Passo per strada con la telecamera, una donna in un cortile mi
invita a entrare. Ha trent’anni, si chiama Jasminca.
Mi invita in casa, mi offre da bere, mi chiede che faccio per vivere.
“E tu cosa fai?” le chiedo io. “Niente”
risponde. Si scopre la coscia e mi mostra una ferita che le risale
la gamba. “Ho combattuto - dice - ora ho una pensione. Sto
qui, aspetto il tempo che passa”. Tra i pochi altri
che vivono a Kolibe stabilmente c’è don Zeliko, il
parroco della chiesa cattolica. Alla sera siede sul terrazzo col
cane. Mi racconta che non capisce le paure degli altri, la paura
dei serbi e della solitudine. “Amo stare solo” mi dice:
“Potrei dormire là, in mezzo alla strada”.
Anto vive con don Zeliko nella casa parrocchiale,
perché sua moglie si è rifiutata di tornare:
“Non è venuta nemmeno a vedere. Io un po’ alla
volta ho sistemato la casa. Adesso è pronta, pulita ma vuota”.
La moglie di Anto ha un appartamento in Croazia. “L’altra
settimana mi ha chiesto i soldi del riscaldamento, ma io non glie
li ho voluti dare. Ho una casa qui, non posso mantenerne due”.
Ma Anto non riesce a dormire da solo, così si è accampato
da don Zeliko. Va a casa ogni tanto, a tenerla pulita o a raccogliere
prugne. E come lui sono in tanti che qui hanno solo una
vita a metà.
Kenan, 23 anni, vive a Sarajevo per frequentare
l’università. Suo fratello Dzenan, invece,
lavora a Odzak. Il loro sguardo su Kolibe è disincantato:
“Siamo orfani di guerra, ma in un certo senso siamo fortunati:
riceviamo una pensione per nostro padre. Le altre famiglie sono
ridotte a sperare negli aiuti dall’estero. Il massimo che
puoi fare è lavorare a giornata, o arrangiarti con quel che
coltivi nell’orto. Chi ha potuto, ha sposato qualcuno
di fuori, semplicemente per andare via". Dzenan sta
mettendo da parte un po’ di soldi, con la speranza di aprire
un negozio. "Ma non so se amo questo posto al punto di non
voler vivere da un’altra parte”.
C'è anche chi ha già deciso. Come
Admir, che da anni vive in Italia ed è sicuro
che non tornerà. “Sarebbe troppo strano vivere qui
pensando che poco tempo fa quelli del paese vicino mi bombardavano.
I miei quando andranno in pensione torneranno, io e mia sorella
verremo al massimo per le vacanze”. Admir fa il dottorato
in chimica a Torino, e pensa di aprire un’azienda in spin
off". “Qui non ci sono opportunità per i giovani.
Anche della vicina raffineria oggi funziona solo una piccola
parte, e comunque quei pochi posti sono dei serbi”.
Anche per questo la grossa differenza è avere o non avere
un parente all’estero. Uno stipendio medio è sui 250
marchi (100, 120 euro), una pensione anche di soli 100 marchi: “Un
solo euro può fare la differenza. Conosco una donna
che vive vendendo cipolle e il latte della sua unica capretta. E’
assurdo essere ridotti allo stadio preistorico di vivere di quello
che si raccoglie”.
A sentirlo parlare torinese è strano pensare che tutto è
iniziato da un colpo di fortuna. “Mio padre era stato avvisato
da alcuni amici, così siamo fuggiti appena in tempo".
In ottobre la fuga verso Fiume, dove il padre, metalmeccanico, aveva
trovato lavoro. Nel 1994 la famiglia si è spostata in Germania,
tranne Admir che doveva finire la scuola: “I miei non volevano
che perdessi anni a imparare la lingua. Così sono
rimasto solo nel campo profughi. Avevo le mie regole, me
la sono cavata bene. Il campo era pieno di volontari italiani, col
tempo siamo diventati amici. E quando ho finito la scuola mi hanno
detto: è un peccato che tu non continui gli studi. E mi
hanno offerto il primo anno di università. I miei
preferivano che andassi a stare con loro. Però era chiaro
che era una grandissima opportunità. E poi ho trovato modo
di continuare”.
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