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Tedeschini Lalli: “Il giornalismo è digitale. Ha bisogno di integrazione di cervelli”

di    -    Pubblicato il 24/04/2015                 
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Mario Tedeschini Lalli, giornalista dell'Espresso

Mario Tedeschini Lalli, giornalista dell’Espresso

URBINO – Parola d’ordine: integrazione. Di strumenti? Di mezzi comunicativi? Non solo. Integrazione di cervelli. Mario Tedeschini Lalli, vice responsabile innovazione e sviluppo del Gruppo Editoriale L’Espresso e docente di Giornalismo digitale all’Ifg di Urbino, ha parlato a margine del panel “Dov’è la cultura oggi” dedicato all’universo del web. Tanti i temi trattati: dal futuro della carta stampata al ruolo del giornalista come “curator” nell’universo digitale.

Dopo l’incontro dedicato alla carta stampata siamo passati al web. Come sono strutturate oggi le redazioni? C’è integrazione tra i diversi mezzi comunicativi?
“Nelle grandi testate non c’è molta integrazione, o comunque ce n’è poca. La parola d’ordine “integrazione” è quasi vecchia ormai, essendo entrata in voga nel 2005-2006. Il problema adesso non è integrare la carta col web o la televisione col web. Il vero problema è di immaginare di integrare i cervelli, immaginare una produzione giornalistica che sia digitale nella testa e che quindi produca materiali digitali fruibili in tutte le diverse forme. I grandi e piccoli giornali internazionali hanno una piccola squadra che si occupa del giornale di carta, come uno dei tanti prodotti. C’è un’unica redazione che si occupa dei contenuti giornalistici di quella testata, poi i diversi gruppi di lavoro adattano quel dato contenuto nelle diverse forme editoriali. Ciò accade, ad esempio, nel Financial Times dove ci sono dieci giornalisti che prendono parte dei materiali e li confezionano in maniera adeguata per il prodotto cartaceo”.

Secondo lei la carta stampata rappresenta un utilizzo di risorse umane ed economiche eccessivo? Che futuro vede per questo prodotto?
“Beh, non sta a noi decidere se tenere o no in vita il prodotto cartaceo. Basta guardare i numeri: i grandi giornali italiani che all’inizio degli anni ’90 vendevano 600/700 mila copie adesso si trovano a venderne poco più di 200mila. Ci sarà un momento in cui la curva dei ricavi incrocerà quella dei costi e il prodotto non sarà più sostenibile. Non è un se, è una questione di quando. Tuttavia resta uno strumento di ricavo forte e va curato, fatto funzionare e tenuto in forze. Ma, come ho già detto in precedenza, quello cartaceo è soltanto uno dei prodotti che la testata produce. È evidente che, in una redazione dagli esteri, i corrispondenti della testata produrranno un prodotto giornalistico completo, da tradurre poi anche per le pagine del giornale. Fino a che non si arriva ad un’idea di questo genere credo che soffriremo. Ritardiamo il momento nel quale redazione e giornalisti prendono coscienza del fatto che tutto il loro materiale è in realtà già materiale digitale”.

Nel suo intervento ha detto chiaramente che il giornalista culturale, in quanto declinazione di quello digitale, deve essere un “curator”. Quali strumenti deve avere il giornalista per svolgere a pieno il suo ruolo?
“Tutti i giornalisti, tutti i giornali da quando il giornalismo è giornalismo, ovvero dal 1830, hanno svolto questa funzione: riferire ed indicare ciò che altri scrivevano o raccontavano. Il giornalista non solo informa correttamente, ma orienta il cittadino tra i molti flussi informativi che ha di fronte. È una funzione storica. Vi è ancora di più nell’universo digitale, dove tutto ciò è ancora più complesso. Quindi è fondamentale indicare dei percorsi di conoscenza diversi: che si tratti di un semplice link fino ad arrivare a percorsi ben più complessi, che servano a mettere insieme temi complessi in maniera ragionata, oppure far riemergere argomenti vecchi in una chiave attuale”.

Quale potrebbe essere un esempio positivo di giornalismo culturale applicato al web?
“Un esempio eccellente è senz’altro l’esperimento culturale di Maria Popova che con il sito Brain Pickings è riuscita a combinare argomenti e temi diversi, anche da diverse discipline, connettendoli insieme e creando nuove idee fruibili alla massa”.

Dopo il keynote speech di Andy Mitchell al Festival internazionale di Perugia si è sviluppato nuovamente il dibattito sulla reale possibilità di un’alleanza tra Facebook e gli editori. Lei crede che il social network di Mark Zuckerberg si sia già impossessato del mercato, divenendo così l’editore principe del web
“Si e no. La questione è che Facebook è diventato ormai un sinonimo di internet per molte persone. Se Facebook è Internet, questo comporta tutta una serie di problemi, anche di tipo economico. Ad esempio la monetizzazione del traffico o dei dati (non scordiamoci che Facebook è la più grande banca dati mondiale). Se diventa il luogo ineludibile del passaggio di contenuti (e in parte già lo è) evidentemente questo è da un lato un’occasione, ma anche un problema abbastanza serio. Questo discorso non vale solo per Facebook, ma per tutte le grandi piattaforme. Ecco perché a mio avviso le aziende editoriali, entro certi limiti, dovrebbero iniziare a pensare se stesse in termini di piattaforma e interfacciarsi così con il mercato”.

Per concludere, in una battuta: cosa consiglierebbe a un’aspirante giornalista che si affaccia per la prima volta in questo mondo?
“Fallo, non aspettare che qualcuno ti assuma. Voi potete, io quando avevo 20 anni no. Cominciate a fare i giornalisti, misuratevi, provate. È l’unico modo per riuscirci”.

Foto di Jacopo Salvadori e Anna Saccoccio

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