Un dopoguerra infinito da Sarajevo a Urbino
URBINO- “Molti giovani europei non sanno neanche che la Bosnia è in Europa. Vanno al mare in Croazia e credono che dietro non ci sia niente. Sono contenta che ora almeno tre persone sappiano cosa è successo e chi siamo”. Mersiha Kovacevic, 22 anni, studentessa di Sarajevo, è venuta in Italia per parlare del suo paese. Di come il conflitto nella ex-Jugoslavia abbia cambiato intere generazioni. E di come, a volte, sembri che la guerra non sia mai finita. Assieme a Elsada Lagumdzic, sua coetanea e compagna di Università, e Azra Ibrahimovic, dell’associazione Cesvi a Sarajevo, è intervenuta all’incontro “Le donne e i giovani: l’infinito dopoguerra della Bosnia Erzegovina” organizzato giovedì 12 maggio al Collegio Raffaello assieme al loro professore di italiano all’università di Sarajevo, Daniele Onori.
Un evento fortemente voluto dal Comune di Urbino e dall’associazione “la Ginestra”, che dal 2010 è impegnata nel progetto interculturale “Cantiere Srebrenica”. Proprio la cittadina bosniaca, dove nel 1995 si è compiuto il più grande massacro d’Europa dalla fine della seconda guerra mondiale –più di 8.000 civili bosgnacchi (i cittadini musulmani della Bosnia) uccisi dalle truppe serbo-bosniache e seppelliti in fosse comuni- è il soggetto di “Cono d’ombra”, il documentario del regista Andrea Laquidara. Un dramma di cui Azra (nata a Srebrenica), ma anche Mersiha e Elsada, cresciute come migliaia di giovani bosniaci tra gli orrori del conflitto, portano ancora le ferite.
Le due studentesse ci parlano di una società profondamente divisa, di un difficile cammino verso la democrazia e di un passato che pesa sulle nuove genereazioni, nonostante loro non abbiano intenzione di rimanerne schiacciate. “Sono passati 16 anni dalla fine del conflitto – racconta Elsada – eppure vivamo costantemente nel dopoguerra. Le tracce della distruzione sono ben visibili a Sarajevo, ma quelle psicologiche sono ancora più potenti, perché sopravvivono nella divisione della popolazione bosniaca”. “Prima della guerra- spiega Mersiha- c’era una coesione tra cattolici, ortodossi e musulmani, e si vedeva soprattutto durante le festività, quando trovavi insieme nelle stesse case musulmani, cattolici e ortodossi. Ora tutto questo non c’è più. A Mostar, ad esempio, il fiume divide i croati cattolici dai bosgnacchi musulmani. E nelle cittadine la differenza è ancora più evidente”.
La Bosnia-Erzegovina è divisa tra Serbi di confessione ortodossa, Croati cattolici e Bosniaci musulmani, detti Bosgnacchi. E ogni gruppo reclama la sua Bosnia. “Ma siamo tutti Bosniaci –insiste Mersiha- e queste divisioni sono assurde. La religione dovrebbe essere una cosa personale e invece qui entra in tutto, nell’economia come nella politica. Quando compiliamo dei formulari dobbiamo sempre indicare il nostro gruppo di appartenenza. E dai cognomi si sa a cosa appartieni”. E’ sconsolata Elsada. Racconta della scuola, dei genitori che influenzano i figli, dei libri di storia. “Abbiamo tre presidenti. E quindi, tre punti di vista. Non esiste un libro di storia imparziale, che racconti semplicemente come siano andati i fatti. Il professore cattolico ne sceglierà uno di storia che racconti la sua versione, e il professore di religione musulmana farà altrettanto”.
E come vivono i giovani questo lungo dopoguerra? “Siamo confusi –dice Mersiha- non sappiamo a chi credere. Io non guardo più la tv. Solo quando parlo con gli stranieri sento di conoscere un po’ il mio paese”. “Per i giovani della nostra età –continua Elsada- è difficile parlare della guerra, e quindi elaborarla, perché non siamo sicuri di quello che stiamo dicendo. I nostri genitori ci influenzano molto. Quando siamo tra noi ragazzi, soprattutto all’Università, stiamo tutti insieme: non esistono differenze tra serbi, croati e bosgnacchi. Però cerchiamo di mantenerci a distanza dall’argomento, la persona potrebbe offendersi. Ognuno ha le sue ferite”.
Elsada è realista. Secondo lei il periodo del dopoguerra durerà ancora molto: “Ci sono problemi economici, che non si sentono tanto a Sarajevo quanto nei centri minori. C’è la corruzione e sinceramente dell’Unione Europea non mi fido molto. Ci mandano i soldi, magari per lavarsi la coscienza, ma non controllano chi li prende”. E’ ottimista, invece, Mersiha: “Credo in un futuro migliore, forse non con la mia generazione, ma con le prossime. Perché non ho alcuna intenzione di insegnare a mio figlio a odiare un serbo o un croato”.