Istituto per la Formazione
al Giornalismo di Urbino

i corsi - la sede - contatti
gli allievi - i docenti - l'istituto

Network di giornalisti di inchiesta svela gli affari della mafia che investe in Africa

Screenshot-2015-04-19-11.58PERUGIA – La linea della palma, la penetrazione della mafia nel territorio italiano – diceva Sciascia – si va spostando poco a poco ma di continuo verso il nord Italia. Ma quella linea si è spostata anche verso sud, ha attraversato il deserto del Sahara ed è arrivata fino in Sudafrica. Lo ha messo in luce un’inchiesta internazionale, condotta da un network di giornalisti investigativi, seguendo le tracce di diamanti e soldi che lascia muovendo i suoi affari verso l’Africa, e che ha portato a scoprire un giro di denaro, terre e uomini nascosto ma non per questo trascurabile.

L’idea non nasce a Palermo o a Tunisi, ma in un pomeriggio a Londra. Un gruppo di freelance italiani, membri dell’International reporting project Italy e specialisti del giornalismo investigativo, partendo da due righe di un rapporto della Direzione nazionale antimafia sulla criminalità in Tunisia cominciano a cercare casi d’infiltrazione mafiosa nel continente. Le autorità italiane stimano un giro d’affari per 26 miliardi di dollari ma per il gruppo di giornalisti quella cifra non è che la “superficie del potere economico della mafia in Africa”.

Insieme a Stefano Gurciullo, direttore di quattrogatti.info, provano a capire quanto la mafia incassi dai mercati illeciti. Si concentrano su due piste, una in Kenya e l’altra in Sudafrica ma l’indagine interessa 13 paesi. L’inchiesta si chiama “Mafia in Africa”. La pista sudafricana li porta sulle tracce di Vito Palazzolo, il cassiere della mafia originario di Terrasini, implicato in una varietà di affari notevole, e del meccanismo con cui ricicla capitali.

I dati da elaborare sono molti e l’inchiesta finirà con l’impegnare dieci giornalisti investigativi da sei diversi Paesi, un data journalist e un data scientist, tre editori e altre figure per controllare qualità e precisione del lavoro svolto. Ad affiancare l’Irpi c’è l’African network of centers for investigative reporting. Il network africano fornirà le prime fonti sul posto da cui partire per il lavoro d’inchiesta. “Per noi il fatto che ci siano una serie di partner transnazionali con cui potersi scambiare informazioni e notizie è fondamentale. Senza non potremmo fare il lavoro che facciamo”, spiega Cecilia Anesi di Irpi.

Il team si divide in due squadre, una segue la pista delle infiltrazioni in Kenya ma i contatti trovati in prima persona sul posto, senza una mediazione locale, li hanno portati su un binario morto. In Sud Africa l’accesso ai documenti si è rivelato più semplice che in Kenya.

Accedere a documenti di indagine e avere a che fare con la burocrazia per esempio in Sudafrica non è facile per un giornalista straniero. Lo stesso si può dire per l’Italia. La collaborazione tra le varie realtà del network permette di superare questo tipo di ostacoli: “Quando un giornalista straniero ha bisogno di alcuni documenti da una procura italiana – spiega Cecilia – noi gli facciamo da intermediari. Immaginate quanto possa essere difficile per chi non parla la lingua ottenere qualcosa qui”.

Per questo ad Irpi sono particolarmente fieri di essere i primi in Italia a proporre un modello di giornalismo investigativo che prende a esempio quello anglosassone. Collaborazione con altre testate, verifica scrupolosa delle fonti, lasciare a chiunque sia coinvolto nell’inchiesta la possibilità di esprimere il suo punto di vista.

Accumulati i dati bisogna però passarli al setaccio, lasciare indietro le scorie e verificare l’attendibilità di quel che s’intende pubblicare. Editor e direttori fanno un lavoro di controllo per evitare i rischi di denuncia che sempre accompagnano questo tipo di lavoro. Lavorare in un network dà un vantaggio: i controlli sono maggiori e le informazioni sono valutate da esperti di più settori. Avvocati, informatici e altre figure.

Una volta svolto un fact-cheking completo bisogna fare un passaggio ulteriore prima di pubblicare. Calcolare i rischi che un lavoro può portare a sé e alla propria redazione. “Per ogni storia che si sta seguendo va fatta una valutazione a priori del rischio e dei soggetti a cui potresti pestare i piedi”. A partire da questa valutazione si stabiliscono anche le misure a cui attenersi per rendere il proprio lavoro sicuro per sé e per le proprie fonti. E le precauzioni da adottare per rendere i propri dati e informazioni impenetrabili attraverso la crittografia. “Chi tratta di mafia – continua Cecilia Anesi – sa bene che per quanto sia un’organizzazione potente non si correrà il rischio di venire intercettati per mano sua. Invece in Sudafrica è molto più facile. Chiunque infatti può noleggiare una security farm con la quale può intercettarti”.

Inchieste di questo tipo richiedono impegno e mesi di lavoro. Per questo Irpi sul suo sito dichiara di finanziarsi in modo alternativo “proponendo progetti a charities, cioè a enti benefici, e a primarie fondazioni internazionali, europee o americane, che hanno a cuore il futuro del giornalismo investigativo e nei loro statuti prevedano di sostenerlo”.

Per ogni inchiesta si parte da zero. Non c’è una regola fissa e ogni lavoro richiede una chiave da proporre al pubblico. Scrivendo per un network internazionale bisogna far sì che le storie siano interessanti per il pubblico americano come per quello tedesco, che hanno sensibilità diverse. “Noi siamo giornalisti come gli altri, dobbiamo vendere le nostre storie –dice Lorenzo Bagnoli, altro membro di Irpi- e renderle interessanti e comprensibili per tutti è la nostra sfida. Sulla mafia in Africa siamo appena all’inizio”.

Sullo stesso argomento:

I commenti sono chiusi