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La guerra dei numeri
 

 

la guerra dei numeri
le ragioni per non tornare
il primo giorno
solo per un giorno
un paese a metà

 

Una veduta aerea di kolibe dalla cima del minareto

Non è facile avere dati sul rientro dei profughi. Alla guerra che ha distrutto gli archivi si somma un certo orgoglio campanilista, e l’impressione è che un misto di vanteria e speranza porti sempre ad aumentare di qualche unità il numero effettivo degli abitanti.

Kolibe Donje, la metà cattolica, secondo il parroco, prima della guerra aveva 4000 abitanti. Ora ci vive una ventina di famiglie. “Ma le case col tetto – precisa don Zeliko - sono 48”. Spiega che il tetto è la cosa più importante, perché è segno della volontà di tornare. La casa magari non è finita, ma comunque diventa abitabile. E infatti ogni tetto tirato su si festeggia con l’uccisione di un maiale e l’arrivo di parenti da decine di chilometri.
La maggior parte dei profughi di Donje Kolibe vive ancora in Croazia, a Slavonski Brod, una cittadina appena oltre il confine. Ma pur sempre abbastanza vicino a casa per venire a messa qui tutte le domeniche. E andare avanti un po’ alla volta con i lavori. “Con molte famiglie lontane sono in contatto - ammette don Zeliko - ma di altre non so assolutamente nulla. Credo che alcune non torneranno mai più”.

Sono fieri invece dei loro dati molto più dettagliati precisi gli abitanti di Kolibe Gornje, la metà musulmana. Nel 1991 c’erano, in base al censimento, 1398 abitanti. “Ma secondo l’Enciclopedia britannica -precisa Senad, che ha curato il recente almanacco del paese - eravamo 1401. Le case di proprietà erano di sicuro 403”. Tanta esattezza si spiega per un motivo: per ottenere gli aiuti internazionali hanno dovuto presentare documentazioni precise, e una mappa dell’aspetto originario del paese. Così Senad è in grado di assicurare che dal settembre 1998 (data in cui arrivarono i primi) sono tornate 600 persone. Di queste, ben 420 ormai vivono qui stabilmente, le altre vengono solo in estate a ricostruirsi poco per volta la casa. Anto sta costruendo una stalla per i maiali

Il numero molto superiore a quello dei cattolici è per i musulmani motivo d’orgoglio. Ma dall’altra parte la lentezza dei rientri viene motivata con le più varie giustificazioni. “Questa zona è in mano ai serbi” dice Pavo. “I miei figli a scuola dovrebbero scrivere in cirillico”. “La scuola serba non piace neanche a noi” ribatte Senad. “Però se i cattolici tornassero avremmo più potere contrattuale. Sarebbero costretti a prenderci in considerazione. Finché siamo pochi possiamo solo subire”. Aggiunge Kenan, un giovane musulmano: “Molti nostri amici, quando siamo tornati, ci hanno dato dei pazzi. Però noi abbiamo creduto alla ricostruzione”.

E aggiunge: “Sfido che i cattolici non tornano. Sono in una posizione di favore. Questa regione, prima della guerra, era a maggioranza croata. La Croazia sperava di inglobarla, e così ha sempre trattato bene i cattolici. Poi Tudjman ci ha ripensato, ha deciso di svendere questa zona al governo serbo, e in cambio si è ripreso l’Erzegovina. E come ha risolto il problema dei profughi? Assicurandogli una casa in Croazia. Così tutti contenti tranne noi, che come sempre siamo stati abbandonati”. Sulla politica del governo croato è d’accordo anche Pavo. Ma se la prende con i politici croati di Bosnia, che non s’impegnano per far rientrare i compatrioti. Più originale la spiegazione di don Zeliko: “Ovviamente, quando la guerra è scoppiata, i musulmani sono scappati verso l’interno. Noi invece ci siamo rifugiati oltre il fiume. Per questo, dopo che il ponte è stato distrutto, non siamo potuti fisicamente tornare”.

L’altra polemica è sulla questione dei fondi. “I musulmani” afferma il parroco “sono pieni di aiuti”. Mi mostra un volantino che sta preparando, da spedire in Austria ad una parrocchia con la quale è in contatto. Recita: “I cristiani hanno bisogno del tuo aiuto”. “La situazione - sostiene don Zeliko - è scandalosa. Il 98 per cento degli aiuti della Caritas va ai musulmani. Come cristiani aiutiamo tutti e va bene. Ma così è troppo. Pensare che quelli prendono soldi da tutte le loro sette, dai paesi arabi: e ovviamente se li tengono per loro”.

Senad smentisce del tutto questa versione: “La differenza è che noi ci abbiamo creduto. Ci siamo arrangiati, abbiamo lavorato tutti insieme per aiutare chi non ce la faceva. Ci ha dato forza la disperazione: dovevamo restare in Croazia a morire di fame?”. Dello stesso parere è in realtà anche Nenad, dell’unica famiglia serba che oggi vive a Kolibe: “Tutti ci chiedono perché siamo tornati. Ma è comodo per chi in Croazia ha una casa dallo stato e può venire qui i fine settimana. Noi non abbiamo avuto alternativa”.


 

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