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Daoci,
un monaco
a spasso per Roma
Il monaco di uno dei luoghi sacri
della Cina nel cuore
del commercio cinese della capitale
Un
giro lungo il quartiere per incontrare i fedeli prima del
viaggio di ritorno in Cina. Diecimila
chilometri separano l’Esquilino,
uno dei quartieri più popolati di Roma con i suoi mille
cinesi, e Putuo,
“il regno del Buddha”, un’isola
di soli 12 chilometri quadrati dove vivono mille monaci.
Un lungo viaggio per Daoci, “abate”
dei sessanta monaci del monastero di Huiji,
uno dei cinquanta templi di Putuo, venuto
in visita al tempio buddhista di via Ferruccio.

Daoci è rimasto a Roma
quasi tre settimane per celebrare le cerimonie giornaliere
e adesso visita negozi e, su richiesta, anche case per pregare
assieme ai fedeli e “benedire”, in particolare,
i bambini.
I cinesi del quartiere gli lasciano offerte che porterà
in Cina e gli chiedono di benedire anche
degli oggetti che collocano accanto a candele.
Seduto al tavolo di un ristorante cinese, all’inizio
mostra reticenza, “non conoscete bene il buddhismo,
temo che le mie parole siano travisate”, poi dopo molte
rassicurazioni, si decide a raccontare. Non parla italiano
né inglese, a tradurre dal cinese è Chen,
studioso di filosofia, venuto dal Piemonte per incontrarlo.
“A 20 anni ho deciso di scegliere la vita monastica.
Per diventarlo – dice Daoci –
devi avere almeno 18 anni, un titolo di studio che corrisponde
alla vostra terza media e una grande fede. I tuoi genitori
devono essere d’accordo. Non basta altro, devi presentarti
al tempio dove non ti rasano immediatamente il capo ma ti
tengono in prova per un anno. Io ho studiato all’accademia
di Nanchino. Adesso invece la formazione
si fa anche a Putuo”.
Le regole della vita in convento sono molto severe: sveglia
alle tre e mezzo del mattino, preghiera, e colazione alle
5 e mezzo. Subito dopo è il momento dei fedeli che
di solito chiedono ai monaci cerimonie “su misura”,
per esigenze di vario tipo. Ai credenti, spiega Daoci,
non è richiesto però il rispetto di rituali
rigorosi: “devono solo avere Buddha nel cuore”.
Alle dieci e mezzo i monaci si mettono a tavola, la regola
impone infatti di pranzare prima di mezzogiorno. Segue il
riposo e un nuovo incontro con i fedeli, dall’una e
mezzo alle quattro e mezzo del pomeriggio. Il rituale serale
invece prevede cerimonie in onore dei morti: si augura loro
un buon passaggio nell’aldilà. Alle nove di sera
si spengono le luci, è ora di riposare.
La scuola di Putuo è quella di Tiantai,
che appartiene alla corrente del Mahayana,
il Grande Veicolo, definita
da Daoci “una nave più grande
che fa passare da una sponda ad un’altra, più
grande”.
Sono tre milioni i fedeli che ogni anno giungono
a Putuo da ogni parte del mondo (tra cui
Giappone, Indonesia, Malesia).
In passato i templi erano più di 200 ma molti dovevano
restare chiusi perchè la religione era proibita. Perciò
adesso ne sono rimasti solo una cinquantina. Il rapporto con
il regime comunista negli ultimi anni è cambiato, in
Cina sono entrati in monastero ventinovemila
monaci. I
buddhisti praticanti sono circa cento milioni
contro i 65 milioni di iscritti al partito.
Il ritorno del sacro in un paese votato sempre più
al consumismo e dove si estende il divario tra ricchi e poveri,
per le nuove generazioni è soprattutto un modo per
recuperare la cultura tradizionale per anni bandita dal regime.
Per un’intera generazione la memoria storica dei riti
e delle credenze è rimasta infatti avvolta nel buio
totale.
Oggi invece piuttosto che reprimere la religione, il governo
ha deciso di tollerarla pur mantenendo su di essa uno stretto
controllo. Le nuove generazioni di monaci vengono formate
tutte nelle università buddiste di stato. Le organizzazioni
“rivali” sono ammesse ma solo se fanno atto di
obbedienza all’autorità politica. “Non
abbiamo gli stessi problemi di prima – spiega Chen
– ma resta il fatto che il governo può stabilire
se un’organizzazione religiosa danneggia la stabilità
del paese. Questo è un pericolo però in pratica
non ci sono problemi perché c’è un grosso
esercito di devoti”.
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