Uomini e camion: una famiglia, Pesaro e 70 anni di Storia

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Vincenzo nel centro storico di Pesaro durante uno dei primi convegni comunisti dopo la caduta del fascimo. Il cavallo si chiamava Bibi ed è stato l'ultimo a trainare il carretto.
di Lucia Gabani

Un carretto trainato da un cavallo, un uomo a tenere le redini mentre viaggia sui sentieri. Nonostante la paura della guerra, lui e la sua gente vogliono continuare a vivere anche se le bombe esplodono e distruggono le proprie case e i campi su cui lavorano.

Arrivando in Italia, inglesi e americani hanno portato cioccolata, sigarette e camion, tutte cose sconosciute o poco frequentate per chi aveva sempre vissuto nelle campagne. Così, in pochissimi anni, la benzina sostituì il fieno, il motore il cavallo, il rimorchio il carretto.

Quinto Gabani era un carrettiere, il figlio Vincenzo lo ha seguito nel lavoro fin da ragazzino, vivendo da protagonista il passaggio dalle redini del cavallo al volante del camion. Gianluca, figlio di Vincenzo, a sua volta ha scelto di fare lo stesso lavoro del padre e del nonno, suo figlio Francesco, anche lui ha perseguito il lavoro dei predecessori, perché, anche nella famiglia della madre, Stefania Manenti, sono tutti camionisti.

Sono cambiati i camion e le merci trasportate. Vincenzo iniziò trasportando materiali per l’edilizia, poi dagli anni Sessanta portava i mobili pesaresi in Sicilia. Dagli anni Ottanta, quella stessa tratta la seguirà Gianluca. Mentre Francesco segue il lavoro del nonno materno, trasportando ferro e materiali riciclabili dalla provincia di Pesaro all’Italia del Nord.

C’è un elemento che oltrepassa il tempo, il tipo di trasporto e le generazioni che si sussuono: la famiglia. Infatti, dietro ogni camionista ci sono madri, mogli e sorelle che a casa ne aspettano il ritorno dei camionisti. Da bambina Stefania saliva su una sedia per guardare dalla finestra e vedere se il camion appena arrivato fosse quello del padre. Quando aveva 21 anni anche il fratello ha iniziato a svolgere questo lavoro. Col matrimonio la sua vita non è cambiata, ma anzi, sono aumentati i camion da cercare nel piazzale. Oltre a quello del padre e del fratello si sono aggiunti quelli della sua nuova famiglia: il marito e il figlio Francesco.


VINCENZO, DAL CARRETTO AL CAMION MILITAREDALLA SABBIA AI MOBILI

STEFANIA E LA VITA DELLE FAMIGLIE DEI CAMIONISTI

GIANLUCA, LA COMUNITÀ DEL BARACCHINOVACANZE IN CAMION COI BAMBINI

EMILIO, IL TRASPORTO ASSOCIATO


I Gabani sono una delle tante famiglie del pesarese in cui, una volta diventati adulti, gli uomini scelgono di seguire i padri e diventare camionisti. Questa è la mia famiglia e questa è la loro storia, ma anche la storia di un territorio, di una città e di come l’attività di queste persone ha accompagnato la trasformazione economica ed umana.

Quinto, il primo trasportatore in famiglia

L’Italia degli anni Quaranta viveva di agricoltura, ma nel pesarese, come nelle altre zone dove passava la linea Gotica, i combattimenti del bombardamenti degli alleati del 1944-1945 indebolirono ancora di più terre già povere. Nel centro Italia le società erano rurali ma con l’intensificarsi del conflitto la disponibilità di cibo diminuiva mentre la disoccupazione e il costo delle merci aumentavano a dismisura.

Quinto abitava con la moglie e i tre figli a Montecchio, nell’entroterra di Pesaro. Avendo un paio di cavalli e qualche risparmio da parte, alla fine degli anni Trenta aveva comprato un semplice carretto a due ruote per vendere i prodotti della sua terra nei paesi vicini. “All’inizio il lavoro del carrettiere era stagionale, si lavorava in estate” racconta Vincenzo, il primogenito di Quinto: “Solo dopo la guerra è diventato un vero e proprio lavoro”.

Durante la guerra molte famiglie dall’entroterra furono costrette a trasferirsi in una vecchia casa colonica vicina alla costa  e in prossimità del centro storico di Pesaro e nella stessa casa vivevano intere famiglie sfollate. Montecchio fu uno dei paesi più colpito dai bombardamenti.

“Quando c’è stata la seconda esplosione mio padre era a Pesaro per accompagnare una famiglia in città. Io avevo 14 anni, mia sorella nove e mia madre allattava mio fratello – spiega Vincenzo – Era inverno e c’era la neve, mio padre aveva saputo dell’esplosione di una bomba vicino casa nostra ma non poteva tornare perché la neve lo aveva bloccato a Pesaro. Era certo di aver perso tutto”.

Era la notte del 21 gennaio del 1944 quando esplose la seconda bomba di Montecchio e Quinto era lontano dalla moglie e dai figli. Non era a casa per garantire alla sua famiglia la possibilità di sopravvivere alla tragedia della guerra. Ma, sapendo che lo scoppio era avvenuto a poche centinaia di metri da casa sua era convito di essere rimasto solo al mondo.

Quando la neve si è sciolta, Quinto è tornato. La casa non aveva più il tetto e dentro non c’era nessuno. Un vicino gli ha detto che la moglie e i figli stavano bene ed erano andati da sua sorella a Osteria Nuova, a quattro chilometri di distanza dalle rovine della loro casa.

“Dopo la bomba del ’44 anche noi ci siamo trasferiti a Pesaro”. La guerra stava per finire e la gente voleva lasciarsi la paura e il dolore degli ultimi anni alle spalle e andare avanti, verso un futuro migliore. “Sul lungo mare c’era solo la spiaggia e un paio di edifici. In pochi anni si è riempito di hotel e villette”.

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Vincenzo, dal carretto al camion militare

In quel 1944, ormai compiuti 15 anni, Vincenzo decise di seguire il padre nel lavoro di carrettiere: “Volevo essere libero e mi piaceva viaggiare. Facendo il carrettiere potevo uscire dai confini di casa, incontrare persone che non fossero del paese e quella per me era già una conquista”. Fu così anche quando cominciò la ricostruzione: “Portavo la sabbia dalle spiagge di Misano al lungo mare di Pesaro perché dovevano costruire nuovi edifici. Mi piaceva quel lavoro anche se era faticoso: caricavamo il carretto con la pala, eravamo io e uno o due operai, dipendeva dal giorno. Una volta riempito il carretto, io tornavo a Pesaro e poi con altri dipendenti dovevamo riscaricare tutto. In un quarto d’ora caricavamo un metro cubo ed erano circa due tonnellate di sabbia e in altrettanto tempo lo dovevamo riscaricare”.

Musone

Vincenzo (sinistra) nel 1950 con tre operai sulla spiaggia di Misano Adriatico dove caricavano la sabbia sul “musone”, un GMC

“La guerra mi ha fatto camionista”, sintentizza Vincenzo: “Ho iniziato a fare il carrettiere quando c’era la guerra perché era remunerativo, poi ho continuato a fare il camionista perché mi pagavano e viaggiavo”. Fu uno dei primi camionisti della zona e come i altri colleghi del tempo iniziò con un camion militare lasciato dagli alleati. Erano quelli col motore davanti la cabina di guida e sono gli stessi che, ancora oggi, nell’immaginario collettivo sono i camion americani, i cosiddetti “musoni“.

Negli anni Cinquanta e Sessanta gli italiani volevano migliorare le proprie condizioni di vita, rimboccandosi le maniche e lavorando giorno e notte. Quella generazione sapeva bene che nulla era regalato e che ogni singolo desiderio si realizzava col duro lavoro.

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Dalla sabbia ai mobili

I trasportatori hanno accompagnato i cambiamenti economici e sociali del territorio di Pesaro, dove negli anni Sessanta accanto all’edilizia ha cominciato a fiorire l’industria del mobile, che farà di quel territorio il terzo polo italiano del mobile, dopo quello della Brianza e di Treviso-Pordenone.

Ancora Vincenzo: “Fino al 1962 trasportavo gli inerti ma il guadagno era sempre meno, allora ho chiesto consiglio ad un amico falegname. Mi ha detto te hai un camion, io i mobili da consegnare in tutt’Italia, inizia a lavorare per me, poi vedrai che altri ti chiederanno di consegnare anche i loro mobili. Il lavoro non manca. E così è stato. I primi tempi facevo consegne in tutto il paese e le differenze tra Nord e Sud erano tante. Andando a Nord si percorrevano strade asfaltate, si vedevano le fabbriche, delle case nuove. Andando al Sud invece, prevaleva ancora il paesaggio rurale e spesso venivamo rallentati dai carretti trainati dai cavalli”.

Uno dei camion con cui Vincenzo ha trasportato i mobili da Pesaro alla Sicilia

Un OM100 che serviva a Vincenzo per trasportare i mobili da Pesaro alla Sicilia nel 1968

La maggior parte degli ordini proveniva dall’Italia centrale e meridionale e nel giro di pochi anni la Sicilia è diventata la destinazione fissa di Vincenzo. Gli ordini che arrivavano ai falegnami pesaresi erano più di quelli che essi erano in grado di soddisfare, le piccole botteghe chiudevano per diventare fabbriche in continua espansione. Non esiste una spiegazione del perché a Pesaro si sia sviluppata l’industria del mobile ma proprio questa produzione ha arricchito la città e garantito il lavoro alla maggior parte della popolazione.

Per molti anni i camionisti hanno lavorato senza una regolamentazione precisa a livello fiscale né, tanto meno, a livello sindacale. I mobilieri affidavano le consegne della propria merce ai “padroncini” di camion. A ogni viaggio, partivano sempre due camionisti per ottimizzare il tempo così mentre uno si riposava l’altro guidava e quando giungevano a destinazione potevano scaricare più velocemente. Le soste erano pressoché inesistenti. Ci si fermava quando era ora di darsi il cambio alla guida o se c’era un problema al camion.

Fino alla fine degli anni Settanta, il carico era voluminoso perché gli armadi, i salotti e le camerette erano montati a Pesaro e posizionati dentro i cassoni dei camion così come sarebbero stati nelle case degli acquirenti. Era inevitabile che la merce si rovinasse in viaggio ma non era un problema perché Vincenzo e i suoi colleghi scaricavano nelle botteghe dei falegnami, che correggevano i danni prima della vendita.

“La frenesia di quegli anni era unica. Quando facevamo la prima consegna il falegname di turno ci diceva lasciatemi dieci armadi! Dai veloci! Io controllavo la bolla e magari alla ditta ne avevano ordinati solo quattro. Allora gli spiegavo che non potevo perché gli altri avevano un altro destinatario. Non importa, inventati qualcosa, scaricateli anche se sono rovinati che poi li aggiusto io. La gente non fa altro che chiedermi i mobili. Ve li pago tutti e dieci in contanti”.

Vincenzo ha visto e vissuto il cambiamento dell’Italia. Dalla miseria della guerra, fino all’ottimismo del boom economico. Non è stato solo il paesaggio del paese a cambiare, il benessere ha cambiato le persone.

“I primi tempi, quando non sapevo dove si trovasse una bottega, mi fermavo a chiedere in un bar e ogni volta trovavo una persona che si proponeva di accompagnarmi il più vicino possibile alla mia meta. Anche se non mi conoscevano mi aiutavano perché vedevano che ero forestiero, erano generosi, mi offrivano quello che avevano, anche se era poco”.

“Ma poi, come sempre accade, quando arriva l’industria arriva anche il turismo, inizia a prevalere la diffidenza e la gente è sempre più egoista. Arrivare in Sicilia era complicato. Sia i treni che i camion arrivavano al porto di Reggio Calabria per essere imbarcati per Messina. Però, i treni avevano sempre la precedenza, così noi camionisti dovevamo stare fermi anche un giorno e mezzo al porto in attesa del traghetto”.

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Stefania e la vita delle famiglie dei camionisti

Per ogni camion in viaggio, c’è un’intera economia di affetti e di organizzazione che sostiene il camionista e all’interno di questa economia c’è una donna come Stefania, nuora di Vincenzo. A sua volta figlia di camionista e sorella di camionista, ha sposato il camionista Gianluca ed è ora madre del camionista Francesco.

“Ho imparato fin da bambina a capire chi era tornato sentendo il rumore del camion che stava parcheggiando”, racconta Stefania: “L’unico che aspettavo veramente era mio padre. Poi si è aggiunto mio fratello. Il destino ha voluto che sposassi un camionista e mio figlio, a meno di vent’anni, aveva già preso ogni tipo di patente per diventare anche lui un autotrasportatore”.

“Penso che nelle famiglie di camionisti ci siano due equilibri: uno quando tutti sono a casa e l’altro quando invece non ci sono”, dice Stefania. Ha iniziato a rendersene conto quando aveva una ventina d’anni e suo fratello, appena diciassettenne, ha iniziato a seguire un autista del padre nei viaggi: “Mi sono scoperta apprensiva. Invece, quando non sono via col camion sono più tranquilla, anche se non siamo insieme ho come l’impressione che siano esposti a meno rischi”. Basta una sirena dell’ambulanza o vedere i lampeggianti per strada perché  si spaventi.

La maggior parte dei suoi parenti sono camionisti. Non solo il padre, il fratello, il marito, il figlio, ma anche gran parte degli zii e dei cugini: “Non voglio dire che vivo nel terrore ma sono cosciente del fatto che tutti loro sono esposti a dei pericoli reali e non ignoro il fatto che potrebbe accadere”.

Il momento del distacco è sempre stato difficile, per questo, fin da bambina, Stefania ha elaborato una sorta di rito prima di vedere uno dei camionisti di casa partire: “Mio padre non passava molti giorni fuori casa e con noi ci stava solo qualche ora la sera. Uno dei ricordi più nitidi sono le cene. Mentre mangiavamo, arrivavano i camionisti di mio padre e si sedevano con noi. Dopo che mia madre aveva preparato il caffè per tutti, io e mio fratello andavamo nel parcheggio sotto casa, e aiutavamo i camionisti a controllare che le luci e le gomme del camion fossero a posto. Loro entravano nelle cabine mentre io e mio fratello salivamo su un muretto e li salutavamo uno ad uno”.

Avere un padre camionista significa che il figlio maggiore sente di avere molte responsabilità: deve aiutare la mamma e prendersi cura dei più piccoli di casa. Avendo un fratellino minore, Stefania era protettiva con lui e quando ha iniziato a viaggiare lo “coccolava” preparandogli il pranzo al sacco. “Prima di andare a lavorare compravo cioccolatini e biscotti per mio fratello e per l’autista, poco più grande di lui. Erano piccoli d’età e di aspetto, sembrava di veder partire due bambini. Una volta sono stai fermati. I due poliziotti non credevano che avessero 21 e 17 anni, nonostante siano stati più di un’ora a controllare i documenti, era tutto in regola. Ormai rassegnati, un poliziotto ha notato il frigo bar e ha pensato di chiedere un paio di birre. Mio fratello ha sollevato il coperchio e dentro c’erano solo succhi di frutta e cioccolatini”.

Negli anni Settanta il fratello di Stefania e l’autista andavano da Pesaro a Ravenna, più volte al giorno, per caricare il truciolare. Molti mobilifici infatti, avevano iniziato ad usare questo materiale perché semplificava la produzione di serie a cui dovevano far fronte.

Stefania e la sua famiglia si erano trasferiti da Urbino a Pesaro ma alla fine degli anni Sessanta avevano lasciato il centro della città per andare a vivere a Case Bruciate, un paese a poche centinaia di metri dal casello di Pesaro dell’autostrada. Quando sono arrivati c’erano cinque case in tutto, in meno di dieci anni il vicinato è aumentato e, proprio per la vicinanza all’autostrada, molti di loro erano e sono camionisti.

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Gianluca, la comunità del “baracchino”

A Gianluca, figlio di Vincenzo, i camion erano sempre piaciuti e a 16 anni cominciò a pensare di fare lo stesso mestiere: “Mio padre era un autotrasportatore e consegnava i mobili in Sicilia, così, dopo il servizio militare ho provato a fare qualche viaggio con lui e ho avuto la certezza che quello era il lavoro che volevo fare. Il senso di libertà che ho trovato facendo il camionista penso che non lo troverei in nessun altro lavoro”.

La libertà è un’aspirazione comune tra i camionisti. Viaggiare per l’Italia e per l’Europa permette di vedere ed esplorare nuovi posti, conoscere nuove persone ed entrare a stretto contatto con la cultura del posto. Le ore alla guida possono essere il momento più bello per gli uomini della strada perché, seppur soli nelle loro cabine, hanno tanti compagni di viaggio a distanza, uniti – in epoca pre-cellulari – dalle conversazioni tramite le ricetrasmittenti radio CB, i cosiddetti “baracchini”.

“Fino agli anni Novanta era bellissimo fare il camionista, non solo perché c’era più lavoro e si guadagnava di più ma perché eravamo un gruppo”, spiega Gianluca: “Ci davamo appuntamento in uno dei grandi piazzali della zona industriale. Il motto era: Il primo che arriva aspetta l’altro. Quando poi eravamo arrivati tutti accendevamo i motori e uno dietro l’altro uscivamo dal piazzale per raggiungere il casello dell’autostrada. Accendevamo i baracchini, le radio e il viaggio era un susseguirsi di barzellette e di risate”.

Ci sono 970 chilometri tra Pesaro e Reggio Calabria. Grazie ai baracchini i camionisti pesaresi potevano parlare anche con i colleghi delle altre regioni d’Italia: “I baracchini sono utili per scambiarsi le informazioni sul traffico. Però quando partivo con i miei colleghi la domenica sera li usavamo per parlare e per tenerci svegli”.

Gli argomenti della domenica notte erano leggeri, spesso barzellette o pettegolezzi di lavoro: “Una volta – ricorda Gianluca – abbiamo fatto la classifica delle impiegate: le dieci più belle, le dieci più antipatiche, le più dieci più brave eccetera. Abbiamo riso per tutta la notte e il viaggio verso la Sicilia è volato. Nelle settimane successive quando c’incontravamo continuavamo i commenti senza dire il nome della diretta interessata e, in base a come si comportavano con noi, cambiava la posizione nella classifica. Le impiegate ci guardavano smarrite perché non capivano il senso di quello che dicevamo, mentre noi continuavamo i nostri commenti e l’aggiornamento delle nostre classifiche in loro presenza”.

Quasi tutti gli autotrasportatori hanno un soprannome col quale si presentano quando parlano col baracchino. Quel nome è rappresentivo di una caratteristica del camionista che rivendica la sua identità scrivendolo sul camion: l’aspetto un po’ burbero e il cuore grande sono valsi a Gianluca il soprannome di “Brontolo”. Nel suo vecchio Volvo aveva fatto disegnare un primo piano del nano della favola di Biancaneve.

Il senso di comunità è un po’ cambiato con il passare degli anni. La crisi economica, l’arrivo di molti autotrasportatori stranieri che parlano poco l’italiano e l’aumento dello stress lavorativo, dicono i camionisti, hanno rovinato il fascino del mestiere. Molte aziende hanno ridotto il magazzino così quando chiamano i fornitori pretendendo che la merce arrivi nel minor tempo possibile e la programmazione ha tempi sempre più stetti.

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Vacanze in camion coi bambini

Il camion con cui Gianluca e la sua famiglia hanno raggiunto la meta delle vacanze estive

Il Volvo F12 con il quale Gianluca e la sua famiglia nel 1991 hanno raggiunto la meta delle vacanze estive

Chi vive a Pesaro ha molte probabilità di avere amici camionisti e la curiosità di fare un viaggio (di piacere) col camion ha stuzzicato la curiosità di molti. Quando era giovane, per l’ultimo viaggio prima delle vacanze estive Gianluca partiva sempre con un paio di amici per fare le ferie insieme in Sicilia: “Quando finivo di scaricare lasciavo il camion nel deposito di Catania e raggiungevo i miei amici. La Sicilia mi è sempre piaciuta e ancora oggi se ho l’occasione passo volentieri le mie vacanze nella grande isola”.

Col passare del tempo e col crescere della famiglia i compagni di vacanza di Gianluca sono cambiati. Ad agosto nella cabina salivano la moglie Stefania e i due figli.

Insieme ai Gabani altre famiglie partivano per le vacanze a bordo di un camion. I bambini sedevano nella cuccetta/letto, dietro ai sedili dove stavano i genitori, e cantando le canzoni estive che trasmettevano alla radio percorrevano quasi mille chilometri. Le ore passate dentro la cabina erano la parte più bella del viaggio e per quei bambini l’atmosfera era persino più gioiosa di quella della notte di Natale.

Con la crisi degli anni Duemila il fascino delle comunità di camionisti è diminuito e persino chi, come Gianluca, ha sempre amato questo mestiere, trova sempre più difficile continuare un lavoro che non appaga più come prima.

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Emilio, il trasporto associato

All’inizio degli anni Settanta alcuni “padroncini” di camion si sono aggregati in consorzi per essere più competitivi nel mercato, abbattere le spese di gestione e aiutarsi reciprocamente per a raggiungere il pieno carico prima di ogni partenza.

La Carp è una delle realtà più antiche di Pesaro, è stata fondata da un gruppo di camionisti nel 1973. Tre anni più tardi hanno cambiato la forma costitutiva diventando una cooperativa, in quello stesso anno è entrato Emilio Pietrelli, diventato oggi lo storico direttore.

“La cooperativa lavora in una logica di trasparenza: siamo noi dagli uffici a preparare le fatture e i documenti per gli autotrasportatori” spiega Pietrelli. I camionisti che non lavorano per grandi aziende come dipendenti, sono organizzati in consorzi o cooperative perché diventa più facile gestire l’aspetto amministrativo del lavoro ed è più facile presentarsi a nuovi clienti: “Il rischio d’impresa non è più in mano all’autotrasportatore ma se lo assume la cooperativa”.

Una grande rivoluzione per il mondo dei trasporti sono stati i cellulari. “Prima avevamo un baracchino per comunicare con i nostri autisti. Il cellulare ha semplificato molto la comunicazione perché in questo modo possiamo comunicare in modo rapido e veloce con i camionisti”. Con i GPS nei camion è possibile per Pietrelli e gli altri dell’ufficio amministrativo vedere da uno schermo televisivo una cartina dell’Italia con dei camioncini colorati che rappresentano ogni autista in viaggio. Attraverso il GPS infatti, è possibile sapere dove si trovano i camionisti e a quale velocità stanno percorrendo il tragitto calcolando tra quanto tempo arriveranno a destinazione.

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Questo servizio è un Progetto di fine corso per il biennio 2014-2016 dell’Istituto per la Formazione al giornalismo di Urbino (IFG), pubblicato il 18 marzo 2016.