di ELEONORA SERAFINO
URBINO – Giovina Jannello, intellettuale poliglotta nata 91 anni fa a Tunisi da madre greca e padre italiano, è scomparsa a Urbino il 18 gennaio 2018. Suo marito, Paolo Volponi, scrittore e poeta urbinate, due volte vincitore del premio Strega e due volte senatore della Repubblica, era morto nel 1994. Eppure la loro presenza si sente ancora, forte, nella città ducale. Nel quartiere di San Polo, dove negli anni Venti il bisnonno dello scrittore costruì con i mattoni della sua fornace la casa che ha ospitato a lungo la coppia e dove Vittorio Sgarbi ha fatto dedicare al letterato un torrione che affaccia sulla vallata. E ancora di più si sente la loro presenza all’interno dell’abitazione. Apre la porta Caterina Volponi. Cinquantotto anni, primogenita della famiglia, accetta di raccontare di sua madre a pochi giorni dalla morte.
All’ingresso premi e onorificenze che portano il nome di Volponi, fotografie della moglie alle pareti. Una delle più recenti, appoggiata a un vassoio di caramelle, è in bianco e nero: sorridente tiene una sigaretta tra le dita in un gesto di grazia che ricorda certe dive degli anni Trenta. “Era una donna molto elegante – dice Caterina Volponi indicando l’immagine – io somiglio molto a mio padre, magari avessi somigliato a lei”. Nella sua voce l’emozione che solo certi ricordi possono dare, ma anche serenità: “Nell’ultimo periodo non stava bene, per una donna come lei non avere neppure la possibilità di sedersi a chiacchierare con qualcuno era molto dura”.
Guardando le foto, non si può negare che fosse una donna molto elegante.
“Non era solo una questione estetica. La sua eleganza si esprimeva soprattutto nei modi. Il merito credo fosse della sua educazione. Aveva avuto la fortuna di vivere in una famiglia benestante, di frequentare le migliori scuole, di laurearsi in giurisprudenza, in anni in cui – stiamo parlando della prima metà del ‘900 – non erano in molti a farlo, figuriamoci una donna”.
Laureata e vincitrice di una borsa di studio a Harvard, stava per iniziare a lavorare in Rai quando scelse invece di collaborare con la Olivetti.
“Sì, perché una sera le fu presentato Adriano Olivetti. L’imprenditore, uno dei più innovativi del secolo scorso, fondatore della prima fabbrica italiana di macchine da scrivere e deputato della Repubblica, rimase molto colpito da lei e dal suo inglese, che era quasi quello di una madrelingua. Così le chiese di diventare sua assistente. Iniziò ad accompagnarlo nei suoi viaggi. Lei amava molto viaggiare, era cresciuta così. La sua famiglia era da sempre abituata a cambiare città per seguire suo padre che era un ingegnere. Mi raccontava che non aveva frequentato mai più di un anno la stessa scuola”.
Proprio lavorando all’Olivetti poi conobbe suo padre. Le ha mai raccontato quel momento?
“Sì, molte volte. Era lì da poco, quando iniziò a sentire spesso: ‘Ah, ma ora arriva l’avvocato Volponi e sistemerà i bilanci, sistemerà tutto’. Lei era anche un po’ spaventata dal suono del suo cognome. ‘Ma chi sarà mai questo Volponi?’, mi raccontava. Poi quando gli fu presentato, fu da subito feeling. ‘Ridevamo delle stesse cose. E quanto è importante ridere delle stesse cose nella vita!’, mi diceva. Si conobbero nel ‘56, si sposarono tre anni dopo. Dandosi del lei fino alla fine. ‘Signorina Jannello, è ormai da tempo che sono innamorato di lei: o mi sposa o sarò costretto a rinunciare al mio incarico qui’, le disse. E mia madre, che è stata sempre una donna ironica e autoironica, rispose ‘mi tocca dirle di sì, non voglio essere responsabile della fine di una brillante carriera’”.
E non lo fu, in effetti. Perché si sposarono e suo padre continuò a lavorare per l’azienda, mentre sua madre no. Perché questa scelta?
“Perché nel 1960 morì Adriano Olivetti, il ruolo di mia madre era strettamente legato a quello di questa persona. Per un po’ continuò a lavorare in azienda, ma poi scelse di fermarsi. Una decisione che negli anni le è pesata non poco. Era una donna brillante, piena di idee. Non si è mai pensata solo nel ruolo di casalinga o ‘di moglie di’. Anche se forse non lo è mai veramente stata. Pensi che tutti gli amici di mio padre – parlo di persone come Pier Paolo Pasolini, Franco Fortini, Elsa Morante, Guido Piovene, Giovanni Raboni – quando venivano a casa si fermavano per ore a parlare con lei di letteratura, di arte, di politica”.
Ha qualche ricordo particolare che la lega a questi grandi scrittori?
“Molti sono stati amici di famiglia per anni e anni, ci hanno visto crescere. Un pomeriggio andammo tutti insieme a casa di Pier Paolo Pasolini. Aveva appena arredato la sua casa all’Eur con un lampadario enorme e mi chiese: ‘Ti piace?’. ‘Un po’ pretenzioso’, risposi. ‘Mi sa che ha ragione’, commentò con una risata. Avevo solo tre anni. Pensate che bambina impertinente che ero. Mi hanno viziata, lo ammetto”.
Un’infanzia e un’adolescenza circondati da grandi intellettuali e da libri ha contribuito a farvi amare la letteratura quanto i vostri genitori?
“Per i libri era come per i grandi che hanno frequentato la nostra casa: erano lì da sempre, per noi era la normalità, neanche ci facevamo più caso. La letteratura ha caratterizzato più le loro vite, dei nostri genitori intendo, che le nostre”.
Si racconta che suo padre cercasse sempre il giudizio di sua madre su tutto ciò che scriveva…
“Questo è vero soprattutto per i primi anni, quando vivevamo nella villa a Ivrea e mio padre scrisse due delle sue prime opere. Poi cambiarono molte cose. Noi tre ci trasferimmo a Milano, lui restò a Ivrea. La sua vita divenne lavorativamente più frenetica, scriveva spesso in treno”.
Perché la scelta di vivere a Milano?
“Decise mia madre. Ivrea è un piccolo centro, in cui la famiglia Volponi era molto conosciuta. Non voleva che crescessimo come ‘i figli di’. In una scuola pubblica di una grande città il nostro cognome pesava meno”.
Chi ha visto i suoi genitori insieme racconta di una grande complicità…
“Ah, sono stati sicuramente complici, benché molto diversi caratterialmente. Lui era quello più impulsivo, che reagiva ai problemi anche con fervore. Lei era quella più equilibrata, riusciva sempre a mantenere l’armonia. Non ci si crederà, ma l’intellettuale della coppia era mia madre, era lei quella che amava conversare di letteratura, che aveva letto tutti i libri immaginabili, che amava vivere in un mondo fatto di pensieri e parole. Certo lui era il creativo, ma in quanto tale era l’uomo del fare, anche più legato alle cose materiali. Mia madre aveva sì vissuto in una famiglia benestante, ma una famiglia che aveva conosciuto anche la miseria. I suoi nonni erano dei ricchi possidenti, avevano piantagioni di tabacco a Smirne. Ma nel ‘22, durante la rivoluzione di Atatürk, videro la loro casa bruciata e furono cacciati via. Per salvarsi si tuffarono in mare e furono ripescati da una nave inglese con indosso solo una camicia. Ricominciarono ad Atene perché lì c’erano i fratelli, ma intanto avevano sperimentato la perdita di tutto. E di generazione in generazione questa cosa era stata tramandata, fino a mia madre, che diceva sempre ‘gli oggetti ci sopravvivranno’”.
Una donna così elegante, ma non legata alle cose materiali. Neppure ai gioielli?
“Per nulla, era mio padre che glieli regalava. Non le ho mai sentito dire: ‘Mi piacerebbe quest’anello o questa collana’. Era lui che diceva: ‘Ma andiamo a fare un viaggio. Compriamo un’auto nuova…’”.
O ‘Compriamo un nuovo quadro’ …
“Ah, soprattutto! Mio padre, come ben si sa, era un collezionista. Adorava l’arte, adorava comprare tele, circondarsi del bello”.
Diverse opere del ‘600 poi sua madre le ha donate al Palazzo Ducale…
“Sì, dopo la morte di mio fratello. Occupano un’intera sala del Palazzo, che ora porta il nome di Paolo e Roberto Volponi”.
Un modo per sublimare anche il dolore per un lutto così grave?
“Sì, anche. Mia madre voleva ricordarlo con qualcosa che restasse nel tempo ma che non necessitasse di tanto impegno, come un premio o una fondazione. Veniva da anni molto difficili. La notizia della morte di mio fratello è stata sconvolgente. Era il 1989, aveva 27 anni. Era andato in vacanza per 15 giorni a Cuba. Al ritorno il charter precipitò, con lui morirono altri 113 italiani e molti abitanti di un villaggio cubano in cui l’aereo si schiantò. È stato un dolore immenso, ma entrambi, sia mio padre che mia madre, lo hanno vissuto con compostezza, mai una reazione eccessiva in pubblico. Per loro è stata l’occasione di unirsi ancora di più nel tentativo di superare la sofferenza”.
Soltanto cinque anni dopo è morto suo padre invece…
“Io credo si sia ammalato anche per il dramma vissuto. Sono stati cinque anni duri, in cui mia madre ha mostrato tutta la sua tempra. Aveva da poco perso un figlio e ha dovuto affrontare la malattia di suo marito, che doveva fare tutti i giorni la dialisi. Dopo la morte di mio padre, e fino agli ultimi giorni, per aiutarla ho cercato di assumere il ruolo che aveva lui, di sostituirlo, in un certo senso”.
Che madre è stata?
“Che domanda difficile! Rispettosa, direi. Così rispettosa che non ha mai insistito su nulla. Forse per paura di scegliere per me, al mio posto. Anche quando probabilmente avrebbe dovuto. Ad esempio quando ho deciso di lasciare la facoltà di filosofia non completando gli studi. O quando frequentavo qualcuno. Non mi chiedeva niente. Da questo punto di vista, lei che era così aperta e cosmopolita, ha portato avanti un’educazione quasi vittoriana. Mentre con gli altri era assolutamente senza pregiudizi. Le raccontavano di tutto, anche di tradimenti e amori non corrisposti. Si fidavano. Negli ultimi tempi non usciva più, ma non immagina quante persone che mi incontravano per le strade di Urbino mi chiedevano di salutarla”.
Perché sua madre ha scelto di vivere a Urbino gli ultimi anni della sua vita?
“Perché Urbino era per lei più piccola, più accogliente, rispetto a una grande città come Milano. E infatti l’ha amata molto e la città le ha restituito tutto questo affetto. Spesso d’estate ci sedevamo fuori al Bar del Mulino e lei si intratteneva a parlare con i ragazzi o con i turisti. Come amava parlare con i turisti! Diceva che si esercitava nelle lingue’”.
Di lei hanno scritto che non si è mai saputo quante ne parlasse ….
“Addirittura (ride, ndr)! Aveva studiato a scuola il tedesco, parlava bene il francese e molto bene l’inglese. Fino agli ultimi giorni, correggeva me e chiunque sentisse parlare inglese. Poi ovviamente parlava l’italiano e il greco. Spesso ascoltava le conversazioni degli studenti greci in Erasmus qui a Urbino. Una volta mi disse: ‘Ora gli dico che li capisco, stanno conversando di certi argomenti imbarazzanti’”.
Viene fuori un’immagine di lei sicuramente virtuosa. Possibile che non avesse alcun vizio?
“Certo che sì! Era una fumatrice incallita. Un giorno mi ha raccontato che lei e suo fratello, piccolissimi, non avendo sigarette, arrotolarono foglie di geranio e fumarono quelle. Le piaceva proprio, ha fumato fino alla fine, malgrado io la rimproverassi”.
Qual è il ricordo più bello che ha di lei?
“Avevo sei anni, mi ero rotta il gomito. Dovevo essere operata al Rizzoli di Bologna. Trascorremmo due giorni da sole, andavamo da sole a passeggiare, da sole a cena. Lei era particolarmente affettuosa. Di solito mostrava affetto ma non in maniera fisica. Da questo punto di vista era molto più espansivo mio padre”.
Pensa di somigliarle in qualcosa?
“Ah, questo dovrebbero dirlo gli altri. Io ho sempre voluto essere come lei, ma non ho la sua eleganza ed è troppo tardi per avere la sua cultura. Mi ci vorrebbe un’altra vita per leggere tutti i libri che ha letto. Forse un po’ da lei ho appreso l’apertura verso gli altri, l’affabilità col prossimo. Quanto le piaceva conoscere chi le stava di fronte! Le sarebbe piaciuto palare con lei, si illuminava quando vedeva i giovani. Le avrebbe fatto mille domande, si sarebbero invertiti i ruoli, si sarebbe trasformata lei nella giornalista”.
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