URBINO – È l’immagine di un Paese e di un giornalismo immobile, retrogrado, legato a un passato che non ha saputo elaborare quella disegnata da Italo Moscati. Nella lectio tenuta al teatro Sanzio, che ha aperto la sessione pomeridiana della seconda giornata del Festival del giornalismo culturale, il regista, autore e critico cinematografico ha tracciato un percorso che, dal cinema all’informazione, mette in risalto il manierismo della cultura italiana e il senso del “nuovismo” che fa perdere tempo. Una provocazione intuibile già dal titolo di quello che lui stesso ha definito un racconto e non una lectio: “Coccodrilli e sfere di cristallo. Il giornalismo culturale affascinato dalle commemorazioni e dal nuovismo anche senza futuro.
“I coccodrilli mi sono venuti in mente – spiega Moscati – pensando al 25 aprile. Quando Bologna fu liberata dall’occupazione nazista. Io ero lì, ero piccolissimo. Ho il ricordo di una città che non aveva luce elettrica, dove le case erano illuminate con le candele. Quando ci annunciarono l’arrivo delle truppe polacche ci affacciammo alle finestre e vedemmo una grande festa. La gente era in piazza, sotto i portici, esultava, erano tutti felici. Quella stessa mattina però rimasi impressionato dal fatto che nel nostro paese la morte avesse più importanza della vita: mentre la gente festeggiava la Liberazione, in radio venivano lette delle targhe funebri dei caduti in guerra”.
Moscati ha scelto un ricordo d’infanzia per affermare l’idea che oggi come ieri “la nostra stampa d’informazione culturale vive di suggestioni che vengono dal passato, che indugia sui caduti, sui lutti e sulle cose funebri”. E per esprimere questo senso di immobilismo dell’informazione culturale ha messo a confronto due grandi film che in modi diversi hanno raccontato la figura del giornalista italiano: La dolce vita di Federico Fellini e La grande bellezza di Paolo Sorrentino. “Cosa è cambiato da Marcello Rubini, giornalista che sembra quasi un Fabrizio Corona dei nostri tempi, a Jep Gambardella, l’uomo con l’identità fissata negli anni ’60 che non riesce a vivere nella contemporaneità?”, ha chiesto al pubblico Italo Moscati, rispondendo che “non è cambiato nulla, l’Italia immobile è ben espressa dal grandissimo senso di vuoto della Roma di Sorrentino”.
A questa immagine Italo Moscati ha voluto che la platea associasse una frase che Indro Montanelli pronunciò durante una sua intervista e che per lui è stata illuminante. “Montanelli disse di non ‘desolidarizzare con la propria generazione’, allora io mi sono chiesto quanti giornalisti, negli anni intercorsi tra Marcello Rubini e Jep Gambardella, hanno avuto il coraggio di farlo e portare avanti le proprie idee? Forse una frattura – afferma Moscati – c’è stata negli anni di piombo, gli anni in cui il giornalismo ha dovuto necessariamente staccarsi dalla letteratura e sporcarsi le mani con la cronaca, perché era la gente che lo chiedeva”.
La letteratura, che per Marcello Rubini era l’obiettivo della sua carriera, diventa in Jep Gambardella un fallimento espresso nell’insuccesso dell’unico libro pubblicato in gioventù. “Questa è la metafora di come la società italiana abbia iniziato a pretendere una necessità di verità che il giornalismo non ha potuto ignorare – ha detto Moscati – non solo abbandonando la letteratura, ma anche desolidarizzando con la propria generazione”.
Ma per il regista gli anni ’70 hanno comportato anche un’altra svolta del giornalismo in generale e di quello culturale in senso stretto: “Il nostro è un paese malato – ha detto – che giudica le cose non per la loro attualità, ma dalle interpretazioni preventive degli eventi. Tutto quello che viviamo ora lo viviamo perché c’è stato un manierismo giornalistico inqualificabile. Scalfari quando lanciò le pagine culturali de La Repubblica parlò di ‘una zona tranquilla dove si potesse fare cultura’, una zona neutra tra la politica e lo sport. Ma che cosa significa fare cultura se ci limitiamo alle recensioni dei libri e dei film? La cultura, più di ogni altra cosa, deve essere collegata all’attualità”.
Italo Moscati, che oltre a essere autore e regista è prima di tutto un giornalista, ha chiuso il suo racconto definendo festival e convegni sulla cultura una copertura che spesso mette davanti alla tragicità dell’informazione culturale italiana: “I giornali non danno nessuna soluzione, ratificano il principio di una democrazia che non sa più dove andare. Non siamo un paese alfabetizzato, siamo spettatori che non si fanno coinvolgere da nulla se non dai talk show. E io che ho cominciato come giornalista ho l’orgoglio di un giornalista che pensa che l’alfabetizzazione debba iniziare prima di tutto da se stesso”.