Il lavoro del giornalista? Un continuo evolversi, a partire dalla formazione. Dalle competenze richieste al singolo fino alla tecnologia che si può mettere al servizio del proprio lavoro, sono molti i progetti delle scuole di giornalismo e delle università di tutto il mondo che tentano di fornire un’educazione il più completa possibile alle nuove generazioni di cronisti.
In Francia, per esempio, già da qualche anno ‘spopolano’ i doppi diplomi. Agli studenti di giornalismo, infatti, è offerta la possibilità di ottenere un “double diplome”, che conferisce due titoli: quello di giornalista, appunto, e un’altra laurea non necessariamente connessa.
Capofila della scuola dei “doubles diplomes” è stato il progetto della scuola di Giornalismo Sciences Po, che nel 2008 si è unita alla Columbia University nel tentativo di offrire, di fronte alle mutazioni del giornalismo, “una formazione integrata e complementare”, idonea al mercato globalizzato. In sostanza, gli studenti ottengono una doppia laurea seguendo un corso della durata di due anni, un anno per ogni scuola di giornalismo.
La stessa Columbia University ha aperto poi il centro Dart per il giornalismo e il trauma, dedicato a come affrontare notizie su violenze, conflitti e tragedie. Scopo del corso è incrementare le competenze necessarie per interagire con le vittime di traumi, portando avanti le interviste con compassione e rispetto. Il centro fornisce ai giornalisti di tutto il mondo le risorse necessarie ad affrontare questi temi, avvalendosi di una rete globale interdisciplinare di professionisti di notizie, esperti di salute mentale, educatori e ricercatori.
L’offerta migliore, però, sempre francese, è quella dell’Institut pratique du journalism e della facoltà di Chimie ParisTech. I due istituti propongono infatti una doppia laurea, in giornalismo e ingegneria, per “formare una figura di giornalista in grado di affrontare livelli di informazione sempre più complessi”. Lo scopo è formare non solo giornalisti scientifici, ma tener anche conto di come il mestiere si stia evolvendo: le conoscenze scientifiche che gli studenti acquisiranno durante il percorso di studi potranno essere, così, molto utili alla formazione di giornalista.
Anche oltreoceano il doppio diploma trova audience. La scuola di giornalismo dell’Università dell’Arizona consente infatti ai propri studenti di “raddoppiare le proprie opzioni” con una laurea in giornalismo accoppiata a uno tra cinque diversi programmi: studi latino-americani, studi medio–orientali e nord africani, pubblica amministrazione, suolo, acqua e scienze ambientali, risorse dell’informazione e scienze bibliotecarie.
E la tecnologia? Le ultime frontiere della professione riguardano il drone journalism, l’uso di velivoli droni al servizio del cronista. Due progetti, il Drone Journalism Lab dell’Università del Nebraska e il Drone Journalism Program dell’Università del Missouri, tentano la carta di fornire ai nuovi giornalisti gli strumenti per utilizzare i maneggevoli apparecchi per il proprio lavoro.
Il progetto del Nebraska è iniziato già a novembre 2011 e fa parte della macroarea di giornalismo digitale e strategie innovative. Il laboratorio è stato creato da Matt Waite - professore e vincitore del premio Pulitzer nel 2009 – che spiega sul sito come, con la rapida evoluzione del mestiere, l’educazione giornalistica debba crescere “insegnando nuove frontiere e strategie narrative, che rimangono i punti principali ed etici del giornalismo”.
In questo laboratorio, tre studenti – uno prossimo alla laurea, uno più giovane e uno al secondo anno di università – affiancano Waite nel creare fisicamente creare i droni, sperimentarli e cogliere i problemi etici, legali e di regolamentazione che l’uso di velivoli senza pilota comporta nel fare giornalismo. “Non abbiamo un programma da seguire – spiega Waite – perché nessuno lo ha mai fatto prima. Stiamo cercando di scrivere le regole, o quelle che noi pensiamo dovrebbero essere le basi di come i giornalisti potrebbero usare droni per il giornalismo”.
Negli Stati Uniti, tuttavia, l’uso di questi mezzi per scopi commerciali – e il drone journalism fa parte di questi – è ancora vietato dall’Ente di aviazione federale (FAA). C’è da aspettare il 2015, anno che il Congresso americano ha stabilito come deadline per renderne legale l’uso in questi campi. “Poiché l’utilizzo di droni per il giornalismo è illegale – continua lo studioso – non mi sembrava giusto per insegnare agli studenti di utilizzare abilità che non potevano utilizzare una volta usciti dalla scuola”.
Waite rivela anche che il collegamento con un altro genere di giornalismo, il data journalism, è presto fatto: i droni, infatti, potrebbero essere impiegati per aiutare a raccogliere dati migliori per stimare le dimensioni degli eventi. “I droni – dice – offrono ai giornalisti la possibilità di avere storie che altrimenti potrebbero non ottenere. Sono molto meno costosi di aeromobili con equipaggio. E sono programmabili, in modo da poterli utilizzare per raccogliere dati, video e foto. In sintesi, sono un altro strumento per aiutare i giornalisti a raccogliere maggiori informazioni”.
Il problema principale da affrontare, allora, rimane la privacy: un acceso dibattito si è aperto su come un drone possa invadere la sfera privata delle persone. Molti si trovano d’accordo sull’adozione di un codice etico per evitare un uso scorretto del mezzo. Sul punto, indicazioni precise arrivano da Matthew Schroyer, fondatore della “Professional Society of Drone Journalists”, che sostiene la necessità di “stabilire degli standard che rispettino il diritto alla privacy e alla sicurezza pubblica, pur consentendo ai giornalisti di svolgere le funzioni di quarto potere”.
E nel prossimo futuro cosa ci sarà? Matt Waite non ha dubbi. “Facile – dice – i Google’s Project Glass. Video in prima persona e realtà aumentata possono davvero incidere su lavoro dei giornalisti e sul modo di raccontare storie”.