di FEDERICA OLIVO
URBINO – “Il primo giorno che sono uscita con il velo, un compagno di scuola mi ha visto e ha urlato ‘talebana, terrorista’. Io non sapevo neanche cosa volesse dire. E, quando gliel’ho chiesto, ho scoperto che non lo sapeva nemmeno lui”. Takoua Ben Mohamed è un’artista di 26 anni. Nata in Tunisia, vive in Italia da quando aveva 8 anni. Se le chiedono di dov’è, lei risponde “sono una tunisina de Roma”, perché sente che nella sua identità sono fuse entrambe le culture, quella del Paese dov’è nata e quella del posto in cui è cresciuta.
“Frequentavo le scuole medie quando ho deciso di iniziare a indossare il velo. Mio padre, che in Tunisia era un Imam, mi aveva sconsigliato di farlo. Sosteneva che avrei avuto problemi: era passato poco tempo dall’attentato alle Torri Gemelle e si era creato un clima ostile ai musulmani. Non l’ho ascoltato: volevo vedere cosa sarebbe successo davvero se avessi iniziato a indossarlo. Alla fine aveva ragione lui”, racconta Takoua.
Ad un certo punto ha capito che poteva raccontare gli stereotipi sulle ragazze musulmane con ironia, attraverso i suoi disegni. Venerdì 15 dicembre a Fermignano ha presentato Sotto il velo, un libro che raccoglie i disegni fatti in questi anni, nel corso di un evento organizzato dall’associazione De.Sidera.
Le vignette di Takoua raccontano la quotidianità di una ragazza che indossa il velo in Italia. Ogni giorno, o quasi, si incontra sulla sua strada qualcuno che la guarda con sospetto o che le fa delle domande bizzarre sul panno di stoffa che porta in testa.
Lei porta il velo da quando era poco più che bambina. Quali sono le domande che l’hanno fatta ridere di più e quali, invece, quelle che l’hanno ferita?
Spesso capita che mi facciano domande assurde. C’è stato chi mi ha chiesto se avevo i capelli e chi voleva sapere se tenessi il velo anche sotto la doccia. La cosa divertente è che mi domandavano queste cose con serietà e io, con altrettanta serietà, rispondevo. Dopo, però, ridevo di queste strane richieste, ed ero contenta perché quelle domande erano state un punto di partenza per discutere, per sfatare falsi miti. A ferirmi, invece, sono le provocazioni di chi sostiene che i miei fumetti siano pericolosi. Alcuni mi hanno addirittura definito terrorista. La cosa più triste è che nessuno lo fa direttamente: utilizzano i media invece di confrontarsi con me. Se lo facessero, potrei spiegare loro che quello che voglio dimostrare con il mio lavoro è che gli stereotipi sulle religioni possono essere abbattuti e che, pur nelle differenze culturali, c’è sempre qualcosa che ci accomuna.
Nel suo libro si concentra in particolare sulle donne. Ha affermato che piuttosto che considerare il velo un problema, bisognerebbe guardare a quelli che sono i veri soprusi che le donne subiscono. Violenza e maltrattamenti, ad esempio.
Spesso, in Italia ma anche nel resto del mondo, c’è poco rispetto per le donne e per il loro corpo. Parlo di tutte le donne, al di là della loro religione. La base del problema credo sia la mancanza di educazione al rispetto dell’altro sesso. Bisognerebbe andare nelle scuole a insegnare agli uomini del domani che le donne non sono inferiori a loro e che vanno rispettate. Solo in questo modo violenza e femminicidi potranno essere fermati. Certo, ultimamente si parla di questo fenomeno di più rispetto a prima, ma non basta. Quando si verifica un episodio di violenza contro una donna si sente ancora dire, “la colpa è sua, se l’è cercata”. Troppo spesso, ancora oggi, in Italia si tende a colpevolizzare la donna, senza guardare al cuore del problema.
Lei è in Italia da quasi vent’anni e non ha ancora la cittadinanza. Ha definito la proposta di legge che si sta discutendo in Parlamento uno “ius soli troppo temperato”. Perché?
Sicuramente il fatto che ci sia una discussione sul tema è un passo avanti, ma la legge proposta è piena di vincoli per le persone che vorrebbero chiedere la cittadinanza. Si sente dire, “se passa la legge basterà nascere in Italia per diventare cittadino di questo Paese”, ma in realtà non è così. Ci sono dei requisiti necessari per chi chiede la cittadinanza: avere una buona conoscenza dell’italiano e aver concluso un ciclo di scuole in questo Stato, ad esempio. Si chiede poi un minimo di reddito: in un momento in cui è difficile per tutti trovare lavoro, chiedere un’entrata minima fissa per avere la cittadinanza significa complicare ulteriormente le cose. In questo modo si inducono i bambini nati in Italia da genitori stranieri a sentirsi immigrati anche se, in fondo, non lo sono. O, come spesso accade, non sapevano di esserlo. Si crea un problema di identità che loro magari non si erano mai posti.
A proposito di identità, Lei si definisce “tunisina de Roma”. Che rapporto ha con la sua città?
La amo perché è bellissima, ma mi sembra che più tempo passa e più aumentano i suoi problemi. Non parlo solo dell’immondizia e del traffico; mi riferisco anche alla qualità di vita dei cittadini. I giovani, ad esempio, sono sempre meno contenti di vivere a Roma. Credo, poi, che sia una città in cui si è perso, anche nei singoli quartieri, il senso di essere una comunità.
In Sotto il velo parla dei pregiudizi sull’Islam in Italia. Nel suo prossimo lavoro, invece, racconterà un pezzo di storia della Tunisia. Ci anticipa di cosa si tratterà?
Posso dire innanzitutto che non ci sarà niente di ironico. Dopo aver fatto un’ampia ricerca sul campo, voglio raccontare cose della Tunisia che in pochi conoscono: penso, ad esempio, alla censura, alle torture nelle carceri. La storia sarà raccontata dalla prospettiva di una bambina che è nata e cresciuta in quel Paese e ne ha visto i cambiamenti.