“Come tutte le epoche anche la nostra è un’epoca ideologica. E miope. Nel senso che siamo imbevuti di ideologia ma non ce ne accorgiamo, ci illudiamo di non esserlo. Ci professiamo laici. Dobbiamo stare attenti a riconoscere le ideologie e a smascherarle. E questo è il tipico compito degli intellettuali”. Giuseppe Laterza, uno dei più grandi editori italiani, ospite a Urbino per il Festival del giornalismo culturale, non ha dubbi: di intellettuali la società contemporanea ha bisogno. Il perché è presto detto: sono loro che aprono a visioni del mondo più approfondite e inconsuete e ci traghettano verso una percezione della realtà meno limitata. E poi perché, citando Keynes, non ci si può orientare nel mondo senza idee e l’elaborazione di queste è compito degli intellettuali.
Proprio per spiegare costruzioni complesse come quella europea, Laterza ha avviato il progetto di Eutopia, una rivista multilingue nata dalla collaborazione con le case editrici S. Fischer Verlag (Germania), Editorial Debate (Spagna), Édition du Seuil (Francia) all’interno della quale si confrontano i maggiori intellettuali europei. A quale scopo?
“Eutopia vuole rimettere al centro il dibattito sull’Europa. Per molti anni è sembrato che questa fosse stata pensata solo per necessità economica. Ma non è quello che in realtà volevano i padri fondatori, tra cui Altiero Spinelli. Loro desideravano un’Europa nella quale si realizzassero ideali di giustizia, libertà e socialità. Invece durante questi anni di crisi economica l’Europa è stata usata maldestramente dalle classi dirigenti per giustificare politiche di tagli e sacrifici, con il risultato della disaffezione di una larga parte dell’opinione pubblica. La rivista parte dal presupposto che tutto vada discusso ciclicamente, anche la politica europea. Le limitazioni nell’autodeterminazione dei paesi che l’adesione alla comunità europea comporta possono giustificarsi solo in nome di un grande progetto intellettuale, culturale e quindi anche politico ed economico”.
Ritiene che queste idee non circolino all’interno dei 28 paesi dell’Unione?
“Sì, ma la loro elaborazione non si può fare solo attraverso dibattiti nazionali, come avviene oggi, i tedeschi discutono tra tedeschi, gli italiani tra italiani, alimentando peraltro pregiudizi reciproci e diffidenza. Attraverso Eutopia, invece, il dibattito diventa intraeuropeo e accessibile a tutti non solo a circuiti accademici e specialistici”.
Quindi, secondo lei, gli intellettuali sono mediatori tra grandi tematiche e problemi della società contemporanea e opinione pubblica.
“Non proprio in questi termini. Gli intellettuali non parlano a tutti. A me basta che siano in grado di svolgere un ruolo nei confronti della classe dirigente, per come la intendeva Piero Calamandrei, ovvero una classe che comprende politici, imprenditori e insegnanti. Gli intellettuali devono convertire le proprie competenze specialistiche in un’analisi critica della società che consenta, poi, a politici, imprenditori e insegnanti di tradurre a loro volta questa in contenuti attivi”.
E pensa che ci sia qualcuno in Italia in questo momento a svolgere questo tipo di lavoro?
“Certo. Abbiamo tantissimi intellettuali che si spendono nel dibattito pubblico in Italia. Stefano Rodotà, Tullio De Mauro, Gustavo Zagrebelsky, Sergio Romano, Ernesto Galli della Loggia, Luciano Canfora, solo per dirne alcuni. Che ne dice di Tito Boeri? È un grande intellettuale: interviene su La Repubblica, ha fatto festival di economia, ha creato un sito Lavoce.info. È un economista, sì, ma che fa un lavoro pubblico. Ma sono solo alcuni. Ho citato finora solo uomini di penna ma ci sono intellettuali anche tra musicisti, registi o altro. Fiorella Mannoia, per esempio, o ancora Gino Strada sono intellettuali ma non nell’accezione stretta del termine. Nel momento in cui ciascun specialista svolge un’attività che non è costretta entro i confini del suo lavoro tecnico e fa un servizio per la collettività attraverso l’analisi e il dibattito, fa lavoro intellettuale. Ed è un bene che ce ne siano tanti perché la società ha bisogno di visioni del mondo e non possiamo relegarle ai politici, che perseguono spesso una logica di breve periodo”.
E gli intellettuali che sposano determinate cause politiche? Penso ai casi di Barbara Spinelli e Moni Ovadia candidati nella lista Tsipras per le prossime elezioni europee.
“Credo che gli intellettuali possano scegliere di entrare nell’arena politica, di diventare essi stessi politici. Però questo significa che cambiano mestiere. In questi casi l’intellettuale smette il suo habitus perché egli per definizione non ha partiti presi, anzi ha una geografia mobile dal punto di vista del suo impegno pubblico. L’intellettuale deve essere una persona libera, deve dare fastidio a tutti, non può costringersi in logiche di efficacia politica”.
Per quanto riguarda il linguaggio del dibattito culturale invece? Non crede che ci si sia spostati dalla critica all’invettiva?
“Sì, direi che c’è stato un condizionamento dei mezzi di comunicazione che ci ha spinto tutti al grido, all’urlo, come nei talk show in cui non si può ragionare perché tutto va buttato in caciara”.
Colpa dei social network? Hanno condizionato il modo di esprimersi di chi fa lavoro intellettuale?
“Penso che i social network siano un mezzo molto interessante ma sappiamo ancora poco come utilizzarli. Sono sicuro che però troveremo un equilibrio. Dobbiamo stare attenti a non perdere la qualità in nome della velocità. Io uso Twitter, per esempio, ma se pensassi che il mio universo mentale si concentri solo in un tweet limiterei le mie modalità espressive. È come mangiare al McDonald’s. Certo ha dei vantaggi, costa poco e mangio un prodotto di sicuro gusto. Però se mangio sempre e solo quello divento come quegli americani obesi che passano tutto il loro tempo davanti alla televisione”.