di VIRGINIA CAMERIERI
Dalla fine del 2016 l’Umbria non è autonoma nella gestione dei rifiuti: un’indagine giudiziaria ha messo in luce un sistema quanto meno inefficiente. I vari enti si rimbalzano le responsabilità e si attende l’inizio del processo penale. Intanto c’è chi da questa crisi trae un vantaggio economico. Il “bottino” è di otto milioni di euro. Tanto sono costati finora i trasporti fuori regione. E il rischio è che a pagare, alla fine, siano i cittadini.
L’OMBRA DELLA MAFIA – IL RE DELLA MONNEZZA – UN DIECI PER CENTO CHE CONTA
IL COMMISSARIAMENTO – UN NUOVO SOCIO – “SPAZZATURA D’ORO CONNECTION”
LA MONTAGNA DI PIETRAMELINA – IL “CASO PANNOLINI” – IL MANCATO CONTROLLO
L’ASSO PIGLIATUTTO – IL VIAGGIO DEI RIFIUTI – LA TASSA SUI RIFIUTI AUMENTA
I camion escono ininterrottamente dal cuore verde d’Italia appesantiti da ciò che l’Umbria non è più in grado di gestire da sola. È dalla fine del 2016 che tonnellate di rifiuti vengono esportate, in Emilia Romagna prima e nelle Marche poi, a causa del blocco degli impianti seguito all’inchiesta “Spazzatura d’oro connection”. Sembrava un regolare movimento di rifiuti, ma non è mancata la sorpresa: questo via vai è costato finora otto milioni di euro. Il rischio, molto concreto, è che a pagare questi milioni non previsti, perciò definiti extracosti, alla fine siano i cittadini umbri. Di certo il trasporto e il trattamento fuori regione rappresentano un extraguadagno per chi se ne occupa: il Gruppo Paoletti, nuovo socio di maggioranza, al 55 per cento, di Gesenu, azienda leader nella regione nella gestione dei rifiuti posseduta per l’altro 45 per cento dal Comune di Perugia.
L’ombra della mafia
La via dei rifiuti umbri passa per un’interdittiva antimafia, una misura preventiva con la quale a un’azienda viene sospesa la fiducia da parte delle istituzioni. Emessa nell’ottobre 2015 dalla prefettura di Perugia nei confronti del Gruppo Gesenu ha avuto l’effetto immediato di provocare una paralisi industriale. Gesenu, Gestione servizi nettezza urbana, si occupa da oltre trent’anni della raccolta e della gestione dei rifiuti in più comuni dell’Umbria, compreso quello di Perugia che ha il più alto numero di abitanti della regione. È presente con società controllate anche nel Lazio, in Sardegna e Sicilia, in Egitto.
Il provvedimento, che ha coinvolto a macchia d’olio le imprese del Gruppo, si fondava su “sussistenti elementi di natura indiziaria tali da far ritenere la società esposta al rischio di infiltrazioni e condizionamento mafiosi”, come è riportato nella relazione allegata al bilancio 2015 della stessa Gesenu. Tra i fattori considerati è la presenza a Catania di dipendenti associati alla criminalità organizzata, in particolare alla cosca Santapaola–Ercolano. Altro elemento il capitale privato dell’azienda facente capo a Manlio Cerroni e a Carlo Rosario Noto La Diega. I tentativi di infiltrazione mafiosa individuati, scrive nel merito la prefettura, “sono riconducibili a soggetti che nella compagine di impresa sono titolari degli assetti proprietari”.
All’epoca dei fatti Gesenu era partecipata per il 45 per cento dalla A. Cecchini Srl, del Gruppo Sorain Cecchini di Manlio Cerroni, e per il 10 per cento dall’ingegnere Carlo Noto La Diega. Il rimanente 45 per cento era del Comune di Perugia.
L’arrivo dell’interdittiva antimafia scuote opinione pubblica e istituzioni. Preoccupazione viene espressa dalla presidente della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi che a Perugia afferma davanti alla stampa: “La normativa antimafia applicata a Gesenu consente di sostituirsi alle parti presunte malate, senza interrompere i servizi. Come commissione riteniamo che si debba fare un’indagine seria sulla composizione della parte privata di questa società che ha ramificazioni anche in altre province, come in Sicilia dove la presenza mafiosa è consolidata e strutturale. La parte pubblica si deve interrogare, perché ci troviamo di fronte a una società a capitale misto nella quale il pubblico non è maggioritario, ma che tuttavia non può permettersi partner che hanno una configurazione così poco trasparente”.
Il re della monnezza
Autodefinitosi il re della monnezza, Manlio Cerroni, a cui era riconducibile il 45 per cento di Gesenu, ha costruito un impero con i rifiuti. Proprietario della discarica più grande d’Europa, la romana Malagrotta, a gennaio 2014 viene arrestato per reati ambientali e associazione a delinquere finalizzata al traffico dei rifiuti nel Lazio. Nell’immaginario collettivo Malagrotta è ormai associata a un buco nero nel quale confluivano rifiuti e interessi non legittimi. Le accuse cadute come frecce su Manlio Cerroni è lui stesso a riportarle nel proprio omonimo sito nel quale pubblica anche la sua memoria difensiva.
Quando viene arrestato un’interdittiva antimafia colpisce alcune delle sue società: Colari, Officine Malagrotta, E. Giovi Srl. Provvedimenti, questi, che si ripercuotono come uno tsunami in Umbria. Gesenu, però, prende tempestivamente le distanze: “L’inchiesta della Procura di Roma nei confronti dell’avvocato Manlio Cerroni – scrive l’azienda in un comunicato – non coinvolge minimamente la società Gesenu SpA che è partecipata da una società Gruppo Sorain Cecchini, avente come socio di riferimento la famiglia Cerroni”. Nella conferenza stampa organizzata dal consiglio di amministrazione, Gesenu dichiara pertanto la propria indipendenza finanziaria, operativa e gestionale dall’avvocato novantenne, eppure il nome di Cerroni era ben rappresentato dalla figlia Monica, ancora in carica nello stesso consiglio che lo ha rinnegato. Un re bandito dal suo regno.
A febbraio 2018 il pm Alberto Galanti ha chiuso la seconda inchiesta per il maxi procedimento riferito alla discarica di Malagrotta. Le accuse sono di associazione a delinquere, traffico illecito di rifiuti, frode e falso sulla scia della precedente inchiesta del 2014 che aveva previsto anche l’arresto del re della monnezza. Il processo si è tenuto a marzo. Nella requisitoria il pm ha chiesto la condanna a sei anni di carcere per Cerroni.
Un dieci per cento che conta
Il 10 per cento delle azioni posseduto da Carlo Rosario Noto La Diega era l’ago della bilancia a favore della parte privata. Amministratore delegato di Gesenu dal 1983 al 2013, poi solo consigliere, l’ingegner Noto La Diega è stato promotore degli investimenti in Sicilia e in Egitto. Una strategia di espansione dei servizi ritenuta azzardata a seguito del mancato pagamento di 53 milioni di euro da parte di Comuni siciliani e della sofferenza finanziaria causata dal lento e difficoltoso recupero dei crediti. Con il sopraggiungere della primavera araba sono iniziati anche i problemi all’estero. A giugno 2015, in qualità di presidente di Viterbo Ambiente, nella quale Gesenu ha il 51 per cento, Noto La Diega viene arrestato per presunti reati nella gestione dei rifiuti. Accuse subito venute meno con la revoca dei domiciliari in quanto nell’interrogatorio di garanzia non è stato trovato alcun elemento di riscontro con il quadro indiziario. L’avvocato difensore di Noto La Diega in un comunicato: “L’Autorità giudiziaria si era resa conto che la misura cautelare non aveva alcuna base di legittimazione. In pratica si era trattato di un errore”. Filoni di indagini e situazioni comunque non favorevoli per l’immagine complessiva del Gruppo.
Il commissariamento
Con l’arrivo dell’interdittiva antimafia gli azionisti storici di Gesenu vengono sostituiti con due amministratori esterni fiduciari. Inoltre, vengono incaricati dalla prefettura altri professionisti in veste di commissari straordinari per la temporanea gestione dei contratti in essere, con poteri e funzioni proprie degli organi amministrativi. L’incarico per loro è di sei mesi, poi prorogato.
Non essendo stati comunicati dalla prefettura, contemporaneamente ai nomi, i compensi previsti per i tre commissari designati, nel bilancio di previsione 2015 di Gesenu vengono accantonati per questa voce di spesa solo 100.000 euro. Il ricorso dell’azienda del 2016 rivolto alla prefettura di Perugia, al Ministero dell’Interno, all’Anac, Associazione nazionale anticorruzione, e contro gli stessi commissari, lascia intendere che la nota spese sia alla fine risultata decisamente più elevata. Una cifra sulla quale rimane un silenzio rotto solo dall’associazione no profit cittadinanzattiva Umbria, che considera tali compensi a carico dell’impresa di servizio pubblico un ulteriore onere a discapito dei cittadini. Come a dire: dal danno alla beffa.
La gestione straordinaria dei commissari nel Gruppo Gesenu termina con la comunicazione della prefettura dell’8 novembre 2016 nella quale si afferma che non esistono più i presupposti all’origine del provvedimento di interdittiva. Questo dopo la consegna delle chiavi di casa Gesenu al nuovo azionista, una società del Gruppo Paoletti.
Un nuovo socio
Il finale della lunga storia tra Gesenu e i suoi padri ispiratori è scritto nel comunicato a firma di Manlio Cerroni (A. Cecchini Srl) e di Rosario Carlo Noto la Diega con il quale si annuncia al Comune di Perugia la cessione delle azioni alla Socesfin srl, holding del Gruppo Paoletti. Dopo decine di anni, poche parole sembrano chiudere un’epoca.
La cessione delle quote avviene a maggio 2016. Una sostituzione presentata come rottura con il passato, garanzia della ripresa e di una rinnovata affidabilità. Nella ricerca di un partner avulso dal pianeta Gesenu, la scelta è però caduta su un soggetto che ha già rapporti con l’azienda. È dal 2012, infatti, che Gesenu e Paoletti Ecologia, una società dell’omonimo Gruppo, operano in associazione d’impresa nel comune di Fiumicino. Basta cliccare sul sito fiumicinodifferenzia.it per verificare il legame di lungo corso. Una conoscenza reciproca risultata certo importante nell’agevolare il passaggio di consegne. Il costo del subentro è di circa 12 milioni di euro. Il Comune di Perugia tira un sospiro di sollievo, considerando il cambio di proprietà un passo decisivo, come poi è stato, per il superamento dell’interdittiva. Ma la strada era ancora in salita.
Spazzatura d’oro Connection
Nel 2016 la gestione dei rifiuti in Umbria era ancora divisa in quattro aree territoriali, gli Ati, Ambiti territoriali integrati, oggi raggruppati e controllati da un unico ente, l’Auri, Autorità umbra per rifiuti e idrico.Ogni area formata da più Comuni era definita in un documento di programmazione, il piano d’Ambito, redatto con la partecipazione delle amministrazioni locali. Per i 24 Comuni dell’Ati n. 2 il documento testimoniava il buono stato di salute del settore. Pagine rassicuranti che si sono poi scontrate con la realtà.
Dopo anni di appostamenti, pedinamenti e perquisizioni, a seguito di denunce ricevute nel 2013, il 30 novembre 2016 il Corpo forestale dello Stato di Perugia esegue arresti e sequestri. La Guardia di Finanza, in contemporanea, procede ad accertamenti su possibili profitti illeciti pari a 27 milioni di euro. Spazzatura d’oro connection, il nome dato all’operazione, rivela una presunta truffa milionaria per attività e servizi falsamente forniti proprio ai danni dei 24 Comuni. Gli effetti dell’inchiesta sono tali da mettere in discussione la credibilità dei gestori del servizio di igiene urbana coinvolti.
Il Comune di Perugia si trincera dietro una nota stringata con la quale esprime la piena fiducia nell’operato della magistratura e la massima attenzione affinché “se fossero comprovate irregolarità in merito, i cittadini vengano tutelati e possano recuperare i maggiori costi sostenuti”. Al tempo stesso, l’amministrazione comunale ribadisce la costante opera di verifica, controllo e rinnovamento della società Gesenu, che ha portato ad avere un nuovo socio privato e un nuovo consiglio di amministrazione. In sostanza viene sbattuta la porta in faccia a tutti i soggetti coinvolti nell’inchiesta ai vari livelli e che solo il giorno prima governavano l’impresa.
I reati contestati sono associazione a delinquere, traffico e gestione illecita di rifiuti, truffa, frode nel commercio e in pubbliche forniture, inquinamento e violazioni alle prescrizioni ambientali. Il bilancio dell’operazione vede indagate 14 persone e l’arresto con i domiciliari per alcuni mesi del vertice direttivo dell’azienda Gesenu, l’ingegnere Giuseppe Sassaroli, da sempre capitano indiscusso al timone dell’intero Gruppo, e il sequestro dell’impianto di rifiuti di Borgogiglione dopo il precedente stop imposto a quello di Pietramelina. Direttore generale dal 1984 Sassaroli ha rivestito ruoli di amministrazione anche nelle altre aziende controllate. Una figura di riferimento che reggeva le fondamenta del palazzo Gesenu. Gli arresti domiciliari sono stati revocati nel breve periodo e alcune ipotesi di reato in materia tributaria e associazione a delinquere sono già venute meno. In un comunicato dell’avvocato difensore di Sassaroli si legge: “L’unica volontà espressa dall’ingegnere Sassaroli è quella di volersi difendere da accuse così infamanti a fronte del lavoro che egli per tanti anni e con passione e dedizione ha svolto per Gesenu”.
Borgogiglione e Pietramelina sono le due più importanti discariche dell’Umbria gestite dal gruppo. Le accuse si basavano sul non corretto o parziale trattamento dei rifiuti negli impianti. Per entrambe, inoltre, il consulente tecnico dell’Autorità Giudiziaria rilevava un “deficit di stabilità” del sito, quindi una sicurezza pregiudicata dalla possibilità di scivolamento di parti delle montagne di rifiuti sepolti. “Le analisi svolte dall’Arpa e le indagini geofisiche – spiega la nota diffusa dal Corpo forestale dello Stato per quanto riguarda Pietramelina – hanno accertato che l’inquinamento ha compromesso le acque del torrente Mussino e i terreni limitrofi alla discarica in cui è stato rinvenuto percolato affiorante dal sottosuolo”.
Le polemiche su Pietramelina erano iniziate ancora prima della sua nascita con le contestazioni degli ambientalisti che anticipavano i rischi poi verificatisi. Primo fra tutti quello della fuoriuscita del percolato, il liquido inquinante prodotto dalla decomposizione dei rifiuti. Le indagini si sono concluse, le accuse sono state mosse, si attende l’inizio del processo. Lo sgretolamento del sistema rifiuti nella regione è al suo primo atto.
Comunicato del Corpo Forestale del 30 Novembre 2016
Capi d’accusa inchiesta Spazzatura d’oro Connection by Scuola di giornalismo di Urbino on Scribd
La montagna di Pietramelina
L’emergenza rifiuti umbra ha un nome-simbolo: Pietramelina, la discarica chiusa solo nel 2013 e che iniziò a funzionare negli anni Ottanta malgrado gli allarmi lanciati dai tecnici e le proteste della comunità locale. Sotto quella discarica, diventata in trent’anni una vera e propria montagna di rifiuti, ci sono ricche falde acquifere.
Marco Montanucci, portavoce del Comitato inceneritori zero, non ha mai avuto dubbi sugli effetti devastanti di Pietramelina. Camminando lungo il torrente Mussino ripete quello che denuncia da anni: “Questo affluente del Tevere, che attraversa per chilometri l’Umbria, è stato inquinato dal percolato sversato dalla discarica di Pietramelina”. Ragione per cui i cittadini si sono rivolti agli organi competenti per protestare del danno ambientale, senza però ottenere interventi risolutivi. Montanucci mostra la documentazione datata 1981 a firma dell’Unità sanitaria locale che dichiarò all’allora sindaco di Perugia la non idoneità del progetto per le alte probabilità di inquinamento. Ipotesi confermata da un’ulteriore relazione sulle caratteristiche geologiche del bacino. Analisi e allarmi di cui nessuno si curò e che per tutti questi anni sono rimasti chiusi in un cassetto.
La Relazione Geologica del 1981
La relazione della Usl del 1981
A bloccare i conferimenti alla discarica, dopo un ciclo di vita lungo oltre trent’anni, è stata la delibera n. 342 del 2013 del Comune di Perugia. Restava l’autorizzazione a produrre compost, il fertilizzante ottenuto dai rifiuti organici biodegradabili. Gli impianti di Pietramelina erano considerati all’avanguardia, conformi alle normative vigenti anche per il recupero energetico del biogas, per il trattamento del percolato e per il fotovoltaico. Eppure negli anni non sono mancate inchieste giudiziarie che ne hanno messo in discussione i requisiti:
- novembre 2013, sequestro, da parte del Comando forestale di Perugia, di 1800 metri cubi di materiale organico in fase di biodegradazione accatastato in aree non impermeabilizzate e prive di canalizzazione per la raccolta del percolato. Il liquido, attraverso il bosco, defluiva nel torrente Mussino.
- ottobre 2015, sequestro preventivo da parte del Nucleo investigativo del Corpo forestale dello Stato di Perugia di una parte della discarica per analogo impatto ambientale ai danni di una porzione di bosco e del torrente Mussino a valle del sito.
Nel novembre 2016 poi arriva l’inchiesta Spazzatura d’oro connection che scoperchia le criticità dell’intero sistema di gestione rifiuti del quale la discarica e gli impianti di Pietramelina rappresentano un segmento importante. L’autorità giudiziaria costringe Gesenu a tenere spenti gli impianti per il trattamento del percolato. A dicembre 2016 la direzione distrettuale antimafia blocca anche quello di compostaggio rilevandone la non conformità alle norme vigenti.
Adeguamento che avrebbe dovuto essere eseguito in tempi rapidi. Così non è stato e il blocco provoca l’immediato trasporto dei rifiuti fuori regione. Inizia il via vai, iniziano ad aumentare i costi. I cittadini protestano: non vogliono essere loro a pagare queste inefficienze.
Il “caso pannolini”
Un piccolo, ma emblematico esempio del caos rifiuti nel quale è precipitata la Regione Umbria. In alcuni Comuni serviti da Gesenu, fino a poco tempo fa si potevano gettare i prodotti sanitari assorbenti nel recipiente dell’organico, mentre nel resto d’Italia finiscono nel bidone dell’indifferenziato o in appositi contenitori. I rifiuti come pannolini e pannoloni non possono così che trasformarsi in enormi quantità di scarti di lavorazione. Il compost, infatti, per risultare concime naturale, deve essere ottenuto con avanzi alimentari e con il verde di orti e giardini. Ma niente succede fino a quando i rifiuti non iniziano a essere trasportati fuori Regione per il blocco degli impianti di Pietramelina dove veniva trattato il compost. Il “caso pannolini” viene subito a galla e la consegna del materiale organico viene bloccata perché contaminata da materiale non conforme. Gesenu è costretta pertanto a cambiare subito procedura e a chiedere ai cittadini di buttare i rifiuti assorbenti nell’indifferenziato, introducendo anche un servizio specifico di raccolta a richiesta. Un cambiamento repentino che ha generato stupore, confusione e costi aggiuntivi.
Il compost prodotto a Pietramelina veniva venduto e certificato come un ottimo ed ecologico fertilizzante. La certificazione di qualità prima stampata sui sacchi di fertilizzante prodotto e distribuito da Gesenu, a un certo punto però scompare. Anche se in occasione di Expo 2015, i rappresentanti del Comune di Perugia e di Gesenu erano a Milano per ritirare il premio di Comune più organico: erano quarti nella graduatoria nazionale.
Il mancato controllo
La società che gestisce i rifiuti nell’Ati 2, il territorio coinvolto nelle indagini, è Gest Srl controllata da Gesenu e da altre tre aziende: Ecocave Srl, Sia SpA e Tsa SpA. Ma la protagonista delle vicende giudiziarie è soprattutto Gesenu che, oltre a possedere il 70 per cento di Gest, ha partecipazioni, con uno schema simile a quello delle scatole cinesi, anche in:
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- Tsa S.p.A.
- Sia. S.p.A.
- Viterbo Ambiente Scarl
- Campidano Ambiente S.r.l.
- Asa international S.p.A.
- Ecoimpianti S.r.l.
- Gsa S.r.l.
- A.P. S.r.l.
Per il Corpo forestale dello Stato le attività di trattamento rifiuti negli impianti di Pietramelina e Borgogiglione o non venivano per nulla effettuate, oppure lo erano solo in parte. Emergeva anche il rischio della non tenuta della discarica, preoccupazione aumentata dopo i recenti terremoti del 24 agosto e del 30 ottobre 2016. E pensare che a dicembre 2014 Gesenu aveva annunciato con il proprio piano industriale “un intervento di ammodernamento e potenziamento finalizzato all’incremento del recupero e alla riduzione dei conferimenti in discarica” e “un potenziamento del presidio e una crescita dell’attività di costruzione e gestione impianti”. Propositi che lasciavano ben sperare. In conferenza stampa l’azienda si era dichiarata pronta a investire 15 milioni di euro in impiantistica. Ma in tre anni nulla o poco è successo.
Spazzatura d’oro connection ha messo in luce quanto siano deboli, contrariamente a quello che era sostenuto anche nel piano d’Ambito, le infrastrutture umbre per la gestione del ciclo dei rifiuti. Nel piano si riteneva, infatti, che il sistema impiantistico fosse capace di rispondere alle esigenze del territorio e fra gli impianti valutati positivamente anche quelli di Pietramelina e Borgogiglione. Una valutazione poi apparsa totalmente infondata.
Su chi doveva controllare cosa e chi è sorto un conflitto tra i vari enti : Regione Umbria, Comuni e Arpa, l’agenzia regionale per l’ambiente. In un post sulla pagina Facebook Umbria verso rifiuti zero, Marco Montanucci scrive: “Sta andando in scena lo scaricabarile. Prima il Comune di Perugia, sui disastri di cui la magistratura sta accusando Gesenu, scarica tutte le colpe sulla Regione e sull’Arpa come se non fosse socio al 45 per cento dell’azienda. Poi la Regione scarica le colpe sul Comune come se non sapesse che la gestione dei rifiuti in Umbria è completamente sbagliata, come se non sapesse che pochissimi Comuni rispettano il Piano regionale dei rifiuti”.
L’asso pigliatutto
Gesenu, al centro dell’inchiesta giudiziaria, è, come sappiamo, partecipata per il 55 per cento dalla Socesfin srl, holding del Gruppo Paoletti e per il 45 per cento dal Comune di Perugia. Il Gruppo Paoletti è una realtà imprenditoriale attiva dagli anni Sessanta. Labor omnia vincit improbus, il lavoro vince ogni cosa, è il motto aziendale. Il gruppo è impegnato in molti settori: immobiliare, energia, chimica, trasporti, manifattura, agricoltura, ecologia. E non solo in Italia. Lavora, con aziende controllate, anche in Spagna, Egitto e Argentina.
Con sede legale a Roma, si occupa anche di rifiuti, motivo per cui nel 2016 ha fatto il suo ingresso in Gesenu. Forte della sua attività anche nei trasporti con ben cinque società, Alablanca Sa, Getras Srl, Duepi Petroli, Fleet Control s.r.l., Paoletti Ecologia Srl, nel momento in cui si è creata in Umbria l’urgenza dei trasferimenti fuori regione, il Gruppo si è assunto il compito di effettuarli con i propri automezzi. Quelli che già ammontano a otto milioni di euro sono per l’appunto gli extracosti, così chiamati dall’inizio, derivanti da questo servizio straordinario. Un debito pesante per chi lo deve sostenere, un vantaggio economico per chi lo effettua.
Il Gruppo Paoletti è quindi contemporaneamente socio di Gesenu e fornitore esterno di servizi, una evidente dissonanza o, se si preferisce, un conflitto di intenzioni e di interessi. Come socio di Gesenu, Paoletti dovrebbe infatti mirare al risparmio. Come fornitore servizi di Gesenu dovrebbe invece ottenere il maggior guadagno possibile. Difficile quindi raggiungere, in un regime di monopolio e con obiettivi opposti, le soluzioni meno gravose per la collettività e garantire il giusto equilibrio senza che prevalga la logica del business. Il viaggio dei rifiuti fuori regione viene fatturato dal Gruppo Paoletti alla stessa azienda di cui è proprietario insieme al Comune di Perugia. Gesenu dovrà pertanto recuperare questi costi non previsti cercando altri soggetti sui quali farli ricadere. Non trovando sponda presso le amministrazioni locali dovrà assumersene il peso nei propri bilanci.
Oggi la grande questione sui tavoli istituzionali è proprio questa degli extracosti in continua crescita. La preoccupazione è che incidano comunque sui conti degli enti e alla fine determinino un aumento della tassa sui rifiuti. Un problema per il quale può esistere una sola soluzione, risolvere la questione alla radice: eliminare i viaggi dei rifiuti garantendo l’autonomia impiantistica della regione. “Di certo questi costi ulteriori non li pagheranno i cittadini”, dice Cristian Betti presidente dell’Auri, la nuova Autorità umbra rifiuti e idrico, che è subentrata agli Ati e comprende da aprile 2017 tutti i 92 Comuni dell’Umbria. Gli extracosti, secondo Betti, non possono ricadere sulla comunità perché non sono previsti “nel contratto che regola i rapporti fra chi richiede il servizio e chi lo svolge.”
I Comuni dell’Auri non possono evitare di puntare il dito sulla questione centrale: perché Gesenu ha affidato al proprio comproprietario il compito di trasportare i rifiuti fuori regione senza cercare sul mercato la migliore offerta disponibile? Dopo un anno, passata l’emergenza, e diventato routine il servizio dei trasporti fuori regione, ma non è stata comunicata alcuna programmazione industriale per trovare la soluzione più conveniente. Una mancanza che trova riscontro nella commissione Bilancio del Comune di Perugia che alla fine del 2017 ha chiesto alla Giunta di “rispettare gli obblighi di legge in materia di partecipate e pubblicare tutti gli atti di conferimento di incarichi a soggetti esterni” e di stabilire un regolamento interno per le società partecipate in tema di scelta dei fornitori con l’adozione di procedure pubbliche. Cristian Betti cerca di tranquillizzare sull’argomento: “Svolgeremo nei prossimi mesi una capillare azione di verifica e controllo nei confronti delle società che gestiscono il servizio”.
Se Gesenu può decidere assegnazioni in regime di diritto privato, il Comune di Perugia, garante del servizio ai cittadini, dovrebbe non accettare i piani delle attività rivolte alla comunità se non rispettano il miglior rapporto costo beneficio. “Noi abbiamo il dovere di monitorare e dire ai cittadini se i costi che loro sostengono in bolletta sono effettivamente quelli dovuti. Abbiamo iniziato a richiedere quindi tutta la documentazione”, spiega il presidente dell’Auri e conferma che sono iniziate le verifiche in materia di trasparenza e sulle voci di costo. Il controllo che sarebbe spettato agli enti territoriali, soprattutto quando partner degli stessi gestori dei servizi, è adesso nelle mani dell’Auri, che ha tra i suoi obiettivi quello di sviluppare un progetto unico del sistema rifiuti per l’Umbria.
Il viaggio dei rifiuti
Dalla fine del 2016, come sappiamo, i rifiuti umbri vengono trasportati fuori dalla regione. La società Hera di Bologna aveva accettato di accogliere quattro camion al giorno per poi, ad agosto 2017, sospendere il servizio. Il motivo: l’incapacità dei loro impianti di assorbire quella quantità di rifiuti nel periodo di maggior afflusso turistico. Le conseguenze del blocco, ripetuto in più occasioni, sono state, l’ultima estate, sotto gli occhi di tutti. I marciapiedi di Perugia sono stati invasi dall’immondizia abbandonata da chi non sapeva dove lasciarla. I cassonetti erano straripanti e svuotati a singhiozzo. Sotto le finestre del palazzo della Regione Umbria i rifiuti sono rimasti a terra per giorni. A ottobre 2017 l’indifferenziata non raccolta era passata dal 30 al 50 per cento.
L’ospitalità, alla fine, i rifiuti umbri l’hanno trovata nelle Marche, nell’impianto di Ascoli Piceno, da dicembre 2017 e per un periodo di sei mesi. Per l’assessore all’Ambiente della Regione Umbria, Ferdinanda Cecchini, l’accordo raggiunto “dopo aver verificato l’impossibilità di trovare soluzioni nel territorio regionale, garantirà il servizio di smaltimento dei rifiuti consentendo di superare le temporanee difficoltà riscontrate dalla società Gest”. Il comunicato ufficiale della Regione Umbria parla di momentanee difficoltà.
A distanza di un anno e mezzo, dunque, quello che accade in Umbria è ancora percepito dalle istituzioni come un problema di breve periodo. Il documento firmato fra le Regioni prevede, inoltre, una clausola di reciprocità: se le Marche dovessero trovarsi in “una situazione di temporanea necessità” potranno avvalersi a loro volta dell’impiantistica umbra. Ma è difficile immaginare a quale impianto funzionante si possa fare riferimento.
La tassa sui rifiuti aumenta
L’Auri, dall’aprile del 2017, ha assunto tutte le funzioni di programmazione e controllo dei servizi idrico e rifiuti. Nell’assemblea del 12 gennaio 2018 il presidente Cristian Betti ha ribadito che i costi imprevisti della gestione dei rifiuti “non li pagheranno i cittadini”. L’assemblea, infatti, non ha riconosciuto al Gruppo Gesenu gli extracosti 2017 giunti a quota otto milioni di euro. Ciò significa che nessun altro soggetto è stato individuato per il pagamento di questi costi straordinari se non lo stesso gestore ritenuto unico responsabile del mancato funzionamento degli impianti a suo carico.
L’Auri tenta di rassicurare i cittadini, ma poi approva il piano economico finanziario di gestione dei rifiuti nel quale viene previsto un aumento del 10 per cento della tassa con il riconoscimento di una parte degli extracosti al gestore per il blocco degli impianti. Ma il Comune di Perugia spiega che in base alla legge di stabilità 2014 le tariffe della tassa sui rifiuti sono determinate dai costi risultanti dal piano finanziario con l’obiettivo di garantire la copertura integrale del servizio. L’incremento del 10 per cento riguarderà tutti i comuni compresi nel territorio dell’ex Ati 2. L’aumento è presentato addirittura come un successo, l’ipotesi iniziale era, infatti, del 20 per cento. L’aumento previsto sarà dai 15 ai 60 euro per i nuclei familiari, mentre per le imprese potrà raggiungere anche 243 euro.
Questo servizio è un progetto di fine corso per il biennio 2016-2018 dell'Istituto per la Formazione al giornalismo di Urbino (IFG), pubblicato il 28 marzo 2018