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Dagli Usa il giornalismo immersivo: notizie reali nel mondo virtuale

di    -    Pubblicato il 2/02/2012                 
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URBINO - Vivere la notizia da protagonisti e non più da spettatori: è la nuova sfida dell’informazione. Stiamo parlando di immersive journalism, ossia ‘giornalismo immersivo‘, l’ultima frontiera dei media americani. Dopo il web, è il 3D a offrire un linguaggio finora inesplorato.

Il fatto è riprodotto in una realtà virtuale grazie al supporto di una piattaforma analoga a quella dei videogame. Lo spettatore viene catapultato in una realtà parallela che vive in prima persona, provando le stesse emozioni e sensazioni che proverebbe se lo vivesse nella realtà vera. Il tutto grazie a un’apposita maschera applicata sugli occhi, un apparecchio tecnologicamente sofisticato che produce un effetto molto più realistico di quello che si prova nel vedere un film in 3D al cinema.

L’immersione è totale perché si ha l’impressione di stare con il proprio corpo dentro alla situazione virtuale, il risultato è molto più forte rispetto all’immedesimarsi in un avatar esterno. Insomma un mix tra realtà, drammaturgia e giornalismo che si traduce in un’esperienza sensoriale ed emozionale. Ad inventarlo Nonny De la Peña, giornalista e documentarista di Los Angeles, ex corrispondente del Newsweek Magazine.

LA NOTIZIA ‘VIRTUALE’ – La sua ultima creazione Hunger in Los Angeles è stata presentato al padiglione ‘Nuove frontiere’ del Sundance Film Festival a Park City nello Utah.

Lo spettatore si ritrova a far la fila davanti a una mensa per i poveri. E’ una mattina d’agosto, fa molto caldo, ci sono tante persone, forse troppe e l’atmosfera è tesa. All’improvviso un uomo si sente male, crolla a terra, non mangia da molto tempo ed è in preda a una crisi diabetica che gli causa il coma. La folla è in preda a una sorta di isteria collettiva, c’è chi ne approfitta per rubare il cibo. E poi tutto si dissolve e lascia spazio alla scritta: “Una persona su sei in America ha fame. Una su cinque è un bambino”.

Non è fiction, ma è la ricostruzione di un fatto attraverso un linguaggio nuovo, che arriva a dare un messaggio generale. “L’idea – racconta la giornalista – è descrivere la crisi che stiamo vivendo attraverso l’insicurezza alimentare”. Lo spettatore è immerso in questa realtà digitale, diventa testimone della notizia, prova sulla sua pelle cosa vuol dire ‘morire di fame’.

LA REAZIONE DEL PUBBLICO – “La risposta è stata incredibile. Lo abbiamo testato su quasi 500 persone ed è stato scioccante per me – ammette De la Peña – vedere come ognuno diventasse davvero triste per non aver potuto aiutare quel ragazzo. Una donna si è messa a piangere; un’altra in ginocchio cercava di rassicurarlo, altri gli tenevano la mano; i bambini si rivolgevano agli adulti affinché facessero qualcosa. Questo coinvolgimento mi ha fatto capire che la nostra responsabilità è ancora più grande. Quando li guardavo togliersi la mascherina, mi chiedevo: Wow, ma cos’abbiamo costruito?”.

L’illusione della realtà è resa più forte dall’audio, autentico, registrato in presa diretta da una sua collaboratrice che, per caso, ha assistito al fatto. In prospettiva si potrebbe pensare a riprodurre anche avvenimenti più grandi di cui si conservano le registrazioni: impressionate immaginarsi sul volo United Airlines 93 prima dello schianto sulle Torri Gemelle.

QUESTIONE DEONTOLOGICA – Ma tutto questo cosa c’entra con il giornalismo? “La domanda vera è: che cos’è il giornalismo? E’ il racconto di una notizia in modo trasparente. Questa è anche l’anima dell’immersive journalism, perché trasporta il pubblico sul posto, gli fa vivere in prima persona gli eventi che potrebbero essere descritti in un articolo o un servizio televisivo o radiofonico, gli fa ascoltare le parole e i rumori, gli fa vedere le immagini di quei momenti. In fondo è l’applicazione dei principi tradizionali del giornalismo alle nuove tecnologie”. Quello che si perde, però, è l’immediatezza della notizia, la velocità di comunicazione.

IL PROTOTIPO - Hunger in Los Angeles è il risultato di una ricerca iniziata nel 2007 da Second Life su cui la De la Peña ha creato alcuni prototipi, tutti associati a temi sociali e diritti, come Gone Gitmo, un’esperienza virtuale attraverso un avatar dentro la prigione di Guantanamo Bay.

Un’occasione per esplorare un posto inaccessibile nella realtà concreta e per provare la sensazione di essere detenuti, arrivando a capire più in profondità la gravità dei diritti violati, anche grazie a video-testimonianze di ex-detenuti.

NON E’ UN NEWSGAME – Sembra un gioco ma c’è molta differenza dai newsgame, come questo esempio pubblicato su Wired. “I newsgame – spiega De la Peña – adottano il modello del gioco, con regole da seguire, obiettivi da raggiungere e livelli da superare. L’immersive journalism non è un gioco, è la rappresentazione virtuale della realtà, lo spettatore è messo dentro una notizia con il solo obiettivo di viverla da testimone. Alla fine non ha un punteggio, ma vissuto un fatto e ha imparato qualcosa attraverso le emozioni che ha provato”.

NUOVE SFIDE – Quale sarà la prossima immersione di questo giornalismo interattivo? “Ci sto lavorando. Mi piacerebbe collaborare con qualcuno che ha una bella storia o un bel pezzo audio. Poi vorrei creare un’applicazione per iPhone, in modo che si possa usare solo lo schermo evitando di indossare questo ‘casco’, un po’ troppo ingombrante”. Così potremmo sempre avere in tasca la possibilità di ‘fare un tuffo nella notizia’.

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