Sfida quotidiana al pregiudizio: storie di donne che fanno sport “da maschi”

di Nicola Petricca

“Raffaella, io voglio giocare a calcio, ma mia mamma non me lo lascia fare. Ha paura che mi possa far male o che mi sporchi”. Raffaella Manieri abbassa gli occhi quando ricorda quello che le hanno raccontato alcune ragazzine di una scuola di Pesaro. Eppure a lei, terzino della Nazionale italiana, non capita spesso di essere messa in difficoltà: “Io spero che la mia carriera possa essere d’esempio. Ma a parte portare la mia esperienza, non so davvero come aiutare queste ragazze. Diamo loro almeno l’opportunità di provarci”.
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Raffaella è nata a Pesaro, città in cui è iniziata la sua carriera da calciatrice. Dopo aver vinto cinque scudetti e altrettante Supercoppe italiane tra Bardolino Verona e Sassari Torres ed essere diventata un perno della Nazionale italiana ha ricevuto la chiamata di una prestigiosa società tedesca: il Bayern Monaco. Andare via dall’Italia non è stata, per lei, una scelta facile, ma è stato necessario per fare un salto di qualità a livello sportivo e, soprattutto, economico: mentre in Italia le donne calciatrici possono essere solo dilettanti, il campionato tedesco è interamente professionistico. E gli altri sport femminili non se la passano meglio: nel nostro Paese a nessuna atleta è riconosciuto lo status di professionista.


via chartsbin.com

Raffaella Manieri

Raffaella Manieri

Trasferirsi in Germania ha dato a Raffaella anche “l’orgoglio di poter dimostrare che, essendo donna, potessi giocare anche io a quei livelli. Quello che in Italia non mi permettevano di fare. Qua è una continua discriminazione, un continuo dire ‘non puoi giocare’, ‘siete scarse’, ‘sei una donna’. In Germania, invece, ho visto ragazzine felicissime di giocare a calcio i genitori ancora più contenti nel vederle giocare”.

Sfogliando gli albi d’oro delle più prestigiose competizioni femminili internazionali, il rapporto tra professionismo e trofei è evidente. Le Nazionali più vincenti sono quelle in cui giocano atlete professioniste o semiprofessioniste. Come gli Stati Uniti, presenti nelle top-5 delle Nazionali più titolate sia nel basket che nel calcio. Entrambi gli sport, negli Usa, sono professionistici e hanno un grande seguito popolare. In generale, i Paesi che valorizzano maggiormente le loro squadre femminili ottengono i migliori risultati.

INFOGRAFICA. CALCIO, BASKET, RUGBY: LE 5 NAZIONI PIÙ TITOLATE

Considerati sport non adatti alle ragazze, in cui c’è troppo contatto, ci si fa male e ci si sporca, le versioni femminili di discipline come calcio, basket e rugby sono, però, oggetto di pregiudizi. Eppure, nonostante le difficoltà, nella provincia di Pesaro e Urbino ci sono alcune società in cui poter praticare questi sport. È il caso dell’Onda Pesarese Calcio, dell’Olimpia Pesaro Basket e delle Valmetauro Titans Urbino Rugby.

Cento chilometri per giocare a calcio: le ragazze dell’Onda Pesarese

L’Onda Pesarese è l’unica società calcistica femminile della provincia di Pesaro Urbino e la sola, assieme alla Jesina che milita nel campionato di Serie B, presente nelle Marche. È nata nel 2013 con la fondazione di una squadra di calcetto. Poi, l’anno seguente, è arrivato il settore giovanile femminile e infine una prima squadra che, già al primo anno, è stata in grado di dominare il campionato di Serie D e di conquistare la promozione in Serie C.

palloneLa rosa è molto eterogenea: l’attaccante Grazia Esposito, la più piccola del gruppo, non ha ancora 16 anni, mentre il terzino Elisa Marcucci, la più grande, ne ha 35. Solo 5 sono originarie dell’area di Pesaro, mentre il resto delle ragazze viene da altre zone della provincia. Arianna Pierucci, per esempio, viene da Montefelcino e impiega 50 minuti per arrivare a Pesaro, mentre Elisabetta Migiani arriva da Urbania e, per tre giorni a settimana, guida due ore per fare avanti e indietro dal suo paese al campo sportivo.

Giocare nell’unica squadra del territorio comporta diversi disagi. L’Onda Pesarese è infatti stata inserita nel girone dell’Emilia-Romagna e le giocatrici devono affrontare trasferte lunghe e costose: “La più lontana è a Mantova: ci vogliono più di tre ore per arrivare, e il costo delle trasferte, per tutta la stagione, è di 6.600 euro”, racconta l’allenatore Daniele Orazi. Daniele non guida solo la prima squadra, ma anche la formazione del calcetto e il settore giovanile. Per il suo lavoro non prende neanche un compenso. Così come le giocatrici: “Le ragazze non hanno mai preso rimborsi e non li hanno neanche mai chiesti”, continua Orazi.

Fatta eccezione per Magda Moroni, portiere, passata dalla pallavolo al calcio all’età di 22 anni, tutte le ragazze hanno cominciato a giocare a calcio da piccole e tutte hanno giocato assieme ai maschi fino ai 14 anni. “Poi ci siamo dovute trovare una squadra perché non c’erano settori giovanili femminili vicino a noi – racconta Arianna – e quello è un problema perché ti ritrovi catapultata in una prima squadra (se hai la fortuna di trovarne una), a 15-16 anni e devi confrontarti con giocatrici che ne hanno anche 40”.

Ma i sacrifici fatti da ragazze e genitori per inseguire questa passione tante volte vengono frustrati da pregiudizi e ignoranza. “Spesso sentiamo dire che le donne non sono adatte al calcio – racconta Magda – lo dicono dagli spalti e spesso persino alcuni dirigenti durante partite o allenamenti. Ti dicono ‘ma guardale, ci mettono tre volte il tempo che ci mettono i maschi per fare la stessa azione’, lo continuano a considerare uno sport per soli uomini. E fa male, perché sono cose che sentiamo da quando avevamo 3-4 anni”.

Ti dicono 'ma guardale, ci mettono tre volte il tempo che ci mettono i maschi per fare la stessa azione', lo continuano a considerare uno sport per soli uomini. E fa male, perché sono cose che sentiamo da quando avevamo 3-4 anni Magda

A volte sono gli stessi dirigenti a mancare di ambizione. Valentina Livi, centrocampista, racconta un episodio risalente a pochi anni fa: “Quando giocavo in un’altra squadra, stavamo per andare ai rigori di una finale di coppa. La vittoria ci avrebbe consentito di salire di categoria. Sentimmo i dirigenti della nostra società parlare tra di loro e sperare che li sbagliassimo, perché non c’erano soldi per permetterci di affrontare la categoria superiore. Alla fine perdemmo, non di proposito, ma quelle parole tolsero l’entusiasmo a tante ragazze”.

Le Valmetauro Titans, nate grazie a un annuncio su Facebook

Placcare, finire a terra con la faccia nel fango e poi rialzarsi con il sorriso sul volto pronti a rifarlo ancora e ancora. In Italia non sono tante le ragazze che scelgono di divertirsi così, ma a Urbino un gruppo di queste ragazze c’è: sono le Valmetauro Titans rugby. La squadra è una costola dell’omonima società, nata nel 2010 con la fondazione della squadra maschile a cui è seguita, nel 2014, quella del settore giovanile che ora conta 28 ragazzi, tra minirugby e under 14. Nello stesso anno l’allenatore e vicepresidente, Dario Surano, ha deciso che fosse arrivato il momento di creare anche un settore femminile.

ScudoTutto è cominciato con un post nel gruppo Facebook “Spotted: University of Urbino” in cui si annunciava la fondazione della squadra e si chiamavano a raccolta tutte le ragazze interessate. Lo stesso è stato fatto con l’affissione di volantini in giro per le facoltà universitarie e il passaparola. Tra le aspiranti rugbiste che hanno risposto all’appello c’era Tania Bianco, ora pilone e capitano della squadra, che questo sport l’aveva visto solo da lontano: “Nella zona in cui sono nata, a Lecce, non ci sono strutture di rugby ed è poco conosciuto – racconta – è un peccato, perché questo sport mi è piaciuto da subito, ma quando torno a casa non ho la possibilità di allenarmi”. Il gruppo iniziale era composto da 10 ragazze, poi altre se ne sono aggiunte, mentre alcune hanno deciso che il rugby non faceva per loro.

Nell’annata 2014-15 le Titans non hanno disputato un vero e proprio campionato. Si sono allenate e sostenuto alcune amichevoli con squadre di altre regioni durante dei raduni chiamati raggruppamenti. Alla fine di ogni gara c’è stato il “terzo tempo”, tradizionale incontro tra i giocatori che, a fine partita, socializzano e spesso mangiano e bevono insieme. “Il fatto che si riesca a fare subito amicizia è una delle cose che mi piace di più – dice Tania – io mi sento spesso anche con ragazze di altre squadre, si crea un rapporto bellissimo”. E questo è un aspetto del rugby che anche Alessandra De Giorgi, pilone, apprezza particolarmente: “Quando allacci le scarpe tutti i problemi spariscono, anche se, dopo la doccia, crolli – dice ridendo – però con questo sport si socializza molto ed è una bella cosa”.

Nel 2015 la società ha provato a fare il salto di qualità: con 15 ragazze in rosa all’inizio dell’anno, la squadra si è iscritta a un campionato di rugby a 7 che includeva cinque formazioni. La scarsità di società nelle Marche, però, ha obbligato la federazione a inserire in questo torneo anche formazioni abruzzesi obbligando le Titans a lunghe trasferte. Dopo un buon inizio, però, sono arrivati i primi problemi. Qualche infortunio e, soprattutto il ritorno a casa di alcune ragazze studentesse fuori sede, la rosa si è ristretta sempre più fino a costringere la squadra a rinunciare al campionato. “Questo è uno dei maggiori problemi della squadra, cioè che siamo quasi tutte studentesse e le ragazze vanno e vengono in base ai loro studi – racconta Tania – per un mese sono rimasta l’unica ad allenarsi”.

Tra le rugbiste ducali l’unica marchigiana è Chiara Zampieri. Viene da Tavullia e gioca da ala, ma non ha ancora potuto disputare una partita con le Titans: “Sto aspettando la mia occasione perché sono arrivata nel periodo in cui la squadra stava perdendo pezzi e ha rinunciato al campionato – afferma – avevo iniziato a giocare a Pesaro, ma lì c’era poca considerazione verso la squadra femminile e ho deciso di venire a Urbino dove ho trovato una società giovane e volenterosa”. La poca considerazione o i pregiudizi, da parte maschile, sono una cosa che ha riscontrato anche Erika De Maria, anche lei in attesa di disputare una partita perché arrivata in squadra solo a febbraio: “Molti uomini tengono atteggiamenti di superiorità come a dire ‘noi possiamo, voi no, perché il rugby è uno sport da maschi’ – racconta – trovano strano che una ragazza pratichi questo sport. Ma a me non interessa, mi piace giocare a rugby e continuerò a farlo”.

Molte ragazze sono attratte da questo sport, ma rinunciano a giocare per paura di sporcarsi o rompersi le unghie Tania

I pregiudizi nei confronti di questo sport, in forma di autolimitazione, sono, però, fortemente radicati anche in molte ragazze, secondo Chiara, Alessandra e Tania. “Quando cercavamo giocatrici in tante dicevano ‘che bello sport’, però poi non venivano a provare – racconta il capitano della squadra – perché hanno paura del fango, di farsi male, di spezzarsi le unghie… Anche mia mamma, quando le ho detto che avrei giocato a rugby mi ha risposto ‘ma cosa fai? Ti butti a terra, ti rotoli nel fango, ti fai male’, mentre mio padre si è messo a ridere, anche se non si è scomposto. Ma, alla fine, tutti quelli che avevano storto il naso si sono ricreduti, perché il rugby è uno sport bello e leale, un’esperienza che dovrebbero provare tutti”.

L’eterno confronto con la pallavolo: la cestiste dell’Olimpia Pesaro sfidano i pregiudizi

Risorta dalle ceneri della precedente società fallita nel 2013, l’Olimpia Pesaro è l’unico club di basket ad avere un settore giovanile e una prima squadra interamente femminili in tutta la provincia. Ora la formazione, fino all’anno scorso in Serie B, milita nel Campionato Unico. Si tratta di un torneo creato nel 2015-2016 da Federbasket per sopperire alla carenza di club. Riunisce squadre di Serie C, Serie B e Under 20. Dopo aver superato la fase regionale, che conta meno di 10 squadre, nella seconda fase del campionato la squadra deve affrontare trasferte, anche molto lunghe, nelle Marche, in Abruzzo e in Umbria.

Tutte le giocatrici in rosa sono cresciute nel settore giovanile dell’Olimpia. L’unica “straniera” è l’ala grande Giulia Pierdicca, anconetana, che è a Pesaro “per scelte universitarie e perché non mi trovavo bene nella mia città”. Tutte hanno cominciato a giocare prima dei 10 anni, ai tempi del minibasket. Da quando hanno provato questo sport non l’hanno più abbandonato. “Volevo fare uno sport di squadra in cui si giocasse con un pallone. Mia mamma non mi voleva mandare a scuola calcio e così ho scelto il basket”, racconta Vanda Barulli, playmaker. “Io avevo iniziato facendo danza e nuoto – ricorda Giorgia Canestrari, ala piccola – ma nel mio palazzo abitava una ragazza che giocava a basket e mia mamma, un giorno, mi convinse ad andare a provarlo. Mi sono appassionata, non l’ho più lasciato e sono arrivata alla Serie A3 e ai raduni della Nazionale fino all’Under 20″.

Giorgia, però, non è solo una giocatrice: assieme al pivot Emila Gijnaj è anche istruttrice del settore giovanile dell’Olimpia. Le due descrivono una situazione poco incoraggiante: “Le ragazze delle giovanili sono sempre meno – afferma l’ala piccola – e pensare che una volta erano talmente tante che abbiamo dovuto fare più squadre per gestirle”. Uno dei limiti alla crescita di questo sport, secondo Emila, sono i pregiudizi dei genitori: “Abbiamo presentato lo sport nelle scuole e molte ragazze erano entusiaste – afferma – poi, però, diverse hanno trovato il muro delle madri che dicevano loro ‘no, perché è uno sport per maschi’ e magari le mandavano a danza o pallavolo”.

Quello con la pallavolo è un confronto che le ragazze dell’Olimpia sentono molto: “Tra pallavolo e basket femminile sarà sempre il basket a rimetterci – sostiene Alessia Federici, playmaker e capitano – la pallavolo è molto più al centro dell’attenzione. La nostra non è considerata una disciplina femminile. Basta guardare al fatto che Pesaro, quando ha presentato la candidatura come città dello sport non ha neanche citato calcio, rugby e basket femminile”. E la poca considerazione nei confronti della pallacanestro femminile arriva anche dalla classe arbitrale: “Ci sono arbitri che si lamentano quando devono arbitrare il basket femminile – continua Alessia – li abbiamo sentiti diverse volte e si vede sul campo dal loro atteggiamento. Si capisce subito se un arbitro non ha voglia di arbitrare”.

Ma i pregiudizi sono anche estetici. “Molti maschi non ci considerano neanche perché dicono ‘le giocatrici di basket sono dei maschiacci, andiamo a vedere la pallavolo che lì le giocatrici sono tutte belle'”, afferma Lucia Franca, guardia. “Forse ci verranno a vedere quando anche noi cominceremo a mettere gli shorts come le pallavoliste”, aggiunge, sarcasticamente, il pivot Federica Gambini. Che continua: “le ragazzine di oggi sono più attente a non rompersi le unghie, tendono a evitare gli sport con il contatto fisico. Noi siamo più ‘alla mano'”.

Forse i ragazzi verranno a vedere le nostre partite quando anche noi cominceremo a indossare gli shorts come le pallavoliste Federica

Per andare avanti tra difficoltà e pregiudizi serve tanta passione. Anche perché le prospettive economiche sono tutt’altro che allettanti: le ragazze dell’Olimpia non ricevevano compensi o rimborsi neanche quando militavano in Serie B e solo le giocatrici di Serie A1, il massimo campionato, guadagnano stipendi di rilievo, anche se inferiori rispetto a quelli maschili. Vivere di solo basket, per le donne, oggi non è possibile.

Questo servizio è un Progetto di fine corso per il biennio 2014-2016 dell'Istituto per la Formazione al giornalismo di Urbino (IFG), pubblicato il 18 marzo 2016.