Pluto non c’è più. Tra storia e ‘mito’: il ricordo della ‘sua’ piazza – FOTO

di YURI ROSATI

URBINO – Il manifesto funebre è attaccato al muro da almeno una settimana. La pioggia lo ha infradiciato. Gli angoli si sono stropicciati. Tra poco sarà coperto da quello di un altro. Sopra, in stampatello, c’è scritto Giovanni Fedrighelli. Poco più in basso, tra parentesi, Pluto: il nome con cui tutti conoscevano e ricorderanno uno dei personaggi più caratteristici e amati di Urbino. Un nome dall’origine sconosciuta e misteriosa, come molte cose nella vita di un individuo che sembrava uscito da una canzone di De André.

Suo fratello Giuseppe sostiene che da piccolo nessuno lo chiamasse in quel modo e ipotizza che il soprannome sia arrivato quando i due avevano già perso i contatti. Quel che è certo è che Pluto, con il suo cappello da pescatore, l’eschimo e la sigaretta in bocca era un’istituzione della sua città, guardiano fisso e inamovibile di piazza della Repubblica che per lui era come una seconda casa. “Se qualcuno mi cerca basta che venga in piazza – diceva in un’intervista video girata nel 2015 dal giornalista di Urbino Tiziano Mancini – io sono sempre qui: ormai faccio parte del paesaggio, come la fontana”. Gli urbinati e gli studenti lo consideravano un elemento della scenografia, una figura mitica presente a Urbino dai tempi del Duca, un immortale.

Tra mito e realtà

Pluto stesso si vedeva come un “ornamento della città”. Su di lui si raccontano le leggende più disparate, spesso chiacchiere da bar che Pluto contribuiva ad alimentare, a volte storie con un fondo di realtà. La più celebre è quella di un presunto sequestro a scopo di libidine di cui Giovanni sarebbe stato vittima. Leggenda vuole che una facoltosa donna della zona si fosse invaghita di lui e lo avesse tenuto segregato nella sua camera da letto, nutrendolo solo con succulente bistecche, fino a che Pluto non riuscì a fuggire dalla finestra calandosi con le lenzuola.

Una storia vera invece, testimoniata da numerose immagini, è quella del servizio fotografico realizzato da Pluto per Karman, azienda di arredamento e design per interni. Era il 2016 e tutti gli urbinati restarono sorpresi. Storie a parte, in pochi – forse nessuno – possono dire di averlo conosciuto veramente. La maggior parte di quelli che lo frequentavano conoscevano soltanto il personaggio Pluto, ma ignoravano chi fosse Giovanni, lato che lui teneva ben protetto sotto la sua scorza burbera e dietro la barba folta e lunga.

L’urbinate giramondo

Classe 1950, Fedrighelli era il minore di quattro fratelli. In più, dai matrimoni precedenti dei suoi genitori, aveva ‘ereditato’ altri quattro fratellastri (tre da parte di padre e uno di madre). Si definiva “urbinate doc” anche se, nel corso della vita, aveva abitato in tante città. Ma Urbino, dove era nato, è stato il suo ultimo approdo. Qui aveva già passato i primi anni della sua vita. Poi, alla morte del padre, era entrato in un convitto. “La madre – spiega Luigi Fedrighelli, nipote di Pluto – non poteva permettersi di mantenere tutti quei figli e fu costretta a mandarlo in collegio”. Così Giovanni passa da Urbino a Pergola, da Pergola a Modena e da Modena a Fano. Non torna quasi mai a casa se non per le vacanze. I suoi fratelli nel frattempo si trasferiscono, mettono su famiglia e i legami si allentano.

Finiti gli studi Giovanni parte per la Svizzera dove lavora per un’industria, prima, e per le ferrovie, poi. Si occupa della spedizione delle valigie che vengono caricate sui treni, alla stazione di Zurigo. “Quando lavorava in Svizzera – racconta il nipote – aveva un’apparenza completamente diversa da quella che conoscono gli urbinati. Bisogna immaginarlo in divisa, con i capelli e la barba in ordine mentre parla in tedesco”. Non è chiaro per quanti anni si sia fermato a lavorare all’estero. Nel video girato da Mancini dice: “Sono rimasto là per una generazione. Nel senso che, nel tempo che ho trascorso in Svizzera, un bambino avrebbe avuto il tempo di nascere, crescere e diventare papà”. Più o meno 20 anni, stima lo stesso Pluto nel video, un po’ di meno (10 o 15) secondo il nipote. Un lungo periodo passato lontano da casa, chiuso con la scelta di tornare perché “un urbinate che va via sente sempre nostalgia”, suggerisce Mancini.

Lo zio ‘mani bucate’

“Quando è tornato a Urbino – continua Luigi Fedrighelli – aveva accumulato abbastanza soldi per comprarsi una casa e della terra. In pochi mesi però aveva già perso tutto”. Il nipote si è sempre chiesto come avesse potuto sperperare in talmente poco tempo i suoi guadagni. Un’ipotesi è che molti dei risparmi dello zio se ne siano andati nelle scommesse che amava fare con gli amici in piazza. “Una volta – ricorda Giorgio Angelini, tassista e conoscente di “Pluto” – ha scommesso che sarebbe riuscito a mangiare 36 uova sode una dietro all’altra”. Altri soldi se ne sono andati nelle sigarette e nel vino, quei compagni inseparabili che “Pluto” non lasciava mai.

Le sue tasche erano sempre vuote. Così ha iniziato a vivere di lavori stagionali, in particolare come boscaiolo. Negli ultimi anni percepiva anche una piccola pensione dalla Svizzera. Le uniche cose di cui non poteva fare a meno erano tabacco, filtri e cartine, le chiavi di casa e una moneta straniera. Come quella che Tiziano Mancini gli ha portato lunedì 12 marzo al funerale.

L’ultimo saluto

“Tutti noi – ha detto durante la messa – quando andavamo in ferie all’estero, sapevamo che bisognava portargli una moneta. Una volta tornati potevano passare anche settimane prima di dargliela in mano. Questa volta non c’è stata la possibilità: solo oggi mi sono ricordato di quella che avevo preso nella mia ultima vacanza, ma è troppo tardi. Questo mi ha fatto capire che non bisogna mai rimandare i gesti d’affetto verso il prossimo”. Queste parole e la poesia recitata da Oliviero Luslini hanno colpito e commosso i famigliari di Pluto, riunitisi all’Annunziata per salutarlo un’ultima volta. Alla cerimonia era presente anche il sindaco Maurizio Gambini, venuto per rendere omaggio a “un concittadino, un urbinate conosciuto e amato da tutti. Un uomo silenzioso che, con la sua morte, ci ha lasciati senza parole”.

Un gruppo di studenti universitari ha partecipato al funerale, ha accompagnato la bara fino al cimitero e ha lasciato dei regali speciali per Giovanni: una bottiglia di vino, un accendino e un pacchetto di sigarette. Nelle stesse ore la gente di Urbino manifestava tutto il suo affetto sui social. Fuori dalla chiesa alcuni ragazzi di Agorà hanno ricordato i momenti passati in piazza con Pluto. “Era una persona con un sacco di sfaccettature – dicono Marcos Maceroni e Chiara Ascanio –, un tipo simpatico che incontravamo spesso al bar in centro e veniva a chiacchierare con noi. Sembrava un personaggio uscito da una canzone di De André”. Sicuramente la sua apparenza e i suoi modi di fare erano frutto di una scelta e non di una costrizione economica.

“Dedichiamogli una statua”

Uno dei più grandi amici di Pluto è stato Francesco Federici. Uno degli ultimi ad averlo incontrato in giro a Urbino poco prima che scomparisse. “Ci siamo visti in fondo a via Saffi – ricorda – era il primo giorno di neve di febbraio e lui andava in giro come se niente fosse. ‘Finalmente nevica’, mi ha detto”. Al funerale dell’amico però non è andato: non poteva sopportare l’idea di vederlo morto, dopo che, con la sua macchina, avevano girato tutt’intorno a Urbino. “Il ricordo più bello che conservo di lui? – dice – Non ce n’è uno in particolare perché ogni incontro era una gioia. Pluto era il migliore perché non aveva pregiudizi e non era invidioso, viveva la vita che voleva senza prendersela con nessuno”. Poi esprime un desiderio: “Mi piacerebbe che la città dedicasse una bella statua o una targa in memoria del suo ‘custode’”.

Una scelta di vita

“Mio zio non era ricco – sostiene Fedrighelli – ma non viveva neanche in mezzo a una strada. La sua era una scelta di vita e, proprio per questo, lo ricordo come un simbolo di libertà e di coerenza. Ha voluto vivere senza vincoli ed è morto da uomo libero. Qualcuno potrebbe dire che è morto in solitudine. Io dico che se n’è andato come avrebbe voluto: senza conoscere la malattia, senza dipendere da qualcuno”.