. Il potere per prima cosa cerca di agire sulle menti delle persone attraverso le parole.
Certi intellettuali, che lei ha definito “del piffero” nel suo penultimo libro, possono creare delle correnti di opinione che portano all’abuso di alcuni termini?
Molti intellettuali, soprattutto in una società post ideologica, hanno bisogno di funzionare bene sui mezzi di comunicazione. La parola è un mezzo di comunicazione e loro spesso la usano in modo provocatorio, desemantizzato, enfatico. Di questo sono responsabili i politici, gli intellettuali e i giornalisti. Ma la novità del “linguaggio pazzesco” è la gente che utilizza questo linguaggio, vuole esserne abusata pur di essere contemporanea, up to date. A volte serve anche per fare un make up della realtà. Quindi un’attività come una pizzeria viene definita una ‘start up nel settore del food’. Le parole pazzesche servono anche a sognare di essere migliori di quello che siamo.
Con l’espressione “intellettuali del piffero” lei ha indicato anche quegli intellettuali che pur di ritagliarsi uno spazio hanno assunto posizioni ideologiche e politiche di convenienza. C’è un ruolo per un nuovo tipo di intellettuale che superi i vari Eco, Vattimo, Saviano?
Roberto Saviano è bravissimo a riposizionarsi su vecchi e nuovi media, usa molto i social network ma non disdegna la tv generalista, il suo intervento da Maria de Filippi è abbastanza clamoroso ed epocale. Lui starà sempre avanti perché ha un grande istinto comunicativo e forse anche molte cose da dire. Credo che a cambiare non siano stati gli intellettuali, ma gli ambienti in cui gli intellettuali sono costretti a verificare quello che dicono, perché c’è un pubblico più attento grazie ai social network. Forse siamo tutti un po’ più attrezzati intellettualmente.
Esiste la cultura al di fuori della carta stampata?
Assolutamente si. Karl Kraus, un grande aforista, diceva sempre che si vede la cultura di una persona quando la applica in ambiti che non sono strettamente culturali. Bisogna sempre diffidare da chi parla di cultura ma non la fa.
Quali sono le potenzialità del giornalismo culturale con i nuovi mezzi, per esempio Twitter?
Le possibilità di Twitter sono quelle di brandizzare il proprio punto di vista, le proprie opinioni. L’aspetto importante è sempre fondarle su dei dati, dei numeri e dei fatti perché il controllo da parte dell’opinione pubblica è più alto. Sui social media c’è la possibilità di affermazione personale per chi vuole costruire un percorso critico, ragionato e aggiornato.
Qual è il consiglio per un giovane giornalista che vuole occuparsi di cultura?
Conoscere i contesti in cui viene fatta cultura, inventarsene di nuovi e pensare a cose innovative e originali, anche al di fuori dei giornali. L’importante è che ci siano delle comunità reali che si rispecchino nelle comunità online. Di spazio per iniziative personali ce n’è ancora perché siamo in un momento in cui specialmente le nuove generazioni devono riscrivere il futuro.
Foto di Jacopo Salvadori